La scuola che riparte

A settembre la scuola ricomincerà, ma quest’anno sarà necessario lavorare insieme ad insegnanti e studenti per costruire insieme un nuovo modello di scuola.

La scuola ripartirà a settembre. Lo sappiamo tutti, ma non è mai stata una notizia così attesa. Non sarà il solito primo giorno di scuola, sempre emozionante e uguale a sé stesso, come un rito che nel ripetersi ogni anno scandisce il tempo delle famiglie e dei docenti.

Quest’anno sarà diverso. Anche questo lo sappiamo tutti, perché la scuola non ci è mai mancata così tanto. Lo sentiranno i ragazzi, dopo tanto tempo a casa, alcuni di loro in un nuovo istituto senza aver potuto nemmeno salutare i vecchi compagni. Lo sentiranno gli insegnanti, chiamati ad una diversa normalità che stravolgerà la loro professione nel quotidiano anche più di quanto non sia successo nei giorni di lockdown. Lo sentiranno le famiglie, come genitori ma anche come cittadini che vedranno finalmente restituito ai propri figli il diritto più importante, quello di studiare, e a sé stessi quello di poter dedicare uno spazio esclusivo al lavoro.

Finisce qui tutto quello che sappiamo. L’appuntamento è noto ma non conosciamo i dettagli e non abbiamo veramente idea di cosa dovremo aspettarci.

Di certo, la scuola che riparte avrà un sacco di problemi da risolvere.

Prima di tutto dovrà pensare a come colmare la distanza tra chi è riuscito a rimanere agganciato con la Didattica a Distanza e chi invece è rimasto indietro, perché non ha una connessione stabile o non possiede un computer in casa (secondo i dati ISTAT 2019 stiamo parlando del 23,9% delle famiglie italiane, una su quattro) o perché non ha una situazione familiare che permette un’adeguata concentrazione. Se i dati sull’abbandono scolastico erano già preoccupanti prima, con l’Italia che faticava a smuoversi dagli ultimi posti in Europa, resta da capire quanto inciderà lo stop forzato sul numero di studenti che appenderanno i libri al chiodo e non si presenteranno all’appuntamento di Settembre, e quanto farà crescere i dati sulla dispersione scolastica che precede l’abbandono vero e proprio.

Secondo un’indagine che abbiamo condotto su oltre 1.700 studenti tra i 9 e i 13 anni in periodo appena per-COVID nell’ambito del progetto Piccoli che Valgono, finanziato dall’Impresa Sociale Con i Bambini, il disagio scolastico ha un numero magico ricorrente, una costante fissa che emerge analizzando quasi tutte le dimensioni del fenomeno. Il 15%. L’abbiamo chiamata la regola del settimo nano, uno su sette che mostra, fin dalle elementari, quei segni di insofferenza e malessere che porteranno all’abbandono. Consideravamo molto grave pensare che nel nostro Paese un bambino su sette non è nelle condizioni di godere appieno del diritto allo studio: ora lo scenario minaccia di essere drasticamente peggiore.

La scuola che riparte avrà anche moltissimi problemi strutturali. Non dovrà pensare solo al cosa e al come, ma anche al dove. Molte strutture scolastiche, già bisognose di investimenti, ora sarebbero totalmente inadeguate a garantire un minimo di distanziamento fisico, dalle classi, agli spazi comuni, alle sale mensa (quando ci sono).

Molti si chiedono se non sia venuto il momento di superare il sistema classe, inteso come uno spazio fisico fisso abitato da un gruppo di bambini fisso intorno a cui girano gli insegnanti e viene impostata la didattica, a favore di un modello più diffuso, fruibile a piccoli gruppi e in spazi diversi, magari in parte gestiti fuori dalla scuola, in collaborazione con le organizzazioni di terzo settore.

