IN TAMIL NADU ABBIAMO DISTRIBUITO CIBO A 40 MILA FAMIGLIE IN DIFFICOLTÀ

A causa del lockdown, molti lavoratori indiani hanno perso il lavoro e non hanno risparmi per sopravvivere: insieme al nostro partner SAVE abbiamo così distribuito 40 mila kit di sopravvivenza per famiglie, contenenti riso, farina, patate e latte.

Tiruppur, una delle capitali mondiali della lavorazione del cotone nello stato indiano del Tamil Nadu, rappresenta una delle mete principali per i lavoratori provenienti dalle città vicine e, ancor di più, per quelli provenienti da altri stati dell’India. Purtroppo, però, i contratti di lavoro a cui sono assoggettati hanno spesso poche garanzie.

Durante il lockdown, infatti, molti operai hanno perso il lavoro e, senza alcun supporto da parte dei datori di lavoro, la situazione delle loro famiglie si è aggravata notevolmente poiché non avevano risparmi che permettessero loro di sopravvivere.

Nel frattempo, i proprietari di casa continuavano a chiedere l’affitto per le case dove alloggiavano: appartementi dove 5 o 6 persone vivonoin stanze di dimensioni di 10×10 metri, con tetti in lamiera che non isola gli spazi interni e quindi la temperatura resta alta tutto il giorno. In queste condizioni precarie, aggravate dal forzato lockdonwn e quindi dall’obbligo di restare a casa, sono stati soprattutto le donne e i bambini a soffrire di più.

Garantire cibo e beni di prima necessità è stato il nostro obiettivo e grazie all’associazione SAVE, nostro partner nel progetto “Combattere e prevenire le schiavitù moderne nel Tamil Nadu”, abbiamo fornito più di 40 mila pasti alle famiglie dei lavoratori di Tiruppur oltre a materiale per l’igiene.

Finito il lockdown, sono iniziate le proteste da parte dei lavoratori che, non trovandosi nel loro luogo di residenza, richiedevano un servizio di trasporto per tornare alle loro città di origine. I trasporti risultavano molto costosi e i lavoratori erano spesso costretti a vendere i loro beni per potersi permettere il viaggio. Alcuni, spinti dal desiderio di ricongiungersi alle proprie famiglie, si sono persino messi in viaggio a piedi, pensando di raggiungere villaggi anche a 1000 chilometri di distanza da Tiruppur.

Siamo dunque intervenuti insieme al nostro partner  SAVE per supportare i lavoratori nella ricerca di un trasporto sicuro.

Di seguito una serie di foto che testimoniano il nostro impegno e quello di SAVE nell’aiutare i lavoratori del Tamil Nadu:

 

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Mozambico un paese lontano che ci è molto vicino

All’insegna di rapporti storicamente forti con l’Italia, Mani Tese opera dal 1967 con numerosi progetti indirizzati soprattutto alle filiere agroalimentari.

di Giulia Donnici, Desk Cooperazione di Mani Tese

Tra un taglio e una piega, qualche tempo fa una parrucchiera di Quelimane mi confessò, emozionata, che negli anni Settanta si era perdutamente innamorata, ricambiata, di un italiano che lavorava nel settore automobilistico. Non potrebbe esserci, per me, testimonianza più autentica dei profondi legami tra Italia e Mozambico che, nel 1975, più o meno il periodo in cui la parrucchiera si innamorava, raggiunse l’indipendenza dal Portogallo. Da allora il Paese africano piombò in una lunga e sanguinosa guerra civile alla cui cessazione diede un contributo fondamentale proprio il nostro Paese, grazie alla mediazione della Comunità di Sant’Egidio, con gli “Accordi di Roma” firmati il 4 ottobre del 1992.

Non può perciò sorprendere il fatto che, nel frattempo, l’Italia sia diventata il primo investitore europeo in Mozambico, seguito da Paesi Bassi e Portogallo, e il terzo a livello globale, dopo Emirati Arabi e Stati Uniti. Se il 2018 ha visto l’interscambio commerciale tra Italia e Mozambico raggiungere il valore record di 524 milioni di euro, il 2019 ha segnato un rallentamento. Si tratta comunque di un valore di 373 milioni di euro, tra esportazioni in Mozambico di macchinari, alimenti, prodotti farmaceutici e fertilizzanti, e importazioni di alluminio e rubini.

