L’economia inizia dal futuro

Di fronte alla crisi epocale prodotta dall’attuale modello, serve un nuovo pensiero economico fondato su obiettivi di lungo termine e una capacità di “intelligenza collettiva” per costruire uno “sviluppo economico sostenibile e inclusivo”.

di Giosuè De Salvo, Responsabile Advocacy, Educazione e Campagne di Mani Tese

DI FRONTE ALLA CRISI EPOCALE PRODOTTA DALL’ATTUALE MODELLO, SERVE UN NUOVO PENSIERO ECONOMICO FONDATO SU OBIETTIVI DI LUNGO TERMINE E UNA CAPACITÀ DI “INTELLIGENZA COLLETTIVA” PER COSTRUIRE UNO “SVILUPPO ECONOMICO SOSTENIBILE E INCLUSIVO”.

Negli ultimi settant’anni il modello economico di matrice capitalista ha consentito a centinaia di milioni di persone di elevare le proprie condizioni materiali di vita. Tuttavia, questi progressi sono stati ottenuti imponendo un prezzo altissimo sia ai sistemi naturali che a quelli sociali.

Da una parte, inquinamento di aria, terra e acqua, cambiamenti climatici e perdita di biodiversità; dall’altra, livelli di diseguaglianza estrema e delegittimazione delle istituzioni democratiche che, insieme alle storture del sistema finanziario, contribuiscono a dare forza a leader e movimenti populisti che infiammano gran parte dei paesi dell’Occidente, e non solo. È evidente che qualcosa non funzioni e che l’economia deve essere “rivista e corretta” alla luce delle realtà e alle sfide del XXI secolo.

Uno spazio equo e sicuro per l’umanità

Per fare ciò, Kate Raworth, ricercatrice dell’Environmental Change Institute dell’università di Oxford, propone al mondo di ribaltarne l’approccio, facendo ripartire l’economia del futuro, non dalle sue astrazioni, ma dagli obiettivi a lungo termine che l’umanità si è data, per poi chiedersi quale tipo di pensiero economico, e conseguentemente di azione, possono darci più possibilità di raggiungerli.

Questi obiettivi sono oggi chiaramente espressi dai 17 Obiettivi di Sviluppo sostenibile delle Nazioni Unite che, ai fini del nostro ragionamento, posso essere raggruppati e rappresentati attraverso una torta (vedi figura 1).

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Figura 1- SDGs Wedding Cake presentata per la prima volta all’EAT Food Forum di Stoccolma il 13 giugno 2016

Si chiama “SDG Wedding Cake”  ed è fatta di tre strati: il primo raggruppa gli obiettivi relativi alla tutela della biosfera, il secondo quelli relativi al funzionamento delle società umane e il terzo indica lo spazio di movimento per gli attori economici, siano essi produttori, consumatori o pubblici regolatori. Uno spazio di azione che la Raworth, chiama “spazio equo e sicuro per l’umanità” (vedi figura 2).

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Figura 2- Dal libro “L’economia della ciambella” di Kate Raworth, 2017, Edizione Ambiente.

Mantenendo la metafora pasticciera, siamo di fronte a una Ciambella che ha come cerchio più esterno i cosiddetti “planet boundaries” (limiti del pianeta) e come cerchio più interno i diritti umani che determinano la sostanza delle nostre democrazie. Al centro lo “spazio equo e sicuro” in cui i popoli della terra possono darsi uno “sviluppo economico sostenibile e inclusivo”.

Una ciambella che, arricchendola di dati, ci spiega perché uno degli assunti più condivisi, mentre si discuteva l’Agenda 2030, era che il “business as usual is not an option anymore” (il business come l’abbiamo sempre fatto non è più un’opzione percorribile). Se si considerano il superamento già avvenuto di 4 su 9 dei limiti del pianeta (vedi figura 3) e la percentuale di abitanti della terra che ancora non godono dei diritti individuali e sociali, così come sanciti dalle principali convenzioni internazionali, diventa palese che il modo in cui abbiamo gestito, e continuiamo a gestire, l’economia e il modo in cui abbiamo fatto, e continuiamo a fare impresa, sono incompatibili con l’ambizione di collocare l’umanità all’interno di uno spazio equo e sicuro e quindi di centrare gli obiettivi di sviluppo sostenibile dell’Agenda 2030.

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Figura 3- Dal libro “L’economia della ciambella” di Kate Raworth, 2017, Edizione Ambiente.

Cinque fattori per il cambiamento

Sono cinque i fattori chiave attorno ai quali può ruotare il cambiamento: popolazione, distribuzione, aspirazione, tecnologia e governance. Il motivo per cui il tasso di crescita della popolazione mondiale è importante, è abbastanza ovvio: più individui abitano il pianeta, più risorse servono per soddisfare i bisogni e i diritti di tutti. Da qui discende la necessità di stabilizzare la popolazione umana. Come? Aumentando gli investimenti pubblici per la salute e l’assistenza dei neonati e dei bambini, per l’istruzione femminile, per la cura e la libertà di scelta in ambito riproduttivo e, in generale, per riequilibrare i poteri tra i generi in modo che le donne acquisiscano un ruolo centrale nella pianificazione famigliare.