Sarebbe una vera e propria rivoluzione, ma forse è venuto davvero il tempo di fare scelte coraggiose. Il mondo dell’istruzione è fin troppo abituato alle riforme che non riformano, come si può scoprire facilmente confrontando i nostri dati con quelli degli altri paesi occidentali. Il rapporto dell’OCSE del 2019 Education at Glance è molto chiaro su alcuni punti. L’Italia spende per l’istruzione il 3,6% del suo PIL, rispetto al 5% della media dei paesi OCSE, è al 18° posto dopo l’Irlanda per spesa media per studente (8.200€ all’anno) ed è al primo posto per l’anzianità del corpo docente. Basterebbe questo per dire che cambiare oggi significa decidere di puntare davvero su istruzione e cultura, a maggior ragione in un momento di crisi come questo.

Noi, come molte altre organizzazioni del terzo settore, ci siamo.

Pensiamo che sia ancora più importante oggi parlare di cittadinanza globale, di diritto al cibo, di scelte economiche consapevoli, di clima, di migrazioni.

Siamo convinti che sia fondamentale essere presenti, sia fisicamente che sul web, per lavorare insieme ad insegnanti e studenti e costruire insieme un nuovo modello di scuola, più creativo e partecipato.

Sappiamo bene, come ci ha ricordato Franco Lorenzoni nel ciclo di incontri on line “Il bello di restare” che abbiamo organizzato per riflettere su questo tempo sospeso, che nella lotta alla dispersione la scuola da sola non ce la può fare.

Mani Tese c’è, con i suoi strumenti, metodi, spazi e capacità progettuale, ma non in sostituzione di un necessario intervento pubblico. Non abbiamo mai lavorato “al posto di nei paesi del Sud del Mondo dove facciamo cooperazione da cinquant’anni, e non inizieremo a farlo adesso in Italia. Dovrà essere un “insieme a.

Premio Mani Tese: vince il progetto d’inchiesta sul traffico illecito degli abiti usati

Martina Di Pirro, Francesca Ferrara e Maged Srour si aggiudicano il Premio Mani Tese per il giornalismo investigativo e sociale 2020 con il progetto di inchiesta “Di mano in mano – Il viaggio di un tessuto di seconda mano dall’Occidente all’Africa”.

Si è tenuto ieri, durante una diretta on line, l’evento conclusivo della 2a edizione del Premio Mani Tese per il giornalismo investigativo e sociale.

Il premio, promosso da Mani Tese con il contributo dell’Agenzia Italiana per la Cooperazione allo Sviluppo (AICS), si propone di portare alla luce storie e inchieste relative all’impatto dell’attività d’impresa sui diritti e sull’ambiente.

Il tema di quest’anno era relativo all‘industria dell’abbigliamento.

5 i finalisti selezionati dalla giuria presente all’evento, composta da giornalisti e giornaliste di grande spessore come Federica Angeli, Gad Lerner, Tiziana Ferrario, Gianluigi Nuzzi, Eva Giovannini, Francesco Piccinini, Stefania Prandi, Riccardo Iacona e da Emilio Ciarlo, Direttore Comunicazione di AICS.

Dopo un interessante live talk sul ruolo del giornalismo ai tempi del coronavirus condotto da Giorgia Vezzoli, Responsabile della Comunicazione istituzionale di Mani Tese, con i giurati e le giurate del Premio, i finalisti annunciati in diretta si sono sfidati con un pitch di presentazione dei loro progetti.

Fra questi, a vincere il premio aggiudicato dalla giuria è stato il team composto da Martina Di Pirro, Francesca Ferrara e Maged Srour con il progetto di inchiesta “Di mano in mano – Il viaggio di un tessuto di seconda mano dall’Occidente all’Africa“.