Crescita economica e criticità

Il 2019 è stato un anno particolarmente critico per il Mozambico: due cicloni, Idai e Kenneth, si sono abbattuti sul Paese tra marzo e aprile provocando centinaia di vittime. In ottobre, in un clima di forte tensione, si sono svolte nuove elezioni che sono state vinte dal Frelimo, al potere dal 1975, e contestate dalla Renamo, l’ex guerriglia che ora è il principale partito di opposizione. A ridosso del 2020, inoltre, la provincia di Cabo Delgado è stata nuovamente oggetto di feroci violenze da parte di cellule jihadiste, che dal 2017 hanno causato oltre 500 morti. A Cabo Delgado, tra l’altro, questi attacchi minacciano quello che potrebbe essere il più grandioso progetto energetico dell’Africa: lo sfruttamento di giacimenti di gas naturale nel bacino del fiume Rovuma che da diversi anni attrae imprese straniere e, tra queste, alcune italiane.

Il Fondo Monetario Internazionale ha previsto una crescita dell’economia del Mozambico dell’8,6% per il 2023 e del 10,6% per il 2024 ma questi numeri diventeranno reali solo se verrà garantita stabilità politica e sicurezza.

Mani Tese in Mozambico

Mani Tese è presente in Mozambico dal lontano 1967, quando fece dono alla comunità di Alua, nella Provincia di Nampula, di un trattore. Da allora il suo impegno nel Paese è cresciuto con numerosi progetti che hanno visto la nascita di scuole di falegnameria, la costruzione di pozzi e mulini, l’organizzazione di corsi di alfabetizzazione, il sostegno alle associazioni dei contadini e l’organizzazione di campagne contro l’AIDS.

Dal 2010 Mani Tese è riconosciuta e autorizzata dal Ministero degli Affari Esteri del Mozambico come ONG che può operare direttamente nel Paese e, negli ultimi anni, si è specializzata nella promozione dell’agricoltura sostenibile, in particolare dell’agroecologia, nella lotta ai cambiamenti climatici, nel rafforzamento di sistemi alimentari locali e della commercializzazione dei prodotti agricoli sani e nutrienti, nella promozione di partnership a livello accademico e istituzionale. È in prima linea, infine, con interventi tempestivi durante le emergenze, come le recentissime alluvioni che hanno colpito duramente il Paese.

Oggi Mani Tese opera prevalentemente nella Provincia della Zambézia, una delle più vulnerabili del Mozambico. Dati della World Bank del 2018 stimano infatti che il 62% della popolazione della Provincia si trovi sotto la soglia di povertà.

Il progetto “Quelimane agricola” e gli altri

Il progetto “Quelimane agricola: produce, cresce e consuma sostenibile”, cofinanziato dall’Agenzia Italiana per la Cooperazione allo Sviluppo, si propone di contribuire allo sviluppo rurale sostenibile della provincia della Zambézia attraverso il rafforzamento del sistema agroalimentare locale e dei suoi principali attori: produttori, settore privato e autorità locali. L’intervento, iniziato nel 2018, è realizzato in partenariato con UPC-Z (Unione dei contadini della Provincia della Zambézia), l’ONG ICEI, l’Università degli Studi di Firenze, il Municipio di Quelimane, il Comune di Milano, il Comune di Reggio nell’Emilia, la Fondazione E35, e Gnucoop. Ne parliamo più approfonditamente nelle pagine successive.

Mani Tese partecipa ad altri importanti progetti nella regione della Zambézia

Iniziato nel 2017, il progetto Foreste, di cui è capofila l’ONG ICEI, è cofinanziato dall’Agenzia Italiana per la Cooperazione allo Sviluppo e ha come obiettivo principale quello di contribuire all’implementazione di strategie di mitigazione e adattamento ai cambiamenti climatici, migliorando la resilienza delle comunità rurali e riducendo la pressione antropica sulle risorse naturali del distretto di Mocubela. Le attività di cui è responsabile Mani Tese, che realizza in collaborazione con la controparte locale UPC-Z mirano a dar vita a un sistema agroforestale in grado di contrastare gli effetti del cambiamento climatico e della deforestazione.

L’attività agro-silvo-pastorale è svolta seguendo pratiche ecosostenibili che permettono di rigenerare un suolo ormai impoverito grazie all’introduzione di tecniche di conservazione dