PREMIO MANI TESE PER NEOLAUREATI: VINCE FEDERICA LEO

Federica Leo ha vinto con un elaborato dal titolo: “Who made my clothes: analisi degli impatti della fast fashion e la rivoluzione della moda etica”.

Federica Leo ha vinto il premio Mani Tese dedicato ai neolaureati con l’elaborato dal titolo “Who made my clothes: analisi degli impatti della fast fashion e la rivoluzione della moda etica”.

Il premio, promosso da Mani Tese con il contributo dell’Agenzia Italiana per la Cooperazione allo Sviluppo, è dedicato alle migliori tesi di laurea con un’idea in grado di coniugare sviluppo economico, giustizia sociale e ambientale, e consiste in un contributo monetario fino a un massimo di 3.500 euro a copertura delle spese di iscrizione a master o corsi di specializzazione in partenza nell’anno 2020.

L’elaborato è stato selezionato da una Giuria composta da esperti del settore di Mani Tese, Oxfam Italia, Fondazione Finanza Etica, Fondazione Sodalitas e Comune di Milano, che si è basata sui seguenti criteri di valutazione: l’aderenza al tema, l’originalità dello studio, la qualità scientifica, il grado di visionarietà della tesi proposta.

Federica Leo si è laureata in Scienze dello Sviluppo e della Cooperazione Internazionale all’Università Sapienza di Roma. “La collaborazione e l’azione di volontariato presso associazioni che si occupano di cooperazione internazionale – scrive Federica nella sua bio – mi hanno portata a implementare sul campo le competenze teoriche apprese durante il percorso universitario, da sempre rivolto all’ambito interculturale e internazionale. Le esperienze svolte all’estero (Sierra Leone, Senegal, Spagna, Francia) mi hanno permesso di entrare a contatto con ambiti interculturali e dinamici. La scoperta di programmi europei e corsi di formazione aventi come tematica la promozione dei diritti umani, mi hanno condotta verso un’analisi più approfondita del concetto che si è traslata finalmente nel mio lavoro di ricerca tesi sulla violazione de diritti lavorativi, ambientali e umani di coloro che sono impegnati nel settore tessile”.

Qui di seguito l’abstract del suo elaborato:

“La ricerca svolta mira all’analisi degli impatti dell’attuale sistema produttivo di abbigliamento (fast fashion) e alla definizione di un modello alternativo, quale quello del commercio equo e solidale, che tiene conto del principio di sostenibilità e dei diritti umani delle persone impiegate nel settore. Dopo aver introdotto il principio di sostenibilità ed aver analizzato l’esistenza o meno di norme vincolanti che regolino gli impatti ambientali e rispettino i diritti dei lavoratori del tessile, si è proceduto all’analisi di Report che indagano sulle conseguenze che l’attuale modello produttivo e consumistico improprio sta avendo a livello umano e di disponibilità delle risorse naturali. Comprendendo che la sostenibilità non può essere perseguita senza che i vari fattori dello sviluppo siano tra loro interdipendenti, si rende necessario modificare le modalità di produzione e le abitudini di consumo. Negli ultimi anni, ad un modello insostenibile, si è andato ad opporre quello del commercio equo e solidale, sistema produttivo alternativo che ha non solo a cuore la tutela della natura, ma che tiene soprattutto conto della giustizia sociale e della garanzia di un lavoro dignitoso. Esso diventa, quindi, il modello alternativo che sta cercando di contrapporsi ad un sistema capitalistico e consumistico noncurante dei propri impatti. Se si pensa al settore della moda, il secondo più inquinante dopo quello petrolifero, vien da sé comprendere perché il commercio equo abbia sentito come necessaria la rivoluzione della moda etica. All’assenza di informazioni sul Chi fa i nostri vestiti, esso ha opposto la trasparenza dei vari brand etici, i quali , inoltre, ritengono necessario cercare nelle loro collaborazioni con i produttori presenti in tutto il mondo un compromesso tra creatività/identità e le tendenze dei consumatori occidentali, facendo prevalere le relazioni umane sul profitto. Si analizzeranno i punti forza e le debolezze di un settore che cerca di porsi come competitor dei brand unfair. L’attuale sistema produttivo è diventato ormai insostenibile dal punto di vista ambientale, sociale ed economico. Diviene, quindi, necesario per il commercio equo lavorare sulle criticità che presenta (comunicazione, riconoscibilità presso il consumatore, adattabilità al cambiamento, creazione di una rete tra cooperative) per imporsi realmente come modello alternativo di produzione da attuare negli anni a seguire.”

Qualche dato sull’iniziativa: i partecipanti al premio Mani Tese per neolaurati sono stati 39, di questi il 77% donne e il 23% uomini. La città più rappresentata è Milano, col 26% delle partecipazioni, a seguire Roma, Napoli, Torino, Firenze e Bologna. La maggior parte dei candidati proviene da un percorso di studi in Economia (nel 26% dei casi), Scienze Politiche (13%) o Architettura (8%). Le tematiche più affrontate sono state invece la sostenibilità dei processi produttivi, l’economia circolare applicata e la rigenerazione urbana.

Federica Leo

SENSIBILIZZAZIONE E MIGRAZIONE: LA CONSAPEVOLEZZA PASSA ANCHE DALLE DEFINIZIONI

L’importanza di tutelarsi e di difendere i propri diritti attraverso la migrazione regolare nei workshop organizzati in Guinea-Bissau.

“Se migri attraverso i canali legali puoi chiedere protezione quando i tuoi diritti non vengono rispettati”. Sono le parole di un giovane volontario di RENAJ – Rede Nacional de Associacoes Juvenis, che a novembre ha partecipato a un evento di formazione a Bissau sul tema della migrazione.

L’attività di formazione è stata realizzata nell’ambito del progetto “TERRA RICCA! SENSIBILIZZAZIONE SUI RISCHI DI MIGRAZIONE IRREGOLARE finanziato dal Fondo Fiduciario dell’Unione Europea e dell’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni e implementato da Mani Tese, in partenariato con l’Associazione locale Netos de Bandim, che prevede la sensibilizzazione riguardante i rischi e le alternative della migrazione irregolare

Durante il workshop, sono stati organizzati dibattiti, proiezioni e attività di teatro, attraverso i quali parlare dei temi legati alla migrazione con lo scopo di approfondire i concetti base e interrogarsi sui rischi che si possono correre tramite la migrazione irregolare e quali invece le opportunità offerte da quella regolare.

L’entusiasmo dei giovani di RENAJ ha trasformato un momento di formazione in un dibattito stimolante. Così, durante lo scambio di opinioni, è emerso che per parlare di chi si sposta o soggiorna in un Paese diverso dal proprio, al di fuori delle regole giuridiche, non dovrebbe essere usato il termine “clandestino” così come la migrazione dovrebbe essere definita “irregolare” e mai “illegale”, in ragione dell’offesa alla dignità umana che tali termini possono arrecare.

Riflessioni profonde e interessanti che saranno trasmesse da RENAJ ai tanti altri attivisti della rete di associazioni giovanili guineensi durante gli incontri che organizza per formare e informare gli adolescenti sui diritti umani, con lo scopo di accrescere il senso civico dei giovani cittadini della Guinea-Bissau.

Qui di seguito alcune foto dall’evento di formazione:

2. IL SOGNO DI VIVERE CON I PROPRI FIGLI

Rakiatou è un’infaticabile lavoratrice che, insieme ad altre donne, trasforma cereali e produce biscotti che vuole esportare all’estero. Il suo sogno è quello di vivere con i proprio figli.

di Giulia Polato, Responsabile Paese Burkina Faso

Rakiatou lavora nell’associazione KOMALE, nel Boulgou. Si occupa della trasformazione di cereali, produce biscotti e, come ogni donna burkinabè, fa mille attività diverse, nel tentativo di “se débrouiller”, cercando di far quadrare i conti e di contribuire al benessere della famiglia.

L’associazione dei produttori agroecologici di Rakiatou nacque nel 2002 proprio da una sua idea. Rakiatou si era resa conto che le donne che lavoravano individualmente faticavano molto e avevano tante spese da sostenere mentre i ricavi erano minimi. Propose quindi alle sue vicine e conoscenti di mettersi insieme e creare un’associazione per dividere e condividere fatiche, spese, ma anche i risultati!

Nacque così Komale, che letteralmente significa “impegniamoci”, “diamoci da fare” e che rappresenta lo spirito con cui Rakiatou ancora oggi porta avanti la sua attività. La vergogna più grande, ci racconta Rakiatou, sarebbe infatti che qualcuno le dicesse che è pigra: lei non ama perdere tempo e vuole lavorare sempre, finché ne avrà la possibilità.

Komale iniziò a occuparsi di trasformazione del sapone mettendo da parte, goccia dopo goccia, un po’ di denaro per espandere la propria attività. Vedendo le coltivazioni di sorgo, miglio e mais nella sua zona, Rakiatou comprese infatti poi che quello era un settore che le avrebbe portato benefici. Insieme ad alcuni partner, comprò dunque l’attrezzatura per iniziare questa nuova attività. Komale oggi ha anche un piccolo pollaio, donato dalla Maison de l’Entreprise, e un orto, di cui le donne si occupano a turno.

Nell’ultimo anno, inoltre, grazie all’appoggio del progetto “Imprese sociali innovative e partecipazione dei migranti per l’inclusione sociale in Burkina Faso” (cofinanziato da AICS e Fondazione Maria Enrica),  Rakiatou ha avuto la possibilità di ricevere una formazione per alfabetizzarsi ed iniziarsi alla contabilità di base. Il progetto, però, poteva finanziare la formazione solo di una persona. Senza arrendersi, Rakiatou, dopo le nozioni apprese durante il corso, è riuscita, da sola, a formare anche tutte le altre persone interessate della sua associazione. 

Rimane però ancora un problema, in particolare nell’attività di pasticceria (Komale produce anche biscotti): il forno. Nel villaggio non ce n’è uno. Bisogna percorrere in moto, o se va male in bici, 20 km per andare e tornare dalla città, con tutto il materiale e gli ingredienti pesantissimi sulle spalle, per cercare di approfittare al meglio della giornata e cuocere più biscotti possibile.  Spesso si torna a casa a notte inoltrata, con il pericolo di percorrere le strade al buio.

Usando un forno “comune”, inoltre, non si può sempre garantire la pulizia  e la non contaminazione dei biscotti, e questo a Rakiatou fa molta rabbia, perché lei tiene molto al fatto che il suo prodotto sia perfetto: vorrebbe addirittura ottenere una certificazione per esportare all’estero. Per questo sta lavorando anche di notte, anche col supporto del progetto di Mani Tese che darà a Komale la possibilità di costruirsi un proprio forno, cercando sempre nuovi mercati e utilizzando i social per espandere la sua attività.

Alla domanda “Perché fai tutto questo?”, Rakiatou ci risponde sicura: “Molto semplice: io abito in un villaggio, ma la mia famiglia, i miei ragazzi, sono tutti in città, a Tenkodogo. Il mio sogno è di potermi comprare una casa lì e vivere vicino a loro”.

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DAL KEROSENE AL SOLARE: LA RIVOLUZIONE ENERGETICA IN KENYA

In Kenya un gruppo di giovani installatori fotovoltaici porta sistemi solari alle famiglie che ancora usano lampade a kerosene, costose e dannose per la salute.

In Kenya prosegue il lavoro del Molo Solar Light Group, un gruppo di giovani installatori di impianti fotovoltaici che si sta formando nell’ambito del nostro progetto Imarisha, cofinanziato dall’Agenzia Italiana per la Cooperazione allo Sviluppo.

L’obiettivo del gruppo è la fornitura di una soluzione a basso costo e di alta qualità per risolvere il problema energetico delle popolazioni che vivono intorno alla foresta Mau. A oggi, la fonte primaria di energia per illuminare le abitazioni è infatti ancora la lampada a kerosene, che causa gravi problemi di salute per via delle emissioni di gas e comporta elevati costi di gestione per le famiglie.

Nel corso di queste settimane il lavoro del gruppo è proseguito con la realizzazione del materiale promozionale (volantini e manifesti) da poter usare per presentare i prodotti solari durante gli incontri con le comunità locali e da distribuire nei mercati della zona.

Il progetto Imarisha mira infatti a promuovere, attraverso il gruppo, raccoltosi sotto il brand You Green, soluzioni solari che possano rispondere a necessità di illuminazione, ricarica cellulari, e funzionamento di radio e TV.

Il gruppo in questo momento sta promuovendo sistemi solari ad hoc, ovvero studiati secondo le esigenze dei clienti, e sistemi solari plug and play. Questi ultimi sono certificati Lightening Global, uno standard che ne garantisce la qualità.

Mrs. Margret Wambui Kabiru, residente nella zona di Njoro, è stata la prima cliente di un sistema plug and play.

Inizialmente Margret in casa usava lampade a kerosene ma la luce prodotta non era adeguata ai suoi bisogni e a quelli della sua famiglia. Con l’installazione del sistema solare la sua vita è radicalmente cambiata.

“Sono finiti i fumi, ho luce e i miei bambini possono studiare – racconta Margret – In più i miei problemi di salute sono scomparsi. Non ho più dolori al petto e difficoltà a respirare. Risparmio e con la TV posso vedere le notizie. You Green è stata fondamentale dandomi la possibilità di poter usufruire di questi prodotti”.

PIÙ FORTI DELL’ACCIAIO: A GRANDE RICHIESTA LA REPLICA DEL FILM A MILANO E A TARANTO

Tre persone, tre vite diverse, tre luoghi distanti. Tutti legati da un unico filo conduttore: l’acciaio. Simbolo dell’industria estrattiva e siderurgica mondiale, l’acciaio fa da ingombrante sfondo al nuovo, intenso, lungometraggio commissionato da Mani Tese, Ong che da oltre 55 anni si batte per la giustizia sociale e ambientale nel mondo, alla regista Chiara Sambuchi […]

Tre persone, tre vite diverse, tre luoghi distanti. Tutti legati da un unico filo conduttore: l’acciaio. Simbolo dell’industria estrattiva e siderurgica mondiale, l’acciaio fa da ingombrante sfondo al nuovo, intenso, lungometraggio commissionato da Mani Tese, Ong che da oltre 55 anni si batte per la giustizia sociale e ambientale nel mondo, alla regista Chiara Sambuchi “PIÙ FORTI DELL’ACCIAIO”.

A grande richiesta, a Milano e a Taranto la replica del film documentario di Mani Tese

 

 

MILANO, CINEMA ANTEO, 18 DICEMBRE 2019, ORE 21.00

Seguirà dibattito con:
Lucia Capuzzi, giornalista di Avvenire
Danilo De Biasio, direttore del Festival dei Diritti Umani

> Ingresso libero previa registrazione <

 

TARANTO , CINEMA BELLARMINO, 28 DICEMBRE 2019, ORE 11.00

Seguirà dibattito con:
Grazia Parisi, protagonista del film
Luciano Manna, fondatore di VeraLeaks

> Ingresso libero previa registrazione <

 

> Guarda il trailer del docufilm <

Più forti dell'acciaio_movie poster_mani tese_2019

PIÙ FORTI DELL’ACCIAIO” è un vero e proprio viaggio emotivo sulle conseguenze sociali e ambientali di una delle filiere produttive più controverse, che inizia dalla più grande miniera a cielo aperto del mondo nello stato amazzonico del Parà, in Brasile, prosegue fino all’impianto siderurgico di Taranto e termina a Duisburg, nell’ ex bacino della Ruhr, in Germania.

“Mani Tese prosegue il suo impegno per la promozione di una cultura di impresa che sia capace di coniugare la redditività con il rispetto dei diritti umani e dei cicli naturali – dichiara Giosuè De Salvo, Responsabile Advocacy, Educazione e Campagne di Mani Teseattraverso la proposta di un documentario profondo, a tratti commovente, che vuole ‘volare alto’ rispetto alla cronaca di questi giorni e innescare un dibattito pubblico sulla transizione industriale richiesta dalle sfide del cambiamento climatico e degli altri obiettivi di sviluppo sostenibile delle Nazioni Unite, lanciati nel 2015 con orizzonte al 2030”.

I tre personaggi

Pixininga è un piccolo agricoltore brasiliano che lotta per la sopravvivenza dei contadini nella regione brasiliana del Carajas, occupata, per più della metà della sua superficie, dal gigante dell’estrazione mineraria Vale.

Grazia, pediatra tarantina, ha un chiodo fisso: la chiusura dell’acciaieria della sua città, per non dover più spiegare ai suoi piccoli pazienti perché i bimbi e i loro genitori a Taranto muoiono prima degli altri.

Nella cittadina tedesca di Duisburg, nel cuore del bacino della Ruhr, Egbert lavora alla conversione di un enorme stabilimento siderurgico, sanato dopo la sua chiusura, in un parco naturale per famiglie.

PIÙ FORTI DELL’ACCIAIO’ è un film sulla presa di coscienza, sulla volontà indistruttibile di voler scrivere un nuovo corso per il proprio mondo e sulla lotta a cui i nostri tre eroi sono disposti, pur di riuscirci – commenta la regista Chiara Sambuchi –  È la risposta positiva e piena di speranza a una foresta amazzonica deturpata dalla voragine della miniera di ferro di Serra Norte. È la reazione a decenni trascorsi a Taranto respirando diossina e seppellendo madri, padri, amici e sempre più spesso i propri figli. O ancora il risveglio dopo decenni di tremendo inquinamento nel bacino della Ruhr, che finalmente si riappropria di sé”.

Il documentario in breve

Attraverso l’osservazione intima del quotidiano dei tre protagonisti, in tre luoghi simbolo della filiera globale dell’acciaio, “PIÙ FORTI DELL’ACCIAIO” descrive l’impatto dell’industria estrattiva e siderurgica attuale sui delicati equilibri naturali e sulla salute di chi vive a ridosso dei siti produttivi.

Il film documentario mostra lo sforzo personale che ognuno dei tre protagonisti compie contro uno sfruttamento delle risorse umane e naturali spesso cieco e votato al sovra consumo senza fine. Tra lotte legali per mantenere il possesso delle terre e la vita contadina, l’agricoltore Pixininga conduce lo spettatore in una scoperta tragica e affascinante del cuore della foresta amazzonica violata, fino all’immensa miniera di Serra Norte, la più grande a cielo aperto del mondo.

In perenne movimento tra le strade del rione Tamburi, il quartiere accanto all’acciaieria tarantina in cui vivono molti dei suoi piccoli assistiti, la pediatra Grazia lotta contro l’inquinamento causato dalle emissioni della diossina delle ciminiere e dalla perenne esposizione alle polveri di ferro e altre sostanze patogene. Egbert, direttore dei lavori di riqualificazione di una delle regioni storicamente più inquinate di Europa, suggerisce allo spettatore come agire per superare un modello di consumo ormai non più sostenibile.

Scheda del film

Genere: film documentario
Anno di produzione: 2019
Durata: 60 minuti
Regia: Chiara Sambuchi
Direzione della fotografia: Paolo Pisacane, Ralf Klingelhöfer
Montaggio: Simone Veneroso
Casa di produzione: TV Plus, Berlino
Progetto: Mani Tese

Più forti dell’acciaio è un documentario prodotto all’interno del progetto “New Business for Good”, realizzato con il contributo di Agenzia Italiana per la Cooperazione allo Sviluppo, e supporta il programma di Mani Tese MADE IN JUSTICE per una cultura dei diritti umani e del rispetto dell’ambiente nelle aziende e nella società

1. Il meraviglioso futuro di Elisabeth

“Da soli si va più veloci, ma insieme si va più lontano” è il motto della presidente della cooperativa di donne “Beog Neere” in Burkina Faso.

di Giulia Polato, Responsabile Paese Burkina Faso

Ho conosciuto Elisabeth il 10 giugno. Ricorderò sempre quella data perché è stato il giorno della mia prima uscita sul campo. Il lavoro amministrativo serve, ma il contatto con le persone che realizzano e vivono quotidianamente le attività di progetto è quello che più mi piace del mio lavoro ed è ciò che mi motiva.

Elisabeth è la presidente della cooperativa “Beog Neere” di Kindi, nel Boulkiemdé. È una donna istruita, che parla fluentemente francese e con la quale è quindi stato facile rapportarmi.

Quel giorno, Elisabeth mi accompagnò a fare il tour delle organizzazioni collettive della zona, introducendomi a tutte quelle realtà che non avevo ancora avuto modo di conoscere, essendo arrivata da poco nel Paese. Ricordo che mi piacque davvero molto il suo dinamismo e il modo diretto e aperto con cui si relazionò a me, senza troppi filtri o formalità.

Come ultima tappa del nostro itinerario, Elisabeth mi portò a conoscere la sua associazione. Ma non si limitò a farmi trovare semplicemente l’esposizione di tutti i prodotti che lei e le altre donne trasformavano (olio di neem, sapone, soumbala, attieké, farina di mais, placali, conserve di verdura, cous cous, riso, ecc.), mi coinvolse anche direttamente nell’attività, facendomi toccare con mano cosa significava fare un certo tipo di lavoro.

Grazie a Elisabeth, potei trasformare la manioca in cous cous (attieké) e fu un momento importante, perché con questo gesto lei fece due cose bellissime: mise tutti sullo stesso piano e mi dimostrò concretamente in cosa il progetto l’aveva aiutata e ancora la poteva aiutare nello sviluppo della sua associazione.

Oggi, a distanza di mesi, la cooperativa Beog Néere di Elisabeth è risultata essere tra le 20 imprese selezionate dal progetto “Imprese sociali innovative e partecipazione dei migranti per l’inclusione sociale in Burkina Faso” – cofinanziato dall’Agenzia Italiana per la Cooperazione allo Sviluppo e Fondazione Maria Enrica – per ricevere un aiuto concreto per lo sviluppo e la crescita della loro realtà imprenditoriale.

Sono quindi andata a fare due chiacchiere con lei e oggi voglio raccontarvi la sua storia.

Elisabeth vive e lavora nel comune di Kindi, a qualche km da Koudougou, in Burkina Faso. È in gamba, istruita e se la cava con la vendita dei suoi prodotti trasformati, ma in testa le risuona un adage “seuls on va plus vite, ensemble on va plus loin” (da soli si va più veloci, ma insieme si va più lontano).

Per questo motivo, 7 anni fa, Elisabeth decise di rimboccarsi le maniche e di mettere insieme tutte le donne di buona volontà del suo villaggio che avessero voglia di lavorare e crescere insieme. C’erano trasformatrici di néré, di attieké, di sapone…Ognuna aveva la sua specificità che, secondo Elizabeth, andava preservata e valorizzata perché non si perdessero le conoscenze di ciascuna ma, aanzi, venissero condivise come ricchezza.

Nacque cosìBeog Néere”, che tradotto dal mooré significa “futuro meraviglioso”: un messaggio di speranza per tutte le 15 donne che oggi ne fanno parte.

Ora, con il sostegno di Mani Tese, queste donne stanno modernizzando le loro tecniche di produzione dell’attieké, curando anche il packaging e il marchio dei loro prodotti.

Il sogno di Elisabeth è che tra 5 anni Mani Tese possa tornare da loro e trovare un’impresa autonoma, indipendente e sostenibile, con il marchio Beog Néere riconosciuto in tutto il Paese. “Se ti aiutano a lavarti la schiena, bisogna che tu sappia lavarti la faccia da solo!” ha letteralmente commentato Elizabeth.

Essere donna ed essere imprenditrice non è mai facile e il Burkina Faso non fa eccezione, ma Elisabeth è forte, ha tantissima inventiva e buona volontà ed è per questo che è riuscita a far crescere tantissimo la sua associazione. Noi siamo sicuri che potrà ancora fare grandi cose!

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Una finanza di valore

Nuove regole, investimenti indirizzati verso la sostenibilità, scelte di etiche e “reputazione”: un mix di azioni che possono cambiare i meccanismi della finanza orientata al solo profitto.

NUOVE REGOLE, INVESTIMENTI INDIRIZZATI VERSO LA SOSTENIBILITÀ, SCELTE DI ETICHE E “REPUTAZIONE”: UN MIX DI AZIONI CHE POSSONO CAMBIARE I MECCANISMI DELLA FINANZA ORIENTATA AL SOLO PROFITTO.

Ugo Biggeri è presidente di Etica Sgr. Già presidente di Banca Etica, è anche docente universitario. Dal 2017, inoltre, è consigliere della Global Alliance for Banking on Values e dal 2018 è vice presidente di Sharholders for Change, la rete di investitori istituzionali europei che promuove l’azionariato attivo. A lui abbiamo chiesto quale ruolo può giocare la Finanza Etica nel definire la finanza del futuro: attenta agli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile (SDGs) e rispettosa dei diritti umani e dell’ambiente.

Sei stato presidente di Banca Etica e attualmente sei presidente di Etica Sgr. Due realtà di “finanza etica” che propongono un modello di business differente. Su quali valori si fondano? Come funzionano?

“La finanza etica in Italia nasce negli anni ‘90 come evoluzione del consumo critico nel campo finanziario: Mani Tese è stata una delle 20 organizzazioni promotrici e fondatori della cooperativa verso la Banca Etica. In particolare la finanza etica considera il profitto come un sano vincolo, ma non come unico obiettivo degli attori economici, si fa quindi domande sulle conseguenze non economiche delle azioni economiche. Con questo ridimensionamento del valore esclusivo del profitto monetario individuale cerca di massimizzare gli impatti sociali ed ambientali positivi e di minimizzare quelli negativi. Questo implica definire degli obiettivi socio-ambientali strategici che vanno valutati, misurati, controllati: un’attività professionale che si integra nella gestione economica e presuppone coerenza nei comportamenti, nei prodotti e nell’assetto proprietario. Banca Etica è una cooperativa con oltre 40 mila soci che opera in Italia e Spagna e garantisce che il risparmio sia indirizzato a progetti di utilità sociale e ambientale che misura e mostra pubblicamente. È quindi molto vicina all’economia locale ed ai bisogni del no profit, delle piccole imprese e delle persone. È una banca con tutti i servizi, anche online. Ha un miliardo di euro di finanziamenti in corso. È da sempre attiva anche nel settore del microcredito sia in Italia che nel Sud del mondo con qualche decina di milioni di euro investiti. Etica Sgr è una società controllata da Banca Etica. Applica la finanza etica al settore degli investimenti (in cui il risparmiatore accetta un rischio maggiore rispetto ai depositi in banca) e in particolare con i fondi comuni di investimento, che hanno la caratteristica di poter essere rivenduti in qualunque momento e l’obiettivo di dare un rendimento. I fondi di Etica Sgr operano delle scelte etiche sui titoli azionari quotati e sui titoli emessi dagli stati di tutto il mondo secondo un processo ben strutturato e pubblico. Etica Sgr attualmente gestisce oltre 4 miliardi di euro. I suoi fondi sono distribuiti anche da molte altre banche (tra cui il credito cooperativo)”.

Come si relaziona Etica Sgr con gli SDGs?

“Etica Sgr seleziona con criteri sociali, ambientali, di governance e di rispetto dei diritti umani le realtà in cui investe, e questo lo fa da quasi 20 anni quindi ben prima della definizione degli SDGs. Abbiamo comunque ridefinito il modo di presentare i nostri fondi valorizzando la corrispondenza con tali obiettivi. Misuriamo l’impatto di CO2 dei fondi, l’impatto sociale e il rispetto dei diritti umani, mostrando performance molto migliori del resto del mercato e anche buoni rendimenti. Oltre all’attività di un’attività di selezione e ricerca dei fondi coerenti con gli SDGs, riteniamo molto importante fare “azionariato critico” con le imprese formulando richieste in senso etico alle società in cui investiamo (ad esempio contenendo gli stipendi dei manager e legandoli ad obiettivi sociali ed ambientali coerenti con gli SDGs). Attraverso la rete Shareholder for Change e la Fondazione Finanza Etica di cui siamo soci, viene fatto azionariato critico anche in realtà in cui non investiamo: è il caso di H&M con la campagna Abiti Puliti, a cui Mani Tese aderisce”.

Quale ruolo può giocare la finanza in una visione di economia del futuro, ovvero un’economia che persegua gli Obiettivi di Sviluppo sostenibile (SDGs) e risponda alle sfide del cambiamento climatico?