Se la popolazione è rilevante, la distribuzione lo è altrettanto perché la concentrazione di ricchezza e opportunità in capo a pochi spinge il genere umano a valicare entrambi i confini della “Ciambella”. Pensate al 10 % della popolazione più benestante che emette il 45% delle emissioni di gas serra, mentre il 50 % più in difficoltà contribuisce solo per il 13%. O al miliardo di persone che sono malnutrite, per cui basterebbe il 3% delle scorte alimentari mondiali che però si perde nelle pieghe di un sistema agro-alimentare che spreca, dalla fase di raccolto e stoccaggio fino al consumo a tavola, oltre un terzo del cibo prodotto.

Un terzo elemento determinante è l’aspirazione: tutto ciò che le persone ritengono dia qualità alle loro vite e che oggi si misura in particolare in termini di possibilità di consumo e luoghi che abitiamo. Dal 2009, per la prima volta nella storia, oltre metà dell’umanità vive in metropoli e città, e tutte le proiezioni indicano che entro il 2050 il 70% di noi vivrà dentro confini urbani. In città, più che altrove, “veniamo persuasi a spendere soldi che non abbiamo per comprare cose di cui non abbiamo bisogno per suscitare impressioni che non durano in persone che non ci interessano”.

L’inurbamento, però, oltre ad alimentare il consumismo offre l’opportunità di soddisfare i bisogni primari degli individui e delle famiglie, quali alloggi, trasporti, cibo ed energia, in modi molto più efficienti degli attuali. Sul 60% della superficie, che si stima diventerà urbana entro il 2030, si deve infatti ancora costruire e quindi la scelta delle tecnologie utilizzabili (quarto fattore chiave) avrà implicazioni ecologiche e sociali di grande portata: network di impianti a energia solare sui tetti, edifici auto-riscaldanti o auto-rinfrescanti, trasporti pubblici a basso impatto e prezzo conveniente, agricoltura urbana e peri urbana che sequestra carbonio, aumenta la qualità dei cibi e offre nuovi posti di lavoro.

Da ultima è la governance a giocare un ruolo decisivo, dal livello rurale a quello cittadino, dal livello statale a quello regionale e globale. L’innovazione delle forme di governance pubblica e privata che consentano di mediare le relazioni tra genere umano e natura ma anche le differenti aspettative tra Paesi, aziende e comunità, è il fattore che può innescare gli altri quattro, guidandoli verso la transizione ormai non rinviabile.

Siamo tutti coinvolti

L’Economia della Ciambella delinea senza dubbio una visione ottimistica del futuro: un’economia globale che cerca un equilibrio prospero grazie alla sua concezione distributiva e rigenerativa. Tale visione può sembrare ingenua, considerati i drammi che stiamo vivendo, fatti di conflitti violenti, migrazioni forzate e xenofobia dilagante. La possibilità di un collasso sembra assai più concreta.

Eppure, c’è un numero sufficiente di persone che sognano un’alternativa possibile e sono impegnate con tutte le loro forze per realizzarla. La nostra è la prima generazione che ha compreso appieno il danno che abbiamo arrecato al nostro pianeta, la nostra casa comune, e probabilmente è anche l’ultima che ha la possibilità di fare qualcosa. E sappiamo benissimo, come comunità internazionale, che abbiamo la tecnologia, la conoscenza e i mezzi finanziari per porre fine alla povertà estrema in tutte le sue forme.

Come ci ha insegnato Donella Meadows, pioniera della sostenibilità e autrice del libro culto “Pensare per sistemi”, non abbiamo più bisogno di individui smart ma di intelligenza collettiva che eserciti la capacità di un sistema complesso di correggere i propri errori e far evolvere la propria struttura. Si chiama auto-organizzazione ed è una leva formidabile per scatenare un pensiero rivoluzionario.

Se i sistemi economici, che sono complessi, si evolvono, ogni esperimento contribuisce a orientare un nuovo futuro e rende tutti noi protagonisti di questa rivoluzione: quando apriamo un conto corrente in una banca etica e investiamo in nostri risparmi in base al valore sociale e ambientale prima che finanziario, quando dentro il mondo dei GAS ci assumiamo parte del rischio di un piccolo agricoltore e sviluppiamo nuove piattaforme di distribuzione organizzata, quando da imprenditori o manager ci preoccupiamo realmente dei nostri impatti sui lavoratori e le lavoratrici delle nostre catene di fornitura, quando partecipiamo alle campagne dei movimenti politici e di opinione che condividono la nostra visione. Quando facciamo tutto ciò, “siamo il cambiamento che vogliamo vedere nel mondo”.

Articolo pubblicato sul numero di Dicembre 2019 del Giornale di Mani Tese.

Chi ha paura dell’economia?

Il sistema scolastico “ignora” l’educazione economica, eppure si tratta di un tema centrale per affermare diritti e scelte etiche. Con il portale educativo “Jacky può”, Mani Tese propone, soprattutto ai più giovani, un modo per imparare l’economia scardinando i luoghi comuni.

IL SISTEMA SCOLASTICO “IGNORA” L’EDUCAZIONE ECONOMICA, EPPURE SI TRATTA DI UN TEMA CENTRALE PER AFFERMARE DIRITTI E SCELTE ETICHE.CON IL PORTALE EDUCATIVO “JACKY PUÒ”, MANI TESE PROPONE, SOPRATTUTTO AI PIÙ GIOVANI, UN MODO PER IMPARARE L’ECONOMIA SCARDINANDO I LUOGHI COMUNI.

