DAL KEROSENE AL SOLARE: LA RIVOLUZIONE ENERGETICA IN KENYA
In Kenya un gruppo di giovani installatori fotovoltaici porta sistemi solari alle famiglie che ancora usano lampade a kerosene, costose e dannose per la salute.
L’obiettivo del gruppo è la fornitura diunasoluzione a basso costo e di alta qualitàper risolvere il problema energetico delle popolazioni che vivono intorno alla foresta Mau. A oggi, la fonte primaria di energia per illuminare le abitazioni è infatti ancora la lampada a kerosene, che causa gravi problemi di salute per via delle emissioni di gas e comporta elevati costi di gestione per le famiglie.
Nel corso di queste settimane il lavoro del gruppo è proseguito con la realizzazione del materiale promozionale (volantini e manifesti) da poter usare per presentare i prodotti solari durante gli incontri con le comunità locali e da distribuire nei mercati della zona.
Il progetto Imarisha mira infatti a promuovere, attraverso il gruppo, raccoltosi sotto il brand You Green, soluzioni solari che possano rispondere a necessità di illuminazione, ricarica cellulari, e funzionamento di radio e TV.
Il gruppo in questo momento sta promuovendo sistemi solari ad hoc, ovvero studiati secondo le esigenze dei clienti, e sistemi solari plug and play. Questi ultimi sono certificati Lightening Global, uno standard che ne garantisce la qualità.
Mrs. Margret Wambui Kabiru, residente nella zona di Njoro, è stata la prima cliente di un sistema plug and play.
Inizialmente Margret in casa usava lampade a kerosene ma la luce prodotta non era adeguata ai suoi bisogni e a quelli della sua famiglia. Con l’installazione del sistema solare la sua vita è radicalmente cambiata.
“Sono finiti i fumi, ho luce e i miei bambini possono studiare – racconta Margret – In più i miei problemi di salute sono scomparsi. Non ho più dolori al petto e difficoltà a respirare. Risparmio e con la TV posso vedere le notizie. You Green è stata fondamentale dandomi la possibilità di poter usufruire di questi prodotti”.
PIÙ FORTI DELL’ACCIAIO: A GRANDE RICHIESTA LA REPLICA DEL FILM A MILANO E A TARANTO
Tre persone, tre vite diverse, tre luoghi distanti. Tutti legati da un unico filo conduttore: l’acciaio. Simbolo dell’industria estrattiva e siderurgica mondiale, l’acciaio fa da ingombrante sfondo al nuovo, intenso, lungometraggio commissionato da Mani Tese, Ong che da oltre 55 anni si batte per la giustizia sociale e ambientale nel mondo, alla regista Chiara Sambuchi […]
Tre persone, tre vite diverse, tre luoghi distanti. Tutti legati da un unico filo conduttore: l’acciaio. Simbolo dell’industria estrattiva e siderurgica mondiale, l’acciaio fa da ingombrante sfondo al nuovo, intenso, lungometraggio commissionato da Mani Tese, Ong che da oltre 55 anni si batte per la giustizia sociale e ambientale nel mondo, alla regista Chiara Sambuchi “PIÙ FORTI DELL’ACCIAIO”.
A grande richiesta, a Milano e a Taranto la replica del film documentario di Mani Tese
MILANO, CINEMA ANTEO, 18 DICEMBRE 2019, ORE 21.00
Seguirà dibattito con: Lucia Capuzzi, giornalista di Avvenire Danilo De Biasio, direttore del Festival dei Diritti Umani
“PIÙ FORTI DELL’ACCIAIO” è un vero e proprio viaggio emotivo sulle conseguenze sociali e ambientali di una delle filiere produttive più controverse, che inizia dalla più grande miniera a cielo aperto del mondo nello stato amazzonico del Parà, in Brasile, prosegue fino all’impianto siderurgico di Taranto e termina a Duisburg, nell’ ex bacino della Ruhr, in Germania.
“Mani Tese prosegue il suo impegno per la promozione di una cultura di impresa che sia capace di coniugare la redditività con il rispetto dei diritti umani e dei cicli naturali – dichiara Giosuè De Salvo, Responsabile Advocacy, Educazione e Campagne di Mani Tese – attraverso la proposta di un documentario profondo, a tratti commovente, che vuole ‘volare alto’ rispetto alla cronaca di questi giorni e innescare un dibattito pubblico sulla transizione industriale richiesta dalle sfide del cambiamento climatico e degli altri obiettivi di sviluppo sostenibile delle Nazioni Unite, lanciati nel 2015 con orizzonte al 2030”.
I tre personaggi
Pixininga è un piccolo agricoltore brasiliano che lotta per la sopravvivenza dei contadini nella regione brasiliana del Carajas, occupata, per più della metà della sua superficie, dal gigante dell’estrazione mineraria Vale.
Grazia, pediatra tarantina, ha un chiodo fisso: la chiusura dell’acciaieria della sua città, per non dover più spiegare ai suoi piccoli pazienti perché i bimbi e i loro genitori a Taranto muoiono prima degli altri.
Nella cittadina tedesca di Duisburg, nel cuore del bacino della Ruhr, Egbert lavora alla conversione di un enorme stabilimento siderurgico, sanato dopo la sua chiusura, in un parco naturale per famiglie.
“’PIÙ FORTI DELL’ACCIAIO’ è un film sulla presa di coscienza, sulla volontà indistruttibile di voler scrivere un nuovo corso per il proprio mondo e sulla lotta a cui i nostri tre eroi sono disposti, pur di riuscirci – commenta la regista Chiara Sambuchi – È la risposta positiva e piena di speranza a una foresta amazzonica deturpata dalla voragine della miniera di ferro di Serra Norte. È la reazione a decenni trascorsi a Taranto respirando diossina e seppellendo madri, padri, amici e sempre più spesso i propri figli. O ancora il risveglio dopo decenni di tremendo inquinamento nel bacino della Ruhr, che finalmente si riappropria di sé”.
Il documentario in breve
Attraverso l’osservazione intima del quotidiano dei tre protagonisti, in tre luoghi simbolo della filiera globale dell’acciaio, “PIÙ FORTI DELL’ACCIAIO” descrive l’impatto dell’industria estrattiva e siderurgica attuale sui delicati equilibri naturali e sulla salute di chi vive a ridosso dei siti produttivi.
Il film documentario mostra lo sforzo personale che ognuno dei tre protagonisti compie contro uno sfruttamento delle risorse umane e naturali spesso cieco e votato al sovra consumo senza fine. Tra lotte legali per mantenere il possesso delle terre e la vita contadina, l’agricoltore Pixininga conduce lo spettatore in una scoperta tragica e affascinante del cuore della foresta amazzonica violata, fino all’immensa miniera di Serra Norte, la più grande a cielo aperto del mondo.
In perenne movimento tra le strade del rione Tamburi, il quartiere accanto all’acciaieria tarantina in cui vivono molti dei suoi piccoli assistiti, la pediatra Grazia lotta contro l’inquinamento causato dalle emissioni della diossina delle ciminiere e dalla perenne esposizione alle polveri di ferro e altre sostanze patogene. Egbert, direttore dei lavori di riqualificazione di una delle regioni storicamente più inquinate di Europa, suggerisce allo spettatore come agire per superare un modello di consumo ormai non più sostenibile.
Scheda del film
Genere: film documentario Anno di produzione: 2019 Durata: 60 minuti Regia: Chiara Sambuchi Direzione della fotografia: Paolo Pisacane, Ralf Klingelhöfer Montaggio: Simone Veneroso Casa di produzione: TV Plus, Berlino Progetto: Mani Tese
Più forti dell’acciaio è un documentario prodotto all’interno del progetto “New Business for Good”, realizzato con il contributo di Agenzia Italiana per la Cooperazione allo Sviluppo, e supporta il programma di Mani Tese MADE IN JUSTICE per una cultura dei diritti umani e del rispetto dell’ambiente nelle aziende e nella società
1. Il meraviglioso futuro di Elisabeth
“Da soli si va più veloci, ma insieme si va più lontano” è il motto della presidente della cooperativa di donne “Beog Neere” in Burkina Faso.
di Giulia Polato, Responsabile Paese Burkina Faso
Ho conosciuto Elisabeth il 10 giugno. Ricorderò sempre quella data perché è stato il giorno della mia prima uscita sul campo. Il lavoro amministrativo serve, ma il contatto con le persone che realizzano e vivono quotidianamente le attività di progetto è quello che più mi piace del mio lavoro ed è ciò che mi motiva.
Elisabeth è la presidente della cooperativa “Beog Neere” di Kindi, nel Boulkiemdé. È una donna istruita, che parla fluentemente francese e con la quale è quindi stato facile rapportarmi.
Quel giorno, Elisabeth mi accompagnò a fare il tour delle organizzazioni collettive della zona, introducendomi a tutte quelle realtà che non avevo ancora avuto modo di conoscere, essendo arrivata da poco nel Paese. Ricordo che mi piacque davvero molto il suo dinamismo e il modo diretto e aperto con cui si relazionò a me, senza troppi filtri o formalità.
Come ultima tappa del nostro itinerario, Elisabethmi portò a conoscere la sua associazione. Ma non si limitò a farmi trovare semplicemente l’esposizione di tutti i prodotti che lei e le altre donne trasformavano (olio di neem, sapone, soumbala, attieké, farina di mais, placali, conserve di verdura, cous cous, riso, ecc.), mi coinvolse anche direttamente nell’attività, facendomi toccare con mano cosa significava fare un certo tipo di lavoro.
Grazie a Elisabeth, potei trasformare la manioca in cous cous (attieké) e fu un momento importante, perché con questo gesto lei fece due cose bellissime: mise tutti sullo stesso piano e mi dimostrò concretamente in cosa il progetto l’aveva aiutata e ancora la poteva aiutare nello sviluppo della sua associazione.
Sono quindi andata a fare due chiacchiere con lei e oggi voglio raccontarvi la sua storia.
Elisabeth vive e lavora nel comune di Kindi, a qualche km da Koudougou, in Burkina Faso. È in gamba, istruita e se la cava con la vendita dei suoi prodotti trasformati, ma in testa le risuona un adage “seuls on va plus vite, ensemble on va plus loin” (da soli si va più veloci, ma insieme si va più lontano).
Per questo motivo, 7 anni fa, Elisabeth decise di rimboccarsi le maniche e di mettere insieme tutte le donne di buona volontà del suo villaggio che avessero voglia di lavorare e crescere insieme. C’erano trasformatrici di néré, di attieké, di sapone…Ognuna aveva la sua specificità che, secondo Elizabeth, andava preservata e valorizzata perché non si perdessero le conoscenze di ciascuna ma, aanzi, venissero condivise come ricchezza.
Nacque così “Beog Néere”, che tradotto dal mooré significa “futuro meraviglioso”: un messaggio di speranza per tutte le 15 donne che oggi ne fanno parte.
Ora, con il sostegno di Mani Tese, queste donne stanno modernizzando le loro tecniche di produzione dell’attieké, curando anche il packaging e il marchio dei loro prodotti.
Il sogno di Elisabeth è che tra 5 anni Mani Tese possa tornare da loro e trovare un’impresa autonoma, indipendente e sostenibile, con il marchio Beog Néere riconosciuto in tutto il Paese. “Se ti aiutano a lavarti la schiena, bisogna che tu sappia lavarti la faccia da solo!” ha letteralmente commentato Elizabeth.
Essere donna ed essere imprenditrice non è mai facile e il Burkina Faso non fa eccezione, ma Elisabeth è forte, ha tantissima inventiva e buona volontà ed è per questo che è riuscita a far crescere tantissimo la sua associazione. Noi siamo sicuri che potrà ancora fare grandi cose!
Nuove regole, investimenti indirizzati verso la sostenibilità, scelte di etiche e “reputazione”: un mix di azioni che possono cambiare i meccanismi della finanza orientata al solo profitto.
NUOVE REGOLE, INVESTIMENTI INDIRIZZATI VERSO LA SOSTENIBILITÀ, SCELTE DI ETICHE E “REPUTAZIONE”: UN MIX DI AZIONI CHE POSSONO CAMBIARE I MECCANISMI DELLA FINANZA ORIENTATA AL SOLO PROFITTO.