 

L’inchiesta intende fare luce su come i vestiti usati importati in Africa dai Paesi più ricchi abbiano l’effetto di condannare alla povertà i suoi abitanti, con conseguenze anche sull’ambiente circostante e sullo sviluppo sostenibile di queste comunità. Anche in Italia buona parte delle donazioni di indumenti usati, che i cittadini fanno per solidarietà, finiscono per alimentare un traffico illecito. Inoltre, decine di tonnellate di indumenti sono considerati non utilizzabili e dunque rifiuti da smaltire.

Ai vincitori del Premio verrà assegnato un contributo monetario fino ad un massimo di 10.000 euro a copertura delle spese di realizzazione del servizio.

Il team ha ora 120 giorni di tempo per realizzare l’inchiesta che verrà pubblicata integralmente sul sito di Mani Tese.

Gli altri progetti finalisti sono stati:

  • “La cortina delle griffe. La superpotenza del fashion che divide l’Unione Europea in due blocchi” di Alessia Albertin, Alberto Bellotto, Elisabetta Invernizzi e Claudia Zanella
  • “Riconversioni pericolose” di Alessandro di Nunzio e Diego Gandolfo
  • “Usi e costumi da bagno: cosa si cela dietro il business della fibra sintetica” di Daniela De Lorenzo e Giang Pham
  • “Le operaie tunisine cuciono il Made in Italy” di Arianna Poletti e Stefano Lorusso

 

A proposito del Premio Mani Tese

Il Premio Mani Tese per il giornalismo investigativo e sociale è un’iniziativa di Mani Tese, ONG che da oltre 55 anni si occupa di contrastare le ingiustizie nel mondo, e rientra nel programma MADE IN JUSTICE di Mani Tese, che mira a mettere i diritti umani e l’ambiente al centro della governance delle imprese e delle scelte dei consumatori. L’edizione 2020 del Premio si inserisce all’interno del progetto “Cambia MODA! Dalla fast fashion a una filiera tessile trasparente e sostenibile”, realizzato con il contributo dell’Agenzia Italiana per la Cooperazione allo Sviluppo (AICS).

PROGETTO IMARISHA: LA VALUTAZIONE FINALE

Durante il progetto “Imarisha!” abbiamo lavorato su tre ambiti: tutela ambientale, miglioramento dell’accesso alle energie rinnovabili e opportunità di occupazione e generazione di reddito.

Mani Tese ha recentemente concluso in Kenya, dopo tre anni di attività, il progetto “Imarisha! Energie rurali per la lotta al cambiamento climatico e la salvaguardia ambientale”. Proprio in questi giorni abbiamo ricevuto la valutazione finale indipendente del progetto condotta dal consulente esperto in monitoraggio e valutazione Joseph Karangathi Njoroge. Di seguito riportiamo i risultati raggiunti dall’intervento.

Il progetto si è svolto nel contesto della foresta Mau il più importante polmone verde del Kenya, nonché fonte di uno dei più importanti bacini idrici di tutta l’Africa orientale.

Mani Tese ha operato insieme al partner locale Network for Eco-farming in Africa (NECOFA) e ai partners italiani WWF Italia, Climate and Development foundation (CDF), Università degli Studi di Milano e Cooperativa Eliante.

Si è lavorato su tre ambiti: il primo ambientale che è trasversale anche agli altri due, un secondo sul miglioramento dell’accesso alle energie rinnovabili e un terzo per favorire opportunità di occupazione e generazione di reddito.

Per quel che riguarda il primo ambito le comunità del blocco forestale di Ndoinet sono oggi più sensibili rispetto all’importanza di trovare un giusto equilibrio tra natura e attività dell’uomo ed in particolare sono stati prodotti e firmati due accordi di collaborazione tra il servizio forestale dello stato e le comunità nella gestione della foresta e delle risorse idriche lì presenti. Il progetto ha rafforzato le capacità e la membership  di NOCFA (Ndoinet Forest Association) e di WRUA (Water Resources Association) che ha oggi più di 300 membri, le due associazioni comunitarie che hanno firmato e si stanno impegnando ad implementare gli accordi sopra citati.

Nella citata zona forestale sono stati piantati 1 milione di alberi con un tasso di sopravvivenza del 88,1%: 500.000 a ciclo corto nei campi dei contadini ai margini della foresta allo scopo di essere fonte di legna da ardere ed evitare così il taglio degli alberi della stessa foresta, 500.000 invece per proteggere fonti d’acqua. Sono state coinvolte 8.560 persone, riabilitati gli argini di tre fiumi e protette 6 sorgenti, dove le persone possono rifornirsi di acqua potabile prima contaminata dalla presenza di animali presso la sorgente stessa.

Sono state infine distribuite 12.000 stufe migliorate a 6.000 nuclei famigliari. Le stufe hanno permesso un risparmio medio per famiglia di 1.440 chilogrammi di legna da ardere nel periodo di realizzazione del progetto ed in generale garantiscono un risparmio di più del 50% di legna o carbone per cucinare, hanno ridotto di più della metà anche il tempo utilizzato, in particolare dalle donne, per raccogliere legna, provocano meno fumo nelle case e meno incidenti domestici.

Relativamente alle energie rinnovabili un totale di 6.215 persone hanno aumentato il loro accesso ad energie rinnovabili ed energia pulita. Nello specifico 1.263 studenti e 50 insegnanti stanno beneficiando dell’energia fotovoltaica installata nelle loro rispettive scuole primarie: 5 in totale scelte insieme alle autorità in zone dove nei prossimi anni non è previsto l’arrivo della rete elettrica.

Il progetto ha realizzato nella località di Mariashoni, ai margini del blocco forestale di Kiptunga, un chiosco solare che fornisce energia prodotta da pannelli fotovoltaici ad un centro servizi per la ricarica di cellulari e l’utilizzo di computer con connessione internet, una radio comunitaria e una guest house con sala comunitaria. Un totale di 3900 persone stanno beneficiando dei servizi del chiosco.

186 persone stanno beneficiando per la cottura dei cibi dell’energia pulita prodotta dai 31 impianti di bio-gas installati dal progetto. Essi permettono la riduzione del 80% di utilizzo di legna o carbone presso la famiglia dove l’impianto è stato installato.

Per quel che riguarda le opportunità di occupazione e la generazione di reddito, il progetto ha favorito la costituzione di You Green Energy Enterprises, un’impresa composta di 5 giovani che si occupa di promuovere l’energia fotovoltaica in zone dove non vi è accesso alla rete elettrica e neanche a negozi che vendono i vari kit solari presenti sul mercato. L’impresa monta e vende, anche a rate, piccoli impianti fotovoltaici e kit solari ad uso famigliare: oltre 140 kit sono stati venduti alla data di fine progetto e solo negli ultimi sei mesi dello stesso, periodo nel quale l’Impresa ha iniziato l’attività dopo la formazione dei suoi membri e la realizzazione degli studi di mercato. Chi ha acquistato un kit solare ha ridotto del 100% l’utilizzo di paraffina o batterie non ricaricabili che prima servivano per alimentare le fonti di luce.

Il progetto ha anche accompagnato la costituzione di Molo Green Energy solutions”, una seconda impresa composta da 15 persone che produce e vende stufe migliorate per il risparmio di carbone e legna per la cottura dei cibi. Il modello è stato molto apprezzato a seguito della distribuzione realizzata dal progetto e l’Impresa permette alle persone di acquistare localmente la stufa migliorata che prima era prodotta solo in un’altra contea del Kenya.

Sono stati costituiti 6 vivai, ognuno dà lavoro a 20/30 persone, che nel solo 2019 hanno venduto un totale 114.000 fitocelle.