Cosa sai di economia? Sembra una domanda innocua, invece provoca reazioni interessanti nei ragazzi. C’è chi fa spallucce, chi dice “soldi”, chi prova a lanciarsi in improbabili definizioni. Molti rispondono “niente”, ma non è vero. Tutti ne abbiamo esperienza, ne usiamo i principi base per vivere, ne subiamo gli effetti negativi nei momenti di crisi o di instabilità. Eppure, nonostante l’economia sia al centro della vita quotidiana di ciascuno di noi, il sistema scolastico non l’ha mai recepita come un insegnamento organico. Per questo Mani Tese ha lanciato un portale educativo dedicato ai ragazzi “per diventare cittadini e cittadine senza paura dell’economia”. Si chiama “Jacky può” e si rivolge alle ragazze e ai ragazzi tra i 14 e i 99 anni, con un percorso interattivo, divertente e che fa riflettere, fruibile da smartphone e tablet. Per diventare cittadini, senza paura dell’economia.

Il dovere di spendere

D’altronde, come cittadini siamo costantemente soggetti al condizionamento che i meccanismi economici e finanziari esercitano nella vita reale, tanto che spendere è diventato una sorta di dovere di cittadinanza a cui siamo costantemente chiamati, se vogliamo che l’economia continui a “girare” e che venga quindi mantenuto il rapporto tra crescita, lavoro e benessere. Ciononostante la scuola secondaria non sembra ritenere l’economia tra i fondamentali dell’insegnamento. Nei licei italiani se ne trova pochissima, mentre negli istituti tecnici la si affronta senza dare conto delle sue implicazioni politiche e sociali. I risultati? Gli studenti nella fascia 14-19 anni sono a rischio di analfabetismo economico, e l’apprendimento delle conoscenze di base avviene (se avviene) fuori dalla scuola, nei contesti educativi informali. Secondo l’ultima indagine PISA sull’alfabetizzazione finanziaria, in Italia il 20% degli studenti non riesce a raggiungere il livello minimo di riferimento per le competenze finanziarie, nonostante oltre il 35% dei quindicenni sia titolare di un conto corrente. La questione non va affrontata, come molti credono, sul piano esclusivo delle conoscenze, ma su quello delle competenze necessarie alla formazione di cittadini informati e consapevoli. Non a caso il Ministero dell’Istruzione ha inserito la cittadinanza economica tra le aree “finalizzate all’innalzamento delle competenze trasversali di cittadinanza globale”. Una buona definizione di cittadinanza economica è contenuta in un disegno di legge presentato in Senato il 23 gennaio 2018 che la definisce come: “Un insieme di capacità e competenze che permetta al cittadino di divenire agente economico rispettoso delle regole del vivere civile e consapevole, grazie allo sviluppo dei processi cognitivi e degli aspetti emotivi e psicologici che influiscono sulle scelte economiche, al fine di contribuire al benessere economico individuale e al benessere sociale”.

Cittadinanza competente

Un’educazione trasversale, quindi, che non è fatta solo di numeri e grafici ma anche di una seria riflessione su ciò che influisce sulle scelte economiche e sui loro risvolti politici e sociali. Una competenza di cittadinanza decisiva, che però a scuola non si impara, se non in ambito universitario. Il problema si fa ancora più serio quando ci accorgiamo che sia le università che le fonti di apprendimento non scolastiche offrono in maniera pressoché univoca lo stesso punto di vista, contribuendo attraverso l’uso del linguaggio economico a disegnare una cornice mentale che modella la società e a convincerci che può esistere un solo tipo di economia, quella che funziona con le regole attuali. Le parole chiave dell’economia neoliberista condizionano le politiche, invadono i mezzi d’informazione, lanciano allarmi e danno consigli per gli acquisti. Il bersaglio di questo bombardamento siamo noi, o meglio la rappresentazione che i modelli economici danno dell’essere umano: individualista, calcolatore, orientato alla massimizzazione del profitto.

A lezione da Jacky Può

Siamo davvero così? Non è detto, ma il problema è che più ci viene ripetuto che siamo fatti come questo modello, più tendiamo ad assomigliargli. Come scrive Kate Raworth, economista di fama mondiale: “L’uomo economico razionale è il protagonista di ogni libro di testo di economia mainstream; condiziona le politiche decisionali di tutto il mondo; modella il modo in cui parliamo di noi; e, senza fare rumore, ci dice come dobbiamo comportarci”.  Secondo la Raworth, viviamo una situazione in cui come cittadini siamo condizionati da meccanismi economici che conosciamo in modo superficiale e che rispondono a un unico disegno, ripetuto e insegnato in modo pressoché identico nelle facoltà di economia di tutto il mondo, alla cui base c’è l’immagine dell’homo oeconomicus, definito come “razionale”, nel senso che persegue come obiettivo la massimizzazione del proprio benessere (definita da una funzione matematica detta funzione di utilità). Ma è ancora razionale essere individualisti nel 2020, nell’era dei cambiamenti climatici, della crescita esponenziale delle città, della sfida di nutrire una popolazione che raggiungerà i 10 miliardi di persone nel 2050?  Il percorso didattico Jacky Puòdiventare cittadini senza paura dell’economia prova a rispondere a questa domanda, proponendo una chiave di lettura per scardinare gli assunti del business as usual come modello che influenza il nostro modo di essere cittadini e di immaginare un futuro prospero e sostenibile per il pianeta. L’obiettivo generale del percorso è fornire al sistema scolastico strumenti e metodi per educare a una cittadinanza economica, ricostruendo una nuova idea di homo oeconomicus contemporaneo che mette al centro il benessere, le relazioni, l’equilibrio dinamico con gli altri esseri umani e con l’ecosistema. Altrimenti, a vincere, sarà la paura. Di quello che non capiamo, di ciò che è diverso da noi, delle cose troppo difficili. E invece di giovani capaci di futuro ci ritroveremo sempre più spaventati e frustrati, incapaci di formulare un’opinione superiore ai 160 caratteri e quindi più probabilmente vittime di decisioni prese da altri. Se sommiamo incapacità di comprensione dei problemi, superficialità e paura, il risultato può essere uno solo: meno democrazia.

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Articolo pubblicato sul numero di Dicembre 2019 del Giornale di Mani Tese.

Amico pubblico

Riscoprire l’intervento dello Stato a fianco della libera iniziativa privata significa rimettere al centro “la politica” e “le politiche” come strumenti fondamentali per le scelte di produzione e consumo.

di GIULIO MARCON, Portavoce Campagna Sbilanciamoci!

Dopo trent’anni di anatemi contro lo Stato, l’intervento, la spesa pubblica e il ruolo del pubblico torna a essere scoperto e posto al centro dell’azione economica. Fino a qualche tempo fa l’espressione “economia pubblica” non avrebbe avuto cittadinanza o sarebbe stata considerata un’idea stravagante. L’economia veniva associata quasi esclusivamente alla dimensione privata e consegnata al mercato come inevitabile destino. L’intervento pubblico doveva tenersi distante dall’economia e dal mercato, e lo Stato – per usare un’espressione dell’era reaganiana – veniva considerato come una sorta di essere mostruoso che dove- va essere “affamato” (starvingthebeast come dicevano i conservatori di allora) attraverso una serie di misure chiave: privatizzazioni, deregulation dei mercati, riduzione delle tasse e della spesa pubblica (che però sarebbe fatalmente aumentata, sotto forma di debito pubblico, a causa del taglio delle tasse).

Ipocrisia e privilegio

Dietro queste posizioni c’è stata e c’è ancora molta ipocrisia: la scaltra rimozione dei neoliberisti, che sanno bene come l’intervento pubblico sia necessario innanzitutto per coprire i fallimenti del mercato (come è avvenuto in questi anni per il salvataggio delle banche private con soldi pubblici); in secondo luogo, agli operatori privati sono necessari gli investimenti pubblici (Mariana Mazzucato ne Lo Stato innovatore ha ricordato come nell’i-phone una trentina delle funzioni utilizzate siano frutto di investimenti pubblici: internet, gps, siri, schermo a cristalli liquidi, ecc); infine, l’intervento pubblico è fondamentale per arginare le conseguenze negative di questo modello di sviluppo, a cominciare dalla povertà e dall’inquinamento. Le ricette economiche usate a partire dagli anni ’80 erano il frutto di assunti ideologici assai discutibili (come la tesi del trickledown: la ricchezza creata di cui beneficiano tutti) ed erano espressione di un modello neoliberista che ha avuto come conseguenze lo spostamento della ricchezza a favore dei profitti, delle rendite e delle classi di reddito più alte, la crescita delle diseguaglianze, il depauperamento di beni comuni come l’ambiente e le fonti energetiche.

Se quelle politiche sono state la panacea per i privilegiati, i rentiers, i ricchi e i super ricchi, non hanno funzionato per la gran parte della popolazione e per il pianeta, colpito duramente dai cambiamenti climatici e da uno sfruttamento irresponsabile delle sue risorse anche e soprattutto a causa di quel modello economico. Di fronte al fallimento del modello neoliberista e di una globalizzazione economica e finanziaria che spesso ha peggiorato le condizioni materiali di vita di gran parte delle popolazioni dei paesi più “sviluppati” (da qui la crescita di nazionalismi e populismi) e non ha sollevato dalla povertà la parte più derelitta del pianeta, con l’ovvia eccezione della Cina, ci si è interrogati sulla necessità di affidarsi nuovamente alle virtù del pubblico. Tutti i 17 SDGs (Sustainable Development Goals) delle Nazioni Unite hanno necessariamen- te bisogno di un’attiva manopubblica: nell’orientare produzioni e consumi, nel regolamentare il mercato, nel fare investi- menti (che i privati non fanno) nell’interesse collettivo, nel redistribuire la ricchezza, nel fronteggiare la povertà, nel garantire i servizi sociali, sanitari, educativi di base.

Un futuro di beni comuni

Il futuro è quindi nella riscoperta dell’intervento pubblico, dell’economia pubblica e dei beni comuni da affiancare al mercato e alla libera iniziativa privata dei cittadini che, come dice anche la nostra Costituzione, non deve essere in contrasto con l’utilità sociale e con l’interesse generale. Riscoprire l’economia pubblica significa rimettere al centro la politica, le politiche come strumenti fondamentali per le scelte delle produzioni e dei consumi che, fino a oggi, il modello economico neoliberista ha affidato al mercato, la cui efficienza – come ha dimostrato la crisi 2007-08 – è una leggenda.

Molti sono gli ambiti fondamentali in cui l’economia pubblica può avere un ruolo strategico per costruire un mondo e un’Italia capaci di futuro. Primo: abbiamo già ricordato che gli investimenti pubblici (soprattutto quelli in ricerca e innovazione) sono strategici per costruire un’economia del futuro fondata sulla sostenibilità e il benessere sociale. Il ritardo nella lotta ai cambiamenti climatici è anche dovuto all’insufficienza di questa strategia di indirizzo e regolazione dei mercati da parte dei governi. L’intervento pubblico è necessario per innovare produzioni e consumi, attraverso una politica industriale e fiscale incisiva. Secondo: senza intervento pubblico non ci sono redistribuzione della ricchezza e riduzione delle diseguaglianze. La speranza che la crescita della ricchezza avrebbe portato benefici per tutti (il trickle down, lo sgocciolamento verso il basso) si è rivelata illusoria: la crescita della ricchezza globale è andata a beneficio di ricchi, super ricchi e delle diseguaglianze economiche: senza la mano pubblica non c’è redistribuzione. Terzo: deve un po’ ritornare al passato e riprendere il percorso iniziato nel cosiddetto trentennio glorioso (1945-1975), quando si avviò in gran parte d’Europa un deciso processo di demercificazione di beni fondamentali per le persone (che oggi chiamiamo diritti): i servizi per la salute e l’educazione, l’assicurazione per la vecchiaia, gli infortuni, la malattia. Quelli che fino ad allora erano merci, prodotte e messe a disposizione dal mercato (assicurazioni e strutture private, come scuole e cliniche), furono poi erogate dallo Stato come servizi e interventi in risposta a di- ritti di cui i cittadini erano titolari. Riprendere questo percorso, oggi e in futuro, significa contrastare il ritorno del mercato negli ultimi 30 anni nel welfare e nei servizi pubblici e declinare in modo nuovo l’interesse generale della collettività, salvaguardando i beni comuni, che sono ambito ben più ampio e generale di ciò che giuridicamente può essere definito, come proprietà pubblica.

Fondamentale però, per un’economia pubblica del futuro, è il sostrato ideale: la riscoperta e un nuovo radicamento di valori comunitari, sociali, etici che si contrappongono inevitabilmente allo sfrenato individualismo economico, al cinismo opportunista, all’egoismo sociale che sono la base del modello economico degli ultimi quarant’anni. Per un’economia pubblica del futuro, serve una diversa idea di benessere personale e sociale: fondato non sull’accumulazione di merci che non servono e sull’inseguimento di consumi che creano dipendenza e alienazione, ma – soddisfatte le esigenze materiali – sulla realizzazione della propria personalità e della felicità comune.

Articolo pubblicato sul numero di Dicembre 2019 del Giornale di Mani Tese.

Burkina Faso: agroecologia, un’economia di speranza

Mentre il Paese attraversa una grave crisi umanitaria, Mani Tese opera con due progetti entrambi improntati alla costruzione di filiere corte e produzioni locali per garantire uno sviluppo agroalimentare di lungo periodo.

MENTRE IL PAESE ATTRAVERSA UNA GRAVE CRISI UMANITARIA, MANI TESE OPERA CON DUE PROGETTI ENTRAMBI IMPRONTATI ALLA COSTRUZIONE DI FILIERE CORTE E PRODUZIONI LOCALI PER GARANTIRE UNO SVILUPPO AGROALIMENTARE DI LUNGO PERIODO.

Il Burkina Faso è uno dei Paesi più poveri del mondo, la sua economia si basa principalmente sull’agricoltura che dà lavoro al 90% della popolazione, in prevalenza rurale. In questo momento il Burkina Faso sta vivendo una grave crisi dovuta all’espandersi di attacchi terroristici condotti da gruppi legati ad al-Qaeda e allo Stato Islamico che stanno cercando di consolidare le loro posizioni nelle zone nord ed est del Paese. L’UNHCR ritiene che dall’inizio della crisi mezzo milione di persone siano state costrette a la- sciare le proprie abitazioni e attualmente è in corso una crisi umanitaria che colpisce 1,5 milioni di abitanti. Mani Tese crede che al doveroso intervento di emergenza per assistere le persone direttamente colpite dalla crisi debba affiancarsi la collaborazione con le comunità locali, ove possibile, per portare avanti programmi di lungo periodo come è il caso dei progetti di promozione e sviluppo dell’agroecologia.

Produciamo Burkinabé, consumiamo Burkinabé

Nella “terra degli uomini integri” (è questo il significato di Burkina Faso in lingua locale), l’agroecologia è stata introdotta fin dai primi anni ‘80 grazie all’attività di Pierre Rabhi, agricoltore, scrittore e pensatore francese di origine algerina, considerato uno dei pionieri dell’agroecologia a livello mondiale, attivo nel Paese africano tra il 1985 e il 1988. Proprio in quegli anni il Burkina Faso stava vivendo la cosiddetta “rivoluzione sankarista” condotta dall’allora visionario Presidente Thomas Sankara, che promuoveva l’indipendenza del paese dal neocolonialismo economico con il motto “produciamo Burkinabé, consumiamo Burkinabé”. Rabhi e Sankara si incontrarono nel 1987: Sankara propose all’agricoltore francese di riscrivere la politica agricola del Burkina Faso. Un progetto rimasto sulla carta. Sankara, infatti, venne assassinato e il Paese africano “normalizzato”. Per quelle politiche agricole significò l’adesione all’agricoltura convenzionale, tesa a massimizzare la produttività dei suoli con l’utilizzo massiccio di fertilizzanti chimici, sementi ibride e in seguito l’introduzione di sementi OGM. Negli anni sono diverse le esperienze che si sono sviluppate di resistenza a questo modello e sempre più organizzazioni locali, sostenute e accompagnate da ONG internazionali, stanno promuovendo, seppur su piccola scala, l’agroecologia. Rabhi e Sankara sono i riferimenti di questo movimento di cui fa parte anche Mani Tese.

I progetti di Mani Tese

Sono due i progetti oggi in corso che, con modalità diverse, richiamano alcuni principi dell’agroecologia. Il primo dal titolo Filiere corte e cibo sano per tutti in Burkina Faso, cofinanziato dalla Regione Veneto e dalla Fondazione Maria Enrica si svolge in nove villaggi nel Comune di Loumbilà, poco distante dalla capitale Ouagadougou. Dal 2014 Mani Tese ha avviato, grazie al contributo di Fondazioni for Africa Burkina Faso, un programma nella zona con il duplice obiettivo di accompagnare i contadini a organizzarsi in Unione prima e cooperativa poi e a migliorare la produzione, in particolare orticola, in linea con i principi dell’agroecologia. L’approccio utilizzato segue le seguenti tappe: 1. Sensibilizzazione della popolazione e dei contadini sui danni dell’agricoltura convenzionale e dell’utilizzo indiscriminato di fertilizzanti chimici sia per quel che riguarda il degrado dei suoli sia per i problemi di salute che ne conseguono; 2. Promozione di forme di produzione alternative attraverso la formazione degli agricoltori sulle tecniche che fanno riferimento ai principi dell’agroecologia. In particolare è stata creata una fattoria dimostrativa gestita dall’Unione di produttori orticoli Nanglobzanga e sono stati sostenuti inizialmente 35 produttori per la conversione agroecologica dei loro terreni; 3. Favorire modalità per valorizzare le produzioni agroecologiche attraverso l’organizzazione di campagne per la valorizzazione del cibo sano e locale, fiere e mercati settimanali che oltre a sensibilizzare sui temi già citati danno l’opportunità ai produttori di vendere direttamente al consumatore; 4. Lavorare in rete promuovendo eventi e scambi tra produttori, è il caso per esempio della collaborazione con l’associazione CNABio (Consiglio nazionale dell’agricoltura biologica in Burkina Faso); 5. Influire sui decisori politici a partire dal basso, ovvero dai sindaci dei comuni dove si opera per fare in modo che l’agroecologia non resti l’esperienza di pochi ma possa essere introdotta nella strategia nazionale di politica agricola. Un primo positivo risultato è il fatto che il sindaco di Loumbilà abbia inserito l’agroecologia nel piano comunale di sviluppo. Il secondo progetto in corso, con il cofinanziamento dell’Agenzia Italiana per la Cooperazione allo Sviluppo (AICS) e sempre la Fondazione Maria Enrica, si svolge invece nelle province rurali del Boulgou e del Boulkiemdé, oltre che nella capitale, e ha come titolo Imprese sociali innovative e  partecipazione  dei  migranti per l’inclusione sociale in Burkina Faso.

Il progetto si pone l’obiettivo di contribuire allo sviluppo di attività produttive, imprenditoriali e innovative, nell’ambito delle produzioni agroalimentari per ridurre marginalità sociale ed economica e per valorizzare le produzioni locali. Sono, quindi, in corso una serie di azioni finalizzate a sostenere 20 organizzazioni collettive che si occupano prevalentemente di trasformazione di prodotti alimentari burkinabé (dal cous cous di mais ai biscotti di niebé, fino al soumbala e alle arachidi tostate), per migliorare le loro modalità di produzione e creare contatti con potenziali consumatori soprattutto a Ouagadougou. Alcune di queste organizzazioni sono anche sostenute da associazioni della diaspora del Burkina Faso in Italia con le quali lavora il partner di progetto CeSPI. Per la commercializzazione dei prodotti invece l’attività è gestita insieme all’Ong ACRA, che ha costituito Ké de burkinabé un’impresa sociale basata a Ouagadougou allo scopo di supportare i piccoli produttori nel migliorare la qualità dei propri prodotti e il loro confezionamento e infine sviluppare canali di vendita. Con Chico Mendes invece si sta realizzando una campagna di sensibilizzazione dei consumatori Burkinabé rispetto al consumo sano e locale. Il progetto ha infine una componente istituzionale, sempre seguita in collaborazione con ACRA e il comune di Milano, che ha portato il comune di Ouagadougou a sottoscrivere il Milan Urban Food Policy Pact che impegna i sindaci che lo sottoscrivono a lavorare per rendere sostenibili i sistemi alimentari, garantire cibo sano e accessibile a tutti, preservare la biodiversità, lottare contro lo spreco.


THIERA, STORIA DI UN RAGAZZO TORNATO A “VIVERE”

Costretto all’accattonaggio e con una grave forma di cifosi, è stato accolto nel centro di Damnok Toek, in Cambogia, dove sta ricominciando a vivere.

Thiera (nome di fantasia per proteggere la privacy del minore) ha 13 anni ed è nato nella provincia di Kompong Thom, nel centro della Cambogia. È l’ultimo figlio di sette fratelli di una famiglia molto povera e soffre di una grave forma di cifosi.

 

 

Thiera è un ragazzo che ha avuto una vita molto difficile. Subito dopo la sua nascita, il padre fu arrestato e mandato in prigione per aver abusato di una figlia.

Vista la situazione finanziaria molto critica, la madre si risposò con un altro uomo, con la speranza di aiutare economicamente la famiglia, che si trasferì in campagna per vivere di agricoltura.