Ugo Biggeri è presidente di Etica Sgr. Già presidente di Banca Etica, è anche docente universitario. Dal 2017, inoltre, è consigliere della Global Alliance for Banking on Values e dal 2018 è vice presidente di Sharholders for Change, la rete di investitori istituzionali europei che promuove l’azionariato attivo. A lui abbiamo chiesto quale ruolo può giocare la Finanza Etica nel definire la finanza del futuro: attenta agli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile (SDGs) e rispettosa dei diritti umani e dell’ambiente.
Sei stato presidente di Banca Etica e attualmente sei presidente di Etica Sgr. Due realtà di “finanza etica” che propongono un modello di business differente. Su quali valori si fondano? Come funzionano?
“La finanza etica in Italia nasce negli anni ‘90 come evoluzione del consumo critico nel campo finanziario: Mani Tese è stata una delle 20 organizzazioni promotrici e fondatori della cooperativa verso la Banca Etica. In particolare la finanza etica considera il profitto come un sano vincolo, ma non come unico obiettivo degli attori economici, si fa quindi domande sulle conseguenze non economiche delle azioni economiche. Con questo ridimensionamento del valore esclusivo del profitto monetario individuale cerca di massimizzare gli impatti sociali ed ambientali positivi e di minimizzare quelli negativi. Questo implica definire degli obiettivi socio-ambientali strategici che vanno valutati, misurati, controllati: un’attività professionale che si integra nella gestione economica e presuppone coerenza nei comportamenti, nei prodotti e nell’assetto proprietario. Banca Etica è una cooperativa con oltre 40 mila soci che opera in Italia e Spagna e garantisce che il risparmio sia indirizzato a progetti di utilità sociale e ambientale che misura e mostra pubblicamente. È quindi molto vicina all’economia locale ed ai bisogni del no profit, delle piccole imprese e delle persone. È una banca con tutti i servizi, anche online. Ha un miliardo di euro di finanziamenti in corso. È da sempre attiva anche nel settore del microcredito sia in Italia che nel Sud del mondo con qualche decina di milioni di euro investiti. Etica Sgr è una società controllata da Banca Etica. Applica la finanza etica al settore degli investimenti (in cui il risparmiatore accetta un rischio maggiore rispetto ai depositi in banca) e in particolare con i fondi comuni di investimento, che hanno la caratteristica di poter essere rivenduti in qualunque momento e l’obiettivo di dare un rendimento. I fondi di Etica Sgr operano delle scelte etiche sui titoli azionari quotati e sui titoli emessi dagli stati di tutto il mondo secondo un processo ben strutturato e pubblico. Etica Sgr attualmente gestisce oltre 4 miliardi di euro. I suoi fondi sono distribuiti anche da molte altre banche (tra cui il credito cooperativo)”.
Come si relaziona Etica Sgr con gli SDGs?
“Etica Sgr seleziona con criteri sociali, ambientali, di governance e di rispetto dei diritti umani le realtà in cui investe, e questo lo fa da quasi 20 anni quindi ben prima della definizione degli SDGs. Abbiamo comunque ridefinito il modo di presentare i nostri fondi valorizzando la corrispondenza con tali obiettivi. Misuriamo l’impatto di CO2 dei fondi, l’impatto sociale e il rispetto dei diritti umani, mostrando performance molto migliori del resto del mercato e anche buoni rendimenti. Oltre all’attività di un’attività di selezione e ricerca dei fondi coerenti con gli SDGs, riteniamo molto importante fare “azionariato critico” con le imprese formulando richieste in senso etico alle società in cui investiamo (ad esempio contenendo gli stipendi dei manager e legandoli ad obiettivi sociali ed ambientali coerenti con gli SDGs). Attraverso la rete Shareholder for Change e la Fondazione Finanza Etica di cui siamo soci, viene fatto azionariato critico anche in realtà in cui non investiamo: è il caso di H&M con la campagna Abiti Puliti, a cui Mani Tese aderisce”.
Quale ruolo può giocare la finanza in una visione di economia del futuro, ovvero un’economia che persegua gli Obiettivi di Sviluppo sostenibile (SDGs) e risponda alle sfide del cambiamento climatico?
“La finanza gioca e giocherà comunque un ruolo cruciale su questi temi. Gestisce volumi di scambi finanziari che sono decine di volte il PIL mondiale e quindi determina le scelte di fondo dell’economia mondiale. Fino a oggi è stata incapace di governare i necessari processi di riduzione dei cambiamenti climatici e delle disuguaglianze crescenti. Questo non cambierà in futuro se non si avrà il coraggio di imporre regole nuove, come la Tobin Tax, che limitino le pratiche speculative e soprattutto se non si metteranno in atto incentivi e disincentivi fiscali, normativi e regolamentari per indirizzare l’efficienza della finanza verso il raggiungimento degli SDGs. Il volontarismo o gli appelli non bastano. I prodotti social o green di cui viene inondato il mercato sono un segno interessante di una domanda da parte dei cittadini, ma non intaccano il business as usual: dalla Conferenza sul Clima di Parigi del 2015 si sono investiti 50 miliardi di euro nelle ricerche di nuovi giacimenti petroliferi”.
Qual è la tua visione rispetto al futuro della finanza?
“Nonostante tutto credo ci siano grandi opportunità per tutti se prenderemo sul serio la riconversione ecologica e sociale. Contrariamente a una falsa narrativa molto diffusa, per cui abbandonare il petrolio implica tornare alla candela di cera d’api, disincentivare le fonti fossili (ad esempio con una Carbon Tax) sposterà investimenti verso un nuovo modello energetico, genererà innovazione, posti di lavoro, economia locale. Analogamente una visione di lungo periodo sulle disuguaglianze (che tra l’altro generano migrazioni) ci potrebbe far riflettere sul fatto che le forze giovani e produttive del futuro e le necessità di investimenti strutturali non saranno più in Europa, ma in Africa e in molti paesi del Sud del mondo. Zone del pianeta in cui sarebbe possibile ipotizzare uno sviluppo economico importante e più sostenibile (quindi anche più competitivo) di quello che ha avuto il Nord del mondo”.
Ci sono degli esempi che possono indicare la via ed essere citati come best practices?
“Ovviamente il gruppo Banca Etica. Più in generale la Global Alliance for Banking on Valuesrappresenta un insieme interessante di oltre 50 banche di microcredito del Sud del mondo e banche sostenibili del Nord del mondo che stanno intrecciando le loro buone pratiche. Considero un buon esempio anche l’attenzione crescente che le persone giovani hanno per il consumo critico e le scelte etiche in campo economico: sono convinto che questo rafforzerà le buone pratiche esistenti e ne favorirà di nuove perché il mondo digitale, pur con tutti i suoi difetti premierà molto più che in passato la coerenza e la buona reputazione degli operatori economici”.
Ugo Biggeri, presidente di Etica Sgr e già presidente di Banca Etica.
Politiche pubbliche “responsabili”, ricerca e innovazione, consumatori informati e alleanze transnazionali fra organizzazioni di lavoratori tra i “cardini” per un sistema produttivo virtuoso.
di MASSIMILIANO LEPRATTI, Consigliere di Economia e sostenibilità (EStà)
POLITICHE PUBBLICHE “RESPONSABILI”, RICERCA E INNOVAZIONE, CONSUMATORI INFORMATI E ALLEANZE TRANSNAZIONALI FRA ORGANIZZAZIONI DI LAVORATORI TRA I “CARDINI” PER UN SISTEMA PRODUTTIVO VIRTUOSO.
Il sistema dell’economia industriale mondiale è la principale origine di due dei maggiori problemi vissuti a livello mondiale a partire dal secondo dopoguerra: la crescita delle diseguaglianze globali e l’impatto negativo sui sistemi ecologici. Sul piano delle diseguaglianze occorre osservare che il settore dell’industria e quello dei servizi connessi consentono di ottenere un grado di ricchezza aggiuntiva (valore aggiunto) per lavoratore impiegato assai più elevato di quanto avvenga nel settore agricolo e nel settore dei servizi alle famiglie. La produzione del valore aggiunto, in particolare a partire dagli anni ‘70 del secolo passato, è stata organizzata attraverso una divisione del lavoro che ha lasciato i pezzi di catena del valore a bassa remunerazione nel Sud globale, concentrando le altre nel Nord. Il risultato è stato il differenziarsi dei redditi, che per un abitante del Sud globale in questo decennio è in media di circa 5.000 dollari, mentre quello di un abitante del Nord globale supera i 40.000: una forbice che cresce nel tempo e che oggi raggiunge un rapporto di 8 a 1 (nel 1975 era inferiore a 6 a 1).
Sul piano del rapporto con la natura il dato più rilevante è la crescita del livello di emissioni di CO2 equivalente causato dalla produzione economica nel suo complesso e in particolare da due settori strettamente connessi: il comparto energetico e quello industriale. L’industria ancora oggi si basa sull’uso di energia fossile e non solo nei paesi del Sud: la ricca Germania continua ad avere un grado preoccupante di dipendenza dal carbone. Di conseguenza l’85% dell’emissione di CO2 è oggi legato alla fase della produzione dei beni, mentre solo il 15% è imputabile al consumo delle famiglie. Il risultato complessivo è la crescita rapida dei gas a effetto serra. Nel 1960 l’atmosfera terrestre ne conteneva in media circa 300 parti per milione, nel 2019 siamo arrivati a 414 (a 450 il riscaldamento globale sarà irreversibile e a quel punto nessuno sa cosa potrà accadere alla specie umana).
Scrivere un futuro diverso
Per orientare l’economia industriale dei prossimi anni vi possono essere diverse direzioni e modelli entro cui collocarla. Tra questi ne abbiamo scelto uno in particolare che permette di affrontare il tema nella stessa ottica interdisciplinare e globale che ha orientato la definizione dell’Agenda 2030 dell’Onu e dei relativi SDGs. Lo studioso rumeno Georgescu Roegen, un precursore fin dal 1970 di molti tra i ragionamenti più recenti, è il pensatore che ha coniato il concetto di “bioeconomia”. Secondo l’allievo dell’illustre Schumpeter, il processo produttivo deve minimizzare l’entropia del sistema e per farlo deve tendere ad uno stato di assenza di crescita. Ma il pensiero dello studioso rumeno si presta a un’interpretazione che non esclude la crescita economica, a patto che questa si manifesti in un aumento della quantità di lavoro equamente pagato presente in un manufatto o in un servizio e in una contemporanea diminuzione più che proporzionale della quantità di natura (materie prime ed energia dell’intero processo) ivi utilizzata irreversibilmente. Un principio che, applicato all’industria (dalla fascia dell’alta tecnologia al settore della raccolta porta a porta e del riutilizzo e riciclaggio dei rifiuti), permette potenzialmente di avere più occupati, più ricchezza e minore impatto negativo sull’ambiente.
L’importanza della ricerca
A un livello di maggior dettaglio si possono presentare alcuni ragionamenti riferibili ai singoli settori produttivi, distinguendo tra industria ad alto impatto tecnologico (settori legati alla produzione di macchinari), e industria ad alto impiego di manodopera poco specializzata (settori legati a molti beni di consumo per le famiglie). una politica pubblica orientata a sostenere la ricerca e l’innovazione tecnologica, può fornire strumenti e prodotti affinché anche un altro settore strategico come l’agricoltura si trasformi, potendo usare prodotti industriali differenti (ad es. motori a biometano anziché diesel, teli di pacciamatura in bioplastica compostabile, compost di qualità prodotto da impianti efficienti di trattamento dei rifiuti umidi…). In questo modo l’agricoltura migliorerebbe nettamente il suo impatto ambientale e, accompagnando queste scelte con la rinuncia ai prodotti chimici, verrebbe spinta a orientarsi verso prodotti a maggior valore aggiunto economico e con maggiore impiego di occupati. Un forte ripensamento delle modalità e delle quantità relative agli allevamenti completerebbe il necessario ripensamento del settore. Laddove si investe maggiormente in ricerca e sviluppo di brevetti legati al miglioramento degli impatti ambientali, si produce maggiore ricchezza, distribuita attraverso contratti di lavoro più duraturi e meglio pagati e a minor contenuto di CO2. In questi casi lo Stato non è neutro, ma tende a governare i processi sostenendo la ricerca, sanzionando in alcuni casi (Svezia) i comportamenti inquinanti grazie a una “Carbon Tax” seria, favorendo lo sviluppo di settori innovativi attraverso norme che selezionino gli sviluppi più virtuosi.
Un’economia rispettosa dei diritti
Passando a un altro settore, la manifattura a basso contenuto di capitale e ad alto impiego di lavoro (in gran parte poco qualificato), il discorso specifico muta e al tema ecologico si aggiunge il tema sociale. Un esempio per tutti è quello riferibile al settore tessile. Qui la ricerca globale di manodopera sfruttabile da parte delle imprese ha come conseguenza salari molto bassi e condizioni di lavoro durissime, accompagnati dal disinteresse per i costi ambientali legati alla filiera produttiva (si pensi che per le operazioni di tintura dei vestiti ogni anno si impiega una quantità di acqua pari a quella di un mare di medie dimensioni). In questo e in altri settori simili l’azione congiunta di consumatori informati sulle dinamiche globali e di alleanze sindacali transnazionali è un fattore fondamentale per un’economia industriale che in futuro non solo permetta la sopravvivenza ecologica della specie umana, ma veda al suo interno quel livello di distribuzione del reddito e di accesso ai diritti fondamentali senza i quali diviene impossibile ogni reale forma di coesione sociale.
Di fronte alla crisi epocale prodotta dall’attuale modello, serve un nuovo pensiero economico fondato su obiettivi di lungo termine e una capacità di “intelligenza collettiva” per costruire uno “sviluppo economico sostenibile e inclusivo”.
di Giosuè De Salvo, Responsabile Advocacy, Educazione e Campagne di Mani Tese
DI FRONTE ALLA CRISI EPOCALE PRODOTTA DALL’ATTUALE MODELLO, SERVE UN NUOVO PENSIERO ECONOMICO FONDATO SU OBIETTIVI DI LUNGO TERMINE E UNA CAPACITÀ DI “INTELLIGENZA COLLETTIVA” PER COSTRUIRE UNO “SVILUPPO ECONOMICO SOSTENIBILE E INCLUSIVO”.
Negli ultimi settant’anni il modello economico di matrice capitalista ha consentito a centinaia di milioni di persone di elevare le proprie condizioni materiali di vita. Tuttavia, questi progressi sono stati ottenuti imponendo un prezzo altissimo sia ai sistemi naturali che a quelli sociali.
Da una parte, inquinamento di aria, terra e acqua, cambiamenti climatici e perdita di biodiversità; dall’altra, livelli di diseguaglianza estrema e delegittimazione delle istituzioni democratiche che, insieme alle storture del sistema finanziario, contribuiscono a dare forza a leader e movimenti populisti che infiammano gran parte dei paesi dell’Occidente, e non solo. È evidente che qualcosa non funzioni e che l’economia deve essere “rivista e corretta” alla luce delle realtà e alle sfide del XXI secolo.
Uno spazio equo e sicuro per l’umanità
Per fare ciò, Kate Raworth, ricercatrice dell’Environmental Change Institute dell’università di Oxford, propone al mondo di ribaltarne l’approccio, facendo ripartire l’economia del futuro, non dalle sue astrazioni, ma dagli obiettivi a lungo termine che l’umanità si è data, per poi chiedersi quale tipo di pensiero economico, e conseguentemente di azione, possono darci più possibilità di raggiungerli.
Questi obiettivi sono oggi chiaramente espressi dai 17 Obiettivi di Sviluppo sostenibile delle Nazioni Unite che, ai fini del nostro ragionamento, posso essere raggruppati e rappresentati attraverso una torta (vedi figura 1).
Figura 1- SDGs Wedding Cake presentata per la prima volta all’EAT Food Forum di Stoccolma il 13 giugno 2016
Si chiama “SDG Wedding Cake” ed è fatta di tre strati: il primo raggruppa gli obiettivi relativi alla tutela della biosfera, il secondo quelli relativi al funzionamento delle società umane e il terzo indica lo spazio di movimento per gli attori economici, siano essi produttori, consumatori o pubblici regolatori. Uno spazio di azione che la Raworth, chiama “spazio equo e sicuro per l’umanità” (vedi figura 2).
Figura 2- Dal libro “L’economia della ciambella” di Kate Raworth, 2017, Edizione Ambiente.
Mantenendo la metafora pasticciera, siamo di fronte a una Ciambella che ha come cerchio più esterno i cosiddetti “planetboundaries” (limiti del pianeta) e come cerchio più interno i diritti umani che determinano la sostanza delle nostre democrazie. Al centro lo “spazio equo e sicuro” in cui i popoli della terra possono darsi uno “sviluppo economico sostenibile e inclusivo”.
Una ciambella che, arricchendola di dati, ci spiega perché uno degli assunti più condivisi, mentre si discuteva l’Agenda 2030, era che il “business as usual is not an option anymore” (il business come l’abbiamo sempre fatto non è più un’opzione percorribile). Se si considerano il superamento già avvenuto di 4 su 9 dei limiti del pianeta (vedi figura 3) e la percentuale di abitanti della terra che ancora non godono dei diritti individuali e sociali, così come sanciti dalle principali convenzioni internazionali, diventa palese che il modo in cui abbiamo gestito, e continuiamo a gestire, l’economia e il modo in cui abbiamo fatto, e continuiamo a fare impresa, sono incompatibili con l’ambizione di collocare l’umanità all’interno di uno spazio equo e sicuro e quindi di centrare gli obiettivi di sviluppo sostenibile dell’Agenda 2030.
Figura 3- Dal libro “L’economia della ciambella” di Kate Raworth, 2017, Edizione Ambiente.
Cinque fattori per il cambiamento
Sono cinque i fattori chiave attorno ai quali può ruotare il cambiamento: popolazione, distribuzione, aspirazione, tecnologia e governance. Il motivo per cui il tasso di crescita della popolazione mondiale è importante, è abbastanza ovvio: più individui abitano il pianeta, più risorse servono per soddisfare i bisogni e i diritti di tutti. Da qui discende la necessità di stabilizzare la popolazione umana. Come? Aumentando gli investimenti pubblici per la salute e l’assistenza dei neonati e dei bambini, per l’istruzione femminile, per la cura e la libertà di scelta in ambito riproduttivo e, in generale, per riequilibrare i poteri tra i generi in modo che le donne acquisiscano un ruolo centrale nella pianificazione famigliare.
Se la popolazione è rilevante, la distribuzione lo è altrettanto perché la concentrazione di ricchezza e opportunità in capo a pochi spinge il genere umano a valicare entrambi i confini della “Ciambella”. Pensate al 10 % della popolazione più benestante che emette il 45% delle emissioni di gas serra, mentre il 50 % più in difficoltà contribuisce solo per il 13%. O al miliardo di persone che sono malnutrite, per cui basterebbe il 3% delle scorte alimentari mondiali che però si perde nelle pieghe di un sistema agro-alimentare che spreca, dalla fase di raccolto e stoccaggio fino al consumo a tavola, oltre un terzo del cibo prodotto.
Un terzo elemento determinante è l’aspirazione: tutto ciò che le persone ritengono dia qualità alle loro vite e che oggi si misura in particolare in termini di possibilità di consumo e luoghi che abitiamo. Dal 2009, per la prima volta nella storia, oltre metà dell’umanità vive in metropoli e città, e tutte le proiezioni indicano che entro il 2050 il 70% di noi vivrà dentro confini urbani. In città, più che altrove, “veniamo persuasi a spendere soldi che non abbiamo per comprare cose di cui non abbiamo bisogno per suscitare impressioni che non durano in persone che non ci interessano”.
L’inurbamento, però, oltre ad alimentare il consumismo offre l’opportunità di soddisfare i bisogni primari degli individui e delle famiglie, quali alloggi, trasporti, cibo ed energia, in modi molto più efficienti degli attuali. Sul 60% della superficie, che si stima diventerà urbana entro il 2030, si deve infatti ancora costruire e quindi la scelta delle tecnologie utilizzabili (quarto fattore chiave) avrà implicazioni ecologiche e sociali di grande portata: network di impianti a energia solare sui tetti, edifici auto-riscaldanti o auto-rinfrescanti, trasporti pubblici a basso impatto e prezzo conveniente, agricoltura urbana e peri urbana che sequestra carbonio, aumenta la qualità dei cibi e offre nuovi posti di lavoro.
Da ultima è la governance a giocare un ruolo decisivo, dal livello rurale a quello cittadino, dal livello statale a quello regionale e globale. L’innovazione delle forme di governance pubblica e privata che consentano di mediare le relazioni tra genere umano e natura ma anche le differenti aspettative tra Paesi, aziende e comunità, è il fattore che può innescare gli altri quattro, guidandoli verso la transizione ormai non rinviabile.
Siamo tutti coinvolti
L’Economia della Ciambella delinea senza dubbio una visione ottimistica del futuro: un’economia globale che cerca un equilibrio prospero grazie alla sua concezione distributiva e rigenerativa. Tale visione può sembrare ingenua, considerati i drammi che stiamo vivendo, fatti di conflitti violenti, migrazioni forzate e xenofobia dilagante. La possibilità di un collasso sembra assai più concreta.
Eppure, c’è un numero sufficiente di persone che sognano un’alternativa possibile e sono impegnate con tutte le loro forze per realizzarla. La nostra è la prima generazione che ha compreso appieno il danno che abbiamo arrecato al nostro pianeta, la nostra casa comune, e probabilmente è anche l’ultima che ha la possibilità di fare qualcosa. E sappiamo benissimo, come comunità internazionale, che abbiamo la tecnologia, la conoscenza e i mezzi finanziari per porre fine alla povertà estrema in tutte le sue forme.
Come ci ha insegnato Donella Meadows, pioniera della sostenibilità e autrice del libro culto “Pensare per sistemi”, non abbiamo più bisogno di individui smart ma di intelligenza collettiva che eserciti la capacità di un sistema complesso di correggere i propri errori e far evolvere la propria struttura. Si chiama auto-organizzazione ed è una leva formidabile per scatenare un pensiero rivoluzionario.
Se i sistemi economici, che sono complessi, si evolvono, ogni esperimento contribuisce a orientare un nuovo futuro e rende tutti noi protagonisti di questa rivoluzione: quando apriamo un conto corrente in una banca etica e investiamo in nostri risparmi in base al valore sociale e ambientale prima che finanziario, quando dentro il mondo dei GAS ci assumiamo parte del rischio di un piccolo agricoltore e sviluppiamo nuove piattaforme di distribuzione organizzata, quando da imprenditori o manager ci preoccupiamo realmente dei nostri impatti sui lavoratori e le lavoratrici delle nostre catene di fornitura, quando partecipiamo alle campagne dei movimenti politici e di opinione che condividono la nostra visione. Quando facciamo tutto ciò, “siamo il cambiamento che vogliamo vedere nel mondo”.
Il sistema scolastico “ignora” l’educazione economica, eppure si tratta di un tema centrale per affermare diritti e scelte etiche. Con il portale educativo “Jacky può”, Mani Tese propone, soprattutto ai più giovani, un modo per imparare l’economia scardinando i luoghi comuni.
IL SISTEMA SCOLASTICO “IGNORA” L’EDUCAZIONE ECONOMICA, EPPURE SI TRATTA DI UN TEMA CENTRALE PER AFFERMARE DIRITTI E SCELTE ETICHE.CON IL PORTALE EDUCATIVO “JACKY PUÒ”, MANI TESE PROPONE, SOPRATTUTTO AI PIÙ GIOVANI, UN MODO PER IMPARARE L’ECONOMIA SCARDINANDO I LUOGHI COMUNI.
Cosa sai di economia? Sembra una domanda innocua, invece provoca reazioni interessanti nei ragazzi. C’è chi fa spallucce, chi dice “soldi”, chi prova a lanciarsi in improbabili definizioni. Molti rispondono “niente”, ma non è vero. Tutti ne abbiamo esperienza, ne usiamo i principi base per vivere, ne subiamo gli effetti negativi nei momenti di crisi o di instabilità. Eppure, nonostante l’economia sia al centro della vita quotidiana di ciascuno di noi, il sistema scolastico non l’ha mai recepita come un insegnamento organico. Per questo Mani Tese ha lanciato un portale educativo dedicato ai ragazzi “per diventare cittadini e cittadine senza paura dell’economia”. Si chiama “Jacky può” e si rivolge alle ragazze e ai ragazzi tra i 14 e i 99 anni, con un percorso interattivo, divertente e che fa riflettere, fruibile da smartphone e tablet. Per diventare cittadini, senza paura dell’economia.
Il dovere di spendere
D’altronde, come cittadini siamo costantemente soggetti al condizionamento che i meccanismi economici e finanziari esercitano nella vita reale, tanto che spendere è diventato una sorta di dovere di cittadinanza a cui siamo costantemente chiamati, se vogliamo che l’economia continui a “girare” e che venga quindi mantenuto il rapporto tra crescita, lavoro e benessere. Ciononostante la scuola secondaria non sembra ritenere l’economia tra i fondamentali dell’insegnamento. Nei licei italiani se ne trova pochissima, mentre negli istituti tecnici la si affronta senza dare conto delle sue implicazioni politiche e sociali. I risultati? Gli studenti nella fascia 14-19 anni sono a rischio di analfabetismo economico, e l’apprendimento delle conoscenze di base avviene (se avviene) fuori dalla scuola, nei contesti educativi informali. Secondo l’ultima indagine PISA sull’alfabetizzazione finanziaria, in Italia il 20% degli studenti non riesce a raggiungere il livello minimo di riferimento per le competenze finanziarie, nonostante oltre il 35% dei quindicenni sia titolare di un conto corrente. La questione non va affrontata, come molti credono, sul piano esclusivo delle conoscenze, ma su quello delle competenze necessarie alla formazione di cittadini informati e consapevoli. Non a caso il Ministero dell’Istruzione ha inserito la cittadinanza economica tra le aree “finalizzate all’innalzamento delle competenze trasversali di cittadinanza globale”. Una buona definizione di cittadinanza economica è contenuta in un disegno di legge presentato in Senato il 23 gennaio 2018 che la definisce come: “Un insieme di capacità e competenze che permetta al cittadino di divenire agente economico rispettoso delle regole del vivere civile e consapevole, grazie allo sviluppo dei processi cognitivi e degli aspetti emotivi e psicologici che influiscono sulle scelte economiche, al fine di contribuire al benessere economico individuale e al benessere sociale”.
Cittadinanza competente
Un’educazione trasversale, quindi, che non è fatta solo di numeri e grafici ma anche di una seria riflessione su ciò che influisce sulle scelte economiche e sui loro risvolti politici e sociali. Una competenza di cittadinanza decisiva, che però a scuola non si impara, se non in ambito universitario. Il problema si fa ancora più serio quando ci accorgiamo che sia le università che le fonti di apprendimento non scolastiche offrono in maniera pressoché univoca lo stesso punto di vista, contribuendo attraverso l’uso del linguaggio economico a disegnare una cornice mentale che modella la società e a convincerci che può esistere un solo tipo di economia, quella che funziona con le regole attuali. Le parole chiave dell’economia neoliberista condizionano le politiche, invadono i mezzi d’informazione, lanciano allarmi e danno consigli per gli acquisti. Il bersaglio di questo bombardamento siamo noi, o meglio la rappresentazione che i modelli economici danno dell’essere umano: individualista, calcolatore, orientato alla massimizzazione del profitto.
Siamo davvero così? Non è detto, ma il problema è che più ci viene ripetuto che siamo fatti come questo modello, più tendiamo ad assomigliargli. Come scrive Kate Raworth, economista di fama mondiale: “L’uomo economico razionale è il protagonista di ogni libro di testo di economia mainstream; condiziona le politiche decisionali di tutto il mondo; modella il modo in cui parliamo di noi; e, senza fare rumore, ci dice come dobbiamo comportarci”. Secondo la Raworth, viviamo una situazione in cui come cittadini siamo condizionati da meccanismi economici che conosciamo in modo superficiale e che rispondono a un unico disegno, ripetuto e insegnato in modo pressoché identico nelle facoltà di economia di tutto il mondo, alla cui base c’è l’immagine dell’homo oeconomicus, definito come “razionale”, nel senso che persegue come obiettivo la massimizzazione del proprio benessere (definita da una funzione matematica detta funzione di utilità). Ma è ancora razionale essere individualisti nel 2020, nell’era dei cambiamenti climatici, della crescita esponenziale delle città, della sfida di nutrire una popolazione che raggiungerà i 10 miliardi di persone nel 2050? Il percorso didattico Jacky Può – diventare cittadini senza paura dell’economia prova a rispondere a questa domanda, proponendo una chiave di lettura per scardinare gli assunti del business as usual come modello che influenza il nostro modo di essere cittadini e di immaginare un futuro prospero e sostenibile per il pianeta. L’obiettivo generale del percorso è fornire al sistema scolastico strumenti e metodi per educare a una cittadinanza economica, ricostruendo una nuova idea di homo oeconomicus contemporaneo che mette al centro il benessere, le relazioni, l’equilibrio dinamico con gli altri esseri umani e con l’ecosistema. Altrimenti, a vincere, sarà la paura. Di quello che non capiamo, di ciò che è diverso da noi, delle cose troppo difficili. E invece di giovani capaci di futuro ci ritroveremo sempre più spaventati e frustrati, incapaci di formulare un’opinione superiore ai 160 caratteri e quindi più probabilmente vittime di decisioni prese da altri. Se sommiamo incapacità di comprensione dei problemi, superficialità e paura, il risultato può essere uno solo: meno democrazia.
Riscoprire l’intervento dello Stato a fianco della libera iniziativa privata significa rimettere al centro “la politica” e “le politiche” come strumenti fondamentali per le scelte di produzione e consumo.
di GIULIO MARCON, Portavoce Campagna Sbilanciamoci!
Dopo trent’anni di anatemi contro lo Stato, l’intervento, la spesa pubblica e il ruolo del pubblico torna a essere scoperto e posto al centro dell’azione economica. Fino a qualche tempo fa l’espressione “economia pubblica” non avrebbe avuto cittadinanza o sarebbe stata considerata un’idea stravagante. L’economia veniva associata quasi esclusivamente alla dimensione privata e consegnata al mercato come inevitabile destino. L’intervento pubblico doveva tenersi distante dall’economia e dal mercato, e lo Stato – per usare un’espressione dell’era reaganiana – veniva considerato come una sorta di essere mostruoso che dove- va essere “affamato” (starvingthebeast come dicevano i conservatori di allora) attraverso una serie di misure chiave: privatizzazioni, deregulation dei mercati, riduzione delle tasse e della spesa pubblica (che però sarebbe fatalmente aumentata, sotto forma di debito pubblico, a causa del taglio delle tasse).