Infine il progetto ha realizzato e avviato il Centro suini gestito dal Toaret Self Help Group che ospita una media mensile di 340 maiali e nel 2019 ne ha macellati e venduti 360. 30 gruppi di ingrasso sono stati avviati e hanno allevato un totale di 301 maiali negli anni 2018/19: alcuni di questi gruppi, oltre al beneficio del bio-gas più sopra descritto, hanno avuto un buon profitto che è stato utilizzato per migliorare il reddito famigliare. Il suino è animale allevato in stalla e di conseguenza, in piccoli allevamenti come quello proposto e in zone ai margini della foresta come quella dove è stato realizzato il progetto, ha un ridotto impatto ambientale rispetto agli animali allevati allo stato brado ed un importante impatto nutritivo per la popolazione.

Infine presso Ndoinet è stata costruita e avviata una raffineria per il miele, attività tipica delle zone forestali, che coinvolge 190 membri e ha processato e poi venduto nel 2019 più di 200 Kg di miele.

In generale le attività generanti reddito sopra descritte hanno permesso alle persone coinvolte un aumento medio del reddito del 10%.

I risultati sono molto incoraggianti ma Mani Tese non si ferma, il livello di sostenibilità delle varie attività avviate è stato valutato medio dal consulente, inoltre molte più persone e zone forestali stanno chiedendo sostegno, visti il positivo impatto e la metodologia utilizzata che coinvolge da protagonisti tutti gli attori di un determinato contesto, dalle comunità alle autorità locali fino alle singole famiglie.

L’impegno sta continuando con il progetto “AGRICHANGE: PICCOLE IMPRESE, GRANDI OPPORTUNITÀ. Sviluppo di filiere agro-alimentari nel bacino del Fiume Molo” in particolare sulle filiere del suino e del miele e vuole proseguire anche con nuovi progetti che si stanno elaborando anche per la componente ambientale e quella relativa alle energie rinnovabili.

EMERGENZA CIBO IN MOZAMBICO, RAGGIUNTA ANCHE L’ISOLA DI MARIA

La distribuzione di cibo nel distretto di Chinde è anche l’occasione per sensibilizzare la popolazione sulle misure da adottare per la prevenzione del Covid-19.

Come documentato a inizio maggio, anche col Coronavirus è continuata la distribuzione di cibo nel distretto di Chinde (Mozambico) dove siamo attivi con il progetto “Food assistance for assets – EMERGENZA CIBO DOPO IL CICLONE IDAI” finanziato dal World Food Programme.

Il progetto ha come obiettivo principale la fornitura di alimenti di prima necessità a 4.000 famiglie del distretto di Chinde. Ora, la distribuzione del cibo diventa anche l’occasione per sensibilizzare la popolazione sulle misure da adottare per la prevenzione del Covid-19 che, purtroppo, è sempre più diffuso nel Paese.

È notizia degli ultimi giorni, in particolare, la conferma dei primi casi di Covid-19 nella Provincia della Zambezia, una delle aree più povere del Paese dove operiamo storicamente.

Mani Tese, tuttavia, non si ferma e, fra molte difficoltà legate anche alle piogge che hanno colpito recentemente la zona, ha raggiunto anche l’isola di Maria dove vivono 80 famiglie beneficiarie del progetto. Nelle foto potete vedere alcuni momenti dell’incontro con i beneficiari che hanno ormai l’abitudine di indossare la mascherina o coprirsi il viso con un fazzoletto.

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Come il virus può rivoluzionare il mercato e cambiare in meglio le nostre vite

Una riflessione sulle prospettive economiche, sociali e ambientali nel post quarantena.

di Giosuè De Salvo, Responsabile Advocacy, Educazione e Campagne di Mani Tese.

Se l’“assembramento” è il male assoluto e il “distanziamento fisico” è il principio precauzionale per eccellenza, allora c’è speranza.

L’economia di mercato, nella sua versione più avanzata, o selvaggia, a seconda dei punti di vista, si fonda sul concetto di assembramento. Assembramento di merci in un unico luogo fisico, il supermercato o il centro commerciale. Assembramento di strutture ricettive su tratti limitati di litorale o aree circoscritte di montagna e riserve naturali. Assembramento di libri, film e musica su di un’unica piattaforma a pagamento. Perché così facendo si abbattono i costi, si massimizzano gli utili, si concentrano le quote di mercato e si apprezzano i listini di borsa.

Il distanziamento fisico è per converso – secondo i canoni del pensiero economico divenuto tradizionale (eviterei, dopo quarant’anni, di utilizzare l’aggettivo neoliberista) – sinonimo di inefficienza e dispersione di valore. Decentralizzare i punti vendita di cibo o di vestiti, magari accorciando la distanza tra chi li produce e chi li consuma. Attrezzare le spiagge e le aree boschive demaniali con strutture e servizi di qualità per tutte le famiglie che vogliono goderne. Incentivare e sovvenzionare la presenza di librerie, sale cinematografiche indipendenti e spazi dedicati alla musica nei centri e nelle periferie delle città, così come nei piccoli borghi, in modo da rendere la cultura una presenza vitale per coloro che vi abitano. Tutto ciò sarebbe un abominio per il mercato ma una manna per la salute pubblica. Sì, anche la cultura diffusa e accessibile sui territori. Perché se è vero che le piattaforme online consentono di ridurre il numero di persone fuori casa, è altrettanto vero che tendono ad isolarle, ad individualizzarne l’esperienza culturale e, con il tempo, a corrodere il senso di comunità e quello di corresponsabilità su cui si poggiano le chance di successo di tutte le misure di prevenzione e contenimento delle epidemie.

C’è quindi la speranza che, non tanto la ripresa, che purtroppo sarà a dir poco selvaggia, della serie si salvi chi può, ma il futuro prossimo dei consumi, e quindi indirettamente delle produzioni, sarà per forza di cose rifondato sul principio del distanziamento e quindi su di una serie di imperativi nominalisticamente antitetici ma sostanzialmente correlati l’uno all’altro: decentrare, rilocalizzare, condividere e partecipare.

L’economia di mercato potrebbe così trasformarsi in un’economia di relazione. Tra chi coltiva la terra e chi si alimenta dei suoi frutti. Tra chi crea moda e chi attraverso di essa esprime la propria personalità. Tra chi genera arte e chi ne gode per arricchirsi d’animo. Tra il genere umano e la natura, in modo da ristabilire un equilibrio di convivenza, di sicuro più importante per il primo che per la seconda.

La chiamo speranza ma forse è qualcosa in più. Di sicuro, grazie al virus, è paradossale dirlo, è una prospettiva economica, sociale e ambientale con cui le istituzioni mondiali dovranno fare i conti. E con una bella spinta da parte della società civile, dei movimenti sociali e della buona politica, non si sa mai che sia la volta buona.

GUATEMALA, PREVENZIONE E CIBO CONTRO IL CORONAVIRUS

Nello Stato dell’America Centrale, purtroppo colpito dal Coronavirus, Mani Tese fa opera di prevenzione e porta sementi per l’agricoltura.

In Guatemala, Mani Tese è attiva nel dipartimento di Chiquimula per combattere la fame, aggravata da lunghe siccità, e per migliorare le condizioni igienico-sanitarie delle comunità.

Purtroppo, negli ultimi mesi, la situazione già critica nel Paese è peggiorata per l’arrivo del Coronavirus, che ha portato contagi e morti, ma soprattutto più fame e povertà a causa del blocco delle attività lavorative.

Il progetto “Lotta alla denutrizione nel dipartimento di Chiquimula” non si è però fermato, al contrario sono stati maggiori gli sforzi per supportare le famiglie della zona.

Innanzitutto sono stati consegnati ai leader delle comunità di intervento dei manuali per educare alla prevenzione e cura del Covid-19. I manuali spiegano infatti cos’è un virus, cos’è nello specifico il Coronavirus, quali sintomi provoca, quali sono le persone maggiormente esposte al rischio di contagio, come avviene il contagio, come fare prevenzione nella comunità e quali sono le piante naturali per alleviare tosse e influenza.