“La finanza gioca e giocherà comunque un ruolo cruciale su questi temi. Gestisce volumi di scambi finanziari che sono decine di volte il PIL mondiale e quindi determina le scelte di fondo dell’economia mondiale. Fino a oggi è stata incapace di governare i necessari processi di riduzione dei cambiamenti climatici e delle disuguaglianze crescenti. Questo non cambierà in futuro se non si avrà il coraggio di imporre regole nuove, come la Tobin Tax, che limitino le pratiche speculative e soprattutto se non si metteranno in atto incentivi e disincentivi fiscali, normativi e regolamentari per indirizzare l’efficienza della finanza verso il raggiungimento degli SDGs. Il volontarismo o gli appelli non bastano. I prodotti social o green di cui viene inondato il mercato sono un segno interessante di una domanda da parte dei cittadini, ma non intaccano il business as usual: dalla Conferenza sul Clima di Parigi del 2015 si sono investiti 50 miliardi di euro nelle ricerche di nuovi giacimenti petroliferi”.

Qual è la tua visione rispetto al futuro della finanza?

“Nonostante tutto credo ci siano grandi opportunità per tutti se prenderemo sul serio la riconversione ecologica e sociale. Contrariamente a una falsa narrativa molto diffusa, per cui abbandonare il petrolio implica tornare alla candela di cera d’api, disincentivare le fonti fossili (ad esempio con una Carbon Tax) sposterà investimenti verso un nuovo modello energetico, genererà innovazione, posti di lavoro, economia locale. Analogamente una visione di lungo periodo sulle disuguaglianze (che tra l’altro generano migrazioni) ci potrebbe far riflettere sul fatto che le forze giovani e produttive del futuro e le necessità di investimenti strutturali non saranno più in Europa, ma in Africa e in molti paesi del Sud del mondo. Zone del pianeta in cui sarebbe possibile ipotizzare uno sviluppo economico importante e più sostenibile (quindi anche più competitivo) di quello che ha avuto il Nord del mondo”.

Ci sono degli esempi che possono indicare la via ed essere citati come best practices?

“Ovviamente il gruppo Banca Etica. Più in generale la Global Alliance for Banking on Values rappresenta un insieme interessante di oltre 50 banche di microcredito del Sud del mondo e banche sostenibili del Nord del mondo che stanno intrecciando le loro buone pratiche. Considero un buon esempio anche l’attenzione crescente che le persone giovani hanno per il consumo critico e le scelte etiche in campo economico: sono convinto che questo rafforzerà le buone pratiche esistenti e ne favorirà di nuove perché il mondo digitale, pur con tutti i suoi difetti premierà molto più che in passato la coerenza e la buona reputazione degli operatori economici”.

Ugo Biggeri intervista mani tese 2019
Ugo Biggeri, presidente di Etica Sgr e già presidente di Banca Etica.

Articolo pubblicato sul numero di Dicembre 2019 del Giornale di Mani Tese.

Industria sostenibile

Politiche pubbliche “responsabili”, ricerca e innovazione, consumatori informati e alleanze transnazionali fra organizzazioni di lavoratori tra i “cardini” per un sistema produttivo virtuoso.

di MASSIMILIANO LEPRATTI, Consigliere di Economia e sostenibilità (EStà)

POLITICHE PUBBLICHE “RESPONSABILI”, RICERCA E INNOVAZIONE, CONSUMATORI INFORMATI E ALLEANZE TRANSNAZIONALI FRA ORGANIZZAZIONI DI LAVORATORI TRA I “CARDINI” PER UN SISTEMA PRODUTTIVO VIRTUOSO.

Il sistema dell’economia industriale mondiale è la principale origine di due dei maggiori problemi vissuti a livello mondiale a partire dal secondo dopoguerra: la crescita delle diseguaglianze globali e l’impatto negativo sui sistemi ecologici. Sul piano delle diseguaglianze occorre osservare che il settore dell’industria e quello dei servizi connessi consentono di ottenere un grado di ricchezza aggiuntiva (valore aggiunto) per lavoratore impiegato assai più elevato di quanto avvenga nel settore agricolo e nel settore dei servizi alle famiglie. La produzione del valore aggiunto, in particolare a partire dagli anni ‘70 del secolo passato, è stata organizzata attraverso una divisione del lavoro che ha lasciato i pezzi di catena del valore a bassa remunerazione nel Sud globale, concentrando le altre nel Nord. Il risultato è stato il differenziarsi dei redditi, che per un abitante del Sud globale in questo decennio è in media di circa 5.000 dollari, mentre quello di un abitante del Nord globale supera i 40.000: una forbice che cresce nel tempo e che oggi raggiunge un rapporto di 8 a 1 (nel 1975 era inferiore a 6 a 1).

Sul piano del rapporto con la natura il dato più rilevante è la crescita del livello di emissioni di CO2 equivalente causato dalla produzione economica nel suo complesso e in particolare da due settori strettamente connessi: il comparto energetico e quello industriale. L’industria ancora oggi si basa sull’uso di energia fossile e non solo nei paesi del Sud: la ricca Germania continua ad avere un grado preoccupante di dipendenza dal carbone. Di conseguenza l’85% dell’emissione di CO2 è oggi legato alla fase della produzione dei beni, mentre solo il 15% è imputabile al consumo delle famiglie. Il risultato complessivo è la crescita rapida dei gas a effetto serra. Nel 1960 l’atmosfera terrestre ne conteneva in media circa 300 parti per milione, nel 2019 siamo arrivati a 414 (a 450 il riscaldamento globale sarà irreversibile e a quel punto nessuno sa cosa potrà accadere alla specie umana).

Scrivere un futuro diverso

Per orientare l’economia industriale dei prossimi anni vi possono essere diverse direzioni e modelli entro cui collocarla. Tra questi ne abbiamo scelto uno in particolare che permette di affrontare il tema nella stessa ottica interdisciplinare e globale che ha orientato la definizione dell’Agenda 2030 dell’Onu e dei relativi SDGs. Lo studioso rumeno Georgescu Roegen, un precursore fin dal 1970 di molti tra i ragionamenti più recenti, è il pensatore che ha coniato il concetto di “bioeconomia”. Secondo l’allievo dell’illustre Schumpeter, il processo produttivo deve minimizzare l’entropia del sistema e per farlo deve tendere ad uno stato di assenza di crescita. Ma il pensiero dello studioso rumeno si presta a un’interpretazione che non esclude la crescita economica, a patto che questa si manifesti in un aumento della quantità di lavoro equamente pagato presente in un manufatto o in un servizio e in una contemporanea diminuzione più che proporzionale della quantità di natura (materie prime ed energia dell’intero processo) ivi utilizzata irreversibilmente. Un principio che, applicato all’industria (dalla fascia dell’alta tecnologia al settore della raccolta porta a porta e del riutilizzo e riciclaggio dei rifiuti), permette potenzialmente di avere più occupati, più ricchezza e minore impatto negativo sull’ambiente.

L’importanza della ricerca

A un livello di maggior dettaglio si possono presentare alcuni ragionamenti riferibili ai singoli settori produttivi, distinguendo tra industria ad alto impatto tecnologico (settori legati alla produzione di macchinari), e industria ad alto impiego di manodopera poco specializzata (settori legati a molti beni di consumo per le famiglie). una politica pubblica orientata a sostenere la ricerca e l’innovazione tecnologica, può fornire strumenti e prodotti affinché anche un altro settore strategico come l’agricoltura si trasformi, potendo usare prodotti industriali differenti (ad es. motori a biometano anziché diesel, teli di pacciamatura in bioplastica compostabile, compost di qualità prodotto da impianti efficienti di trattamento dei rifiuti umidi…). In questo modo l’agricoltura migliorerebbe nettamente il suo impatto ambientale e, accompagnando queste scelte con la rinuncia ai prodotti chimici, verrebbe spinta a orientarsi verso prodotti a maggior valore aggiunto economico e con maggiore impiego di occupati. Un forte ripensamento delle modalità e delle quantità relative agli allevamenti completerebbe il necessario ripensamento del settore. Laddove si investe maggiormente in ricerca e sviluppo di brevetti legati al miglioramento degli impatti ambientali, si produce maggiore ricchezza, distribuita attraverso contratti di lavoro più duraturi e meglio pagati e a minor contenuto di CO2. In questi casi lo Stato non è neutro, ma tende a governare i processi sostenendo la ricerca, sanzionando in alcuni casi (Svezia) i comportamenti inquinanti grazie a una “Carbon Tax” seria, favorendo lo sviluppo di settori innovativi attraverso norme che selezionino gli sviluppi più virtuosi.

Un’economia rispettosa dei diritti

Passando a un altro settore, la manifattura a basso contenuto di capitale e ad alto impiego di lavoro (in gran parte poco qualificato), il discorso specifico muta e al tema ecologico si aggiunge il tema sociale. Un esempio per tutti è quello riferibile al settore tessile. Qui la ricerca globale di manodopera sfruttabile da parte delle imprese ha come conseguenza salari molto bassi e condizioni di lavoro durissime, accompagnati dal disinteresse per i costi ambientali legati alla filiera produttiva (si pensi che per le operazioni di tintura dei vestiti ogni anno si impiega una quantità di acqua pari a quella di un mare di medie dimensioni). In questo e in altri settori simili l’azione congiunta di consumatori informati sulle dinamiche globali e di alleanze sindacali transnazionali è un fattore fondamentale per un’economia industriale che in futuro non solo permetta la sopravvivenza ecologica della specie umana, ma veda al suo interno quel livello di distribuzione del reddito e di accesso ai diritti fondamentali senza i quali diviene impossibile ogni reale forma di coesione sociale.

Articolo pubblicato sul numero di Dicembre 2019 del Giornale di Mani Tese.