Ipocrisia e privilegio
Dietro queste posizioni c’è stata e c’è ancora molta ipocrisia: la scaltra rimozione dei neoliberisti, che sanno bene come l’intervento pubblico sia necessario innanzitutto per coprire i fallimenti del mercato (come è avvenuto in questi anni per il salvataggio delle banche private con soldi pubblici); in secondo luogo, agli operatori privati sono necessari gli investimenti pubblici (Mariana Mazzucato ne Lo Stato innovatore ha ricordato come nell’i-phone una trentina delle funzioni utilizzate siano frutto di investimenti pubblici: internet, gps, siri, schermo a cristalli liquidi, ecc); infine, l’intervento pubblico è fondamentale per arginare le conseguenze negative di questo modello di sviluppo, a cominciare dalla povertà e dall’inquinamento. Le ricette economiche usate a partire dagli anni ’80 erano il frutto di assunti ideologici assai discutibili (come la tesi del trickledown: la ricchezza creata di cui beneficiano tutti) ed erano espressione di un modello neoliberista che ha avuto come conseguenze lo spostamento della ricchezza a favore dei profitti, delle rendite e delle classi di reddito più alte, la crescita delle diseguaglianze, il depauperamento di beni comuni come l’ambiente e le fonti energetiche.
Se quelle politiche sono state la panacea per i privilegiati, i rentiers, i ricchi e i super ricchi, non hanno funzionato per la gran parte della popolazione e per il pianeta, colpito duramente dai cambiamenti climatici e da uno sfruttamento irresponsabile delle sue risorse anche e soprattutto a causa di quel modello economico. Di fronte al fallimento del modello neoliberista e di una globalizzazione economica e finanziaria che spesso ha peggiorato le condizioni materiali di vita di gran parte delle popolazioni dei paesi più “sviluppati” (da qui la crescita di nazionalismi e populismi) e non ha sollevato dalla povertà la parte più derelitta del pianeta, con l’ovvia eccezione della Cina, ci si è interrogati sulla necessità di affidarsi nuovamente alle virtù del pubblico. Tutti i 17 SDGs (Sustainable Development Goals) delle Nazioni Unite hanno necessariamen- te bisogno di un’attiva manopubblica: nell’orientare produzioni e consumi, nel regolamentare il mercato, nel fare investi- menti (che i privati non fanno) nell’interesse collettivo, nel redistribuire la ricchezza, nel fronteggiare la povertà, nel garantire i servizi sociali, sanitari, educativi di base.
Un futuro di beni comuni
Il futuro è quindi nella riscoperta dell’intervento pubblico, dell’economia pubblica e dei beni comuni da affiancare al mercato e alla libera iniziativa privata dei cittadini che, come dice anche la nostra Costituzione, non deve essere in contrasto con l’utilità sociale e con l’interesse generale. Riscoprire l’economia pubblica significa rimettere al centro la politica, le politiche come strumenti fondamentali per le scelte delle produzioni e dei consumi che, fino a oggi, il modello economico neoliberista ha affidato al mercato, la cui efficienza – come ha dimostrato la crisi 2007-08 – è una leggenda.
Molti sono gli ambiti fondamentali in cui l’economia pubblica può avere un ruolo strategico per costruire un mondo e un’Italia capaci di futuro. Primo: abbiamo già ricordato che gli investimenti pubblici (soprattutto quelli in ricerca e innovazione) sono strategici per costruire un’economia del futuro fondata sulla sostenibilità e il benessere sociale. Il ritardo nella lotta ai cambiamenti climatici è anche dovuto all’insufficienza di questa strategia di indirizzo e regolazione dei mercati da parte dei governi. L’intervento pubblico è necessario per innovare produzioni e consumi, attraverso una politica industriale e fiscale incisiva. Secondo: senza intervento pubblico non ci sono redistribuzione della ricchezza e riduzione delle diseguaglianze. La speranza che la crescita della ricchezza avrebbe portato benefici per tutti (il trickle down, lo sgocciolamento verso il basso) si è rivelata illusoria: la crescita della ricchezza globale è andata a beneficio di ricchi, super ricchi e delle diseguaglianze economiche: senza la mano pubblica non c’è redistribuzione. Terzo: deve un po’ ritornare al passato e riprendere il percorso iniziato nel cosiddetto trentennio glorioso (1945-1975), quando si avviò in gran parte d’Europa un deciso processo di demercificazione di beni fondamentali per le persone (che oggi chiamiamo diritti): i servizi per la salute e l’educazione, l’assicurazione per la vecchiaia, gli infortuni, la malattia. Quelli che fino ad allora erano merci, prodotte e messe a disposizione dal mercato (assicurazioni e strutture private, come scuole e cliniche), furono poi erogate dallo Stato come servizi e interventi in risposta a di- ritti di cui i cittadini erano titolari. Riprendere questo percorso, oggi e in futuro, significa contrastare il ritorno del mercato negli ultimi 30 anni nel welfare e nei servizi pubblici e declinare in modo nuovo l’interesse generale della collettività, salvaguardando i beni comuni, che sono ambito ben più ampio e generale di ciò che giuridicamente può essere definito, come proprietà pubblica.
Fondamentale però, per un’economia pubblica del futuro, è il sostrato ideale: la riscoperta e un nuovo radicamento di valori comunitari, sociali, etici che si contrappongono inevitabilmente allo sfrenato individualismo economico, al cinismo opportunista, all’egoismo sociale che sono la base del modello economico degli ultimi quarant’anni. Per un’economia pubblica del futuro, serve una diversa idea di benessere personale e sociale: fondato non sull’accumulazione di merci che non servono e sull’inseguimento di consumi che creano dipendenza e alienazione, ma – soddisfatte le esigenze materiali – sulla realizzazione della propria personalità e della felicità comune.