In seguito, si è pensato anche alla produzione agricola e quindi al sostentamento alimentare della comunità.

Ai beneficiari della porzione di terreno agroecologico facenti parte delle comunità di intervento Dos Quebradas e Lantiquin, è stato infatti consegnato un pacchetto per migliorare la produzione. Il pacchetto conteneva semi e piccole piante, nel dettaglio:

  • alberi da frutta: limone persiano, mandarino, arancia washington, mango de brea, avocado, mamey, gambuta, nance, mango tommy, jocote e anacardi;
  • alberi: mogano, cipresso, pino, aripin, cedro e legno bianco, semi di peperoncino, peperoncino jalapeño, cetriolo e pomodoro, pilones de loroco;
  • piante medicinali: ruta, apasote, salvia, altamis e origano, semi di mais e fagioli creoli, estacones de madrea cacao e sacchi di vermicompost.

 

Il pacchetto è stato preparato congiuntamente ai beneficiari di ogni appezzamento in base alle loro esperienze, preferenze e all’adattabilità delle piante.

Il processo di semina degli alberi e delle piante medicinali è stato realizzato con successo secondo il modello precedentemente stabilito fra CUNORI, team tecnico e beneficiari.

I beneficiari hanno collaborato nel processo di preparazione del terreno piantando gli alberi distanziati in modo che prendano la luce necessaria per avere una migliore crescita e sviluppo, creando delle corsie per evitare l’erosione del suolo e facendo il diserbo, ovvero rimuovendo le erbacce indesiderate. Adesso si aspettano le prime piogge.

Alle famiglie beneficiarie, sono stati consegnati poi anche dei silos realizzati con fogli di zinco liscio con una capacità di 12 quintali che serviranno a effettuare lo stoccaggio dei cereali.

Qui di seguito alcune foto della consegna dei manuali sul Covid-19 e dei pacchetti per la produzione.

La consegna dei manuali sul Covid-19

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La consegna di semi e piccole piante per l’agricoltura

Il processo di preparazione del terreno e della semina

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La consegna di beni di prima necessità
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La consegna dei silos

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6. ATIJA E LE FORMAZIONI AGROECOLOGICHE

La vita di Atija è cambiata molto grazie alle formazioni agroecologiche.

Siamo tornati nel distretto di Namacurra per incontrare di nuovo Atija, beneficiaria del progetto “Quelimane agricola” cofinanziato dall’Agenzia Italiana per la Cooperazione allo Sviluppo.

Avevamo incontrato Atija già circa un anno fa e a lei era dedicata la prima puntata del nostro videoblog “Le storie di Quelimane agricola”.

Atija, inizialmente, non aveva le conoscenze per coltivare al meglio i propri campi, ma in seguito alle formazioni agroecologiche offerte dal progetto “Quelimane agricola” ha appreso nuove tecniche come l’utilizzo degli scarti per fertilizzare il terreno.

Inoltre, è stato costruito un pozzo e ora la comunità in cui vive Atija può utilizzare l’acqua per cucinare, lavarsi, lavare i vestiti, e non è più necessario percorrere a piedi lunghe distanze per fare rifornimento.

Sono piccole ma importanti conquiste.

Guarda il video e ascolta il suo racconto:

 

CONTINUA A SEGUIRE IL VIDEOBLOG “LE STORIE DI QUELIMANE AGRICOLA”

BURKINA FASO, CONSEGNATO MATERIALE SANITARIO PER LA PREVENZIONE DEL COVID-19

Anche con il Coronavirus l’impegno di Mani Tese in Burkina Faso non si ferma: consegnati kit igienizzanti per 15 Centri di Salute in 3 regioni del Paese.