Thiera e uno dei suoi fratelli – che, come lui, era affetto da disabilità –iniziarono a soffrire per la mancanza di cibo, di assistenza sanitaria e d’istruzione. La situazione finanziaria della famiglia non migliorò e questo iniziò a generare tensioni. Thiera e suo fratello, agli occhi del patrigno, rappresentavano un problema in quanto, a causa della loro disabilità, non potevano aiutare la madre, specialmente nel trasporto di carichi pesanti.

Il patrigno decise allora di vendere Thiera e il fratello ai trafficanti in cambio di denaro e i ragazzi furono costretti a migrare in Thailandia per poi essere forzati a chiedere l’elemosina per strada.

Una volta attraversato illegalmente il confine, i due fratelli furono separati e Thiera fu mandato a Bangkok.

In Thailandia, Thiera lavorò duramente. Costretto a chiedere soldi ogni giorno ai cancelli dei mercati, per rendere più redditizia la sua attività di accattonaggio, il trafficante gli impose di elemosinare privandosi della camicia per mettere in mostra la schiena affetta da cifosi. Thiera doveva chiedere l’elemosina ogni giorno in un mercato diverso: il suo obiettivo era quello di guadagnare 3000 bath (circa 90 dollari) al giorno. Quando non riusciva a raggiungerlo, veniva severamente punito e picchiato. Tutti i soldi raccolti da Thiera venivano presi dai trafficanti, anche quando l’obiettivo giornaliero era stato superato. Fortunatamente i passanti non davano soltanto soldi a Thiera, ma anche cibo e bevande, e questo gli permise quantomeno di nutrirsi adeguatamente.

 

 

Un giorno, mentre Thiera si trovava al mercato per chiedere l’elemosina, una donna iniziò a parlargli offrendogli una bambola. Thiera si accorse ben presto che si trattava di “una trappola” della polizia tailandese. Quando il trafficante richiamò Thiera per fuggire dalla polizia era già troppo tardi e il ragazzo era ormai al sicuro.

Thiera venne arrestato e condotto alla stazione di polizia per essere interrogato e, dopo aver raccontato la sua storia, fu mandato al centro di Ban Phum Vet, dove la polizia thailandese conduce i bambini che provengono illegalmente da altri Paesi.

“Non era la prima volta che venivo arrestato dalla polizia – racconta Thiera – il fratello del trafficante aveva qualche aggancio e ogni volta riusciva farmi liberare per poi farmi tornare a mendicare. Quella volta fu differente perché il fratello non riuscì a contrattare con il poliziotto la mia liberazione”.

Thiera rimase nel centro per sei mesi e, durante il suo soggiorno, fu ascoltato dalla corte di giustizia per tre volte. Thiera ha raccontato che vivere nel centro non era male perché gli educatori gli insegnavano la lingua tailandese e l’artigianato.

In seguito, venne rimandato in Cambogia attraverso Poipet. Fu presso il Poipet Transit Center che venne intervistato dagli assistenti sociali di Damnok Toek che, riconoscendolo come vittima di trafficking di minori, lo portarono al centro di accoglienza di Damnok Toek, sostenuto anche da Mani Tese.

 

 

All’inizio Thiera aveva molta paura di essere mandato in un altro posto che non conosceva, ma l’assistente sociale di Damnok Toek lo rassicurò, spiegandogli che il Centro di accoglienza era un luogo creato apposta per bambini come lui. Lì, avrebbe avuto la possibilità di ricevere tre pasti al giorno e un’istruzione di base e di partecipare a diverse attività ricreative.

A Thiera venne anche spiegato che il centro sarebbe stato un luogo di residenza temporaneo per lui e che lo staff di Damnok Toek avrebbe lavorato sodo per trovare la soluzione più adatta per lui, dando la priorità al suo reinserimento familiare.

Sono trascorsi due mesi dal suo arrivo al centro e Thiera ora sta meglio, ha fatto amicizia e gioca con gli altri bambini del centro. Sta imparando a scrivere e gli piace molto partecipare alle attività artigianali.

Thiera non ha ancora un’idea chiara sul suo futuro, ma vorrebbe tornare a vivere con sua madre e i suoi fratelli.

ECONOMIES FOR FUTURE: IL NUOVO NUMERO DEL NOSTRO GIORNALE

ECONOMIES FOR FUTURE è il titolo del numero di dicembre 2019 dedicato alle nuove visioni economiche per un futuro equo e sostenibile. Leggilo on line!

Nei giorni in cui si tiene la Cop25, Mani Tese torna a parlare di ambiente e di futuro e lo fa con l’uscita dell’ultimo numero del suo giornale.

ECONOMIES FOR FUTURE” è il titolo del semestrale di dicembre 2019 ed è dedicato alle nuove visioni economiche per un futuro equo e sostenibile.
Di fronte alla crisi epocale prodotta dall’attuale modello, serve un nuovo pensiero economico fondato su obiettivi di lungo termine e una capacità di “intelligenza collettiva” per costruire uno “sviluppo economico sostenibile e inclusivo”.

Il numero del giornale rappresenta inoltre una sorta di proseguimento del precedente (“ECOCIDIO”), dedicato alla crisi climatica e alla sfida per la giustizia ambientale.

All’interno del numero di dicembre vengono affrontati diversi argomenti: le sfide della produzione industriale, l’educazione economica per i ragazzi, l’etica nella finanza, la nuova dimensione del settore pubblico, la transizione energetica e la mobilità sostenibile, l’agroecologia in Burkina Faso nel nostro Focus Paese.