In Burkina Faso, dove Mani Tese è attiva da quasi 30 anni con progetti di sviluppo sostenibile per le comunità locali, il Coronavirus si è aggiunto e ha esacerbato una crisi già in atto a causa della desertificazione crescente, della povertà e dell’avanzamento del terrorismo.

Ovviamente, anche il numero di ospedali è scarso nel Paese e per questo la popolazione, soprattutto quella rurale, si rivolge principalmente ai cosiddetti “Centri di Salute” ovvero piccoli ambulatori di villaggio dove ci si reca per piccole ferite, malattie lievi o anche per partorire.

Già in contatto con i Centri di Salute di villaggio di tre regioni grazie ad un progetto in corso sui diritti delle donne e dei bambini e la promozione dei servizi sanitari e di stato civile, Mani Tese ha raccolto la richiesta di rendere questi luoghi più attrezzati per prevenire la diffusione del virus.

Ha quindi acquistato kit igienizzanti (lavamani, secchi, sapone, gel idroalcolico, disinfettante, candeggina, stracci, guanti, mascherine, scope) per 15 Centri di Salute di villaggio di 3 regioni del Paese africano (Plateau Central, Centre Sud e Centre) e la prima consegna è avvenuta presso il governatorato di Ziniaré (Plateau Central) qualche settimana fa.

I kit sono stati portati su due enormi pick-up straripanti di secchi e strutture di ferro, con scope infilate in ogni angolo disponibile e corde a tenere insieme il tutto (ovviamente dopo aver caricato i suddetti pick-up, sotto il sole a 40 gradi, vanificando ogni tentativo di arrivare puliti e ordinati alla cerimonia… ma in fin dei conti, cosa importa? È molto più importante far arrivare il necessario!).

A Ziniaré attendevano la governatrice e tutto il comitato di risposta all’emergenza Covid-19 della Regione, nonché alcune organizzazioni beneficiarie del progetto, venute a sostenerci in questo momento particolare. La cerimonia è stata semplice ma molto significativa: la governatrice si è quasi commossa ringraziandoci del sostegno che stiamo dando, nonostante nel nostro stesso Paese d’origine, l’Italia, la situazione sia drammatica.

Abbiamo avuto anche una bella sorpresa: i gruppi di donne che partecipano al progetto, a loro spese, avevano invitato un cantante che si è esibito in una performance di canto e ballo, a oggetto “gestes barrière”: il tema erano tutti quei gesti di prevenzione che è buona norma adottare in questa situazione (portare la mascherina, lavarsi le mani, starnutire nell’incavo del gomito, ecc). Le donne hanno dovuto sostenere anche la spesa del generatore, perché ovviamente non c’era corrente!

Siamo tornati da questo viaggio positivi e carichi, contenti del gesto compiuto e consapevoli che tanti, per fortuna, intorno a noi, si stanno muovendo nella stessa direzione e che in questo modo ce la potremo fare. Perché mai come in questa occasione, è il caso di ribadire il motto burkinabé per eccellenza: on est ensemble (stiamo insieme).

Questo virus ci sta insegnando che, anche se siamo tutti vittime, comunque abbiamo la possibilità di guardare al di là del nostro orticello: in Italia abbiamo ricevuto il sostegno da tanti Paesi nel mondo. Qui in Burkina Faso, dove Mani Tese da anni è ospite accolto e integrato, era giusto fare la nostra parte: ci siamo quindi rimboccati le maniche per dare il nostro contributo.

Questa azione rientra tra le attività del progetto Promozione sociale e dei diritti delle donne e dei bambini per il miglioramento dei servizi sanitari e di stato civile, cofinanziato dall’Unione Europea e che stiamo realizzando in consorzio con la Fondazione ACRA (capofila) e le ONG AsmadeComunità di Sant’Egidio e la federazione delle donne rurali del Burkina Faso (Fenafer-B).

 

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