Buona lettura!

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MOZAMBICO, INNOVARE LA TRADIZIONE PER SVILUPPARE L’AGROECOLOGIA

A fine ottobre in Mozambico comincia la campagna agricola. Mani Tese, attraverso il “Progetto FORESTE”, cerca di sviluppare un modello agroecologico.

A fine ottobre, in Mozambico – e in particolare nel distretto di Mocubela, dove stiamo lavorando nell’ambito del “Progetto FORESTE” in partnership con le ONG ICEI e COSV – è iniziata la campagna agricola.

A ottobre il terreno aveva infatti appena approfittato di due mesi di riposo, dove le uniche colture presenti erano ananas, manioca e Cajanus cajanus. Questo è stato quindi il momento giusto per addolcire il terreno con qualche colpo di zappa, effettuare la potatura del Cajanus cajanus e preparare i semi migliori per la semina.

La preparazione per la campagna agricola sembra una corsa contro il tempo. Da una parte ci sono gli agricoltori, che con le loro tradizioni iniziano a dissodare la terra o a bruciare i campi; dall’altra ci sono i destinatari del “Progetto FORESTE” che, attraverso il supporto di Mani Tese, hanno messo a punto un modello agroecologico per le comunità rurali autoctone che si adatta alla natura del luogo e alle esigenze di tutti.

Quest’anno i beneficiari del “Progetto FORESTE” hanno potuto inoltre contare sui nuovi silos familiari costruiti da Mani Tese nelle comunità. I silos sono locali di immagazzinamento delle derrate alimentari e delle sementi che, grazie all’ambiente di conservazione migliore, mantengono una percentuale di germinabilità più alta a confronto dei sistemi di immagazzinamento tradizionali.

È molto difficile cambiare la tradizione. La tradizione è infatti il ricordo di un padre che ha tramandato al figlio come usare la zappa o come seminare un seme.

Ma quel padre non poteva immaginare che il figlio avrebbe dovuto confrontarsi con la diminuzione delle piogge e con la mancanza di acqua, né poteva aspettarsi che un giorno sarebbe diminuita la terra fertile. Per questo Mani Tese, con la collaborazione del partner locale Unione Provinciale dei Contadini (UPC-Z), si impegna ogni giorno per sensibilizzare le comunità sul tema dell’agroecologia, rispettando le tradizioni ma allo stesso tempo innovandole.

Non tagliare gli alberi della foresta per allargare le tue coltivazioni; prenditi cura della terra che hai per renderla più produttiva.

Non irrigare necessariamente due volte al giorno, usa la tecnica della pacciamatura che permette di risparmiare tempo, acqua e fatica.  

Non rimuovere i residui di potatura, ma usali per ridare fertilità al suolo.

Con queste raccomandazioni bucoliche il futuro raccolto sarà migliore.

Il “Progetto FORESTE” è cofinanziato dall’Agenzia Italiana per la Cooperazione allo Sviluppo.

Business e diritti umani: online l’ebook di Mani Tese

È finalmente disponibile il nuovo ebook, gratuito, di Mani Tese “Business e Diritti Umani. Come vincolare la libertà di impresa al rispetto dei diritti umani”.

In occasione dell’apertura del Forum annuale delle Nazioni Unite su “Business & Human Rights”, in programma a Ginevra dal 25 al 27 novembre 2019, Mani Tese è lieta di presentarvi il suo nuovo ebook, frutto di un partecipatissimo ciclo di incontri organizzati nella primavera scorsa con l’obiettivo di condividere tra gli operatori della cooperazione allo sviluppo e della solidarietà italiani una serie di innovazioni nel diritto internazionale e nelle pratiche di “engagement” del settore privato che nel resto d’Europa, in particolare nel nord del continente e in Gran Bretagna, segnano ormai il dibattito in tema di “business e diritti umani”.

Ciò che intendiamo con questa etichetta è un approccio alla sostenibilità integrale del business che va ben oltre la filantropia e la responsabilità sociale di impresa e lo spinge a coniugare, in maniera non derogabile, la produzione di valore monetario con la produzione di valore sociale e ambientale, attraverso la subordinazione del fare profitto al rispetto dei diritti umani e dell’ambiente.

Il libro è curato da Giosuè De Salvo, responsabile advocacy educazione e campagne di Mani Tese, e contiene articoli di: Roberto Antonietti (Università di Padova), Angelica Bonfanti e Martina Buscemi (Università di Milano), Marta Bordignon e Giada Lepore (già Consulente del CIDU), Nicoletta Dentico e Simone Siliani (Fondazione Finanza Etica), Monica Di Sisto (Campagna Stop TTIP), Mauro Meggiolaro (Shareholders for Change), Marco Fasciglione (CNR), Deborah Lucchetti (Campagna Abiti Puliti), Luca Saltalamacchia (Studio Saltalamacchia Napoli), Giorgia Ceccarelli (Oxfam Italia) e Alessandra Prampolini (WWF Italia).

L’ebook “Business e Diritti Umani. Come vincolare la libertà di impresa al rispetto dei diritti umani” è stato realizzato con il contributo dell’Agenzia Italiana per la Cooperazione allo Sviluppo e rientra nell’ambito del programma di Mani Tese MADE IN JUSTICE per una cultura dei diritti umani e del rispetto dell’ambiente nelle aziende e nella società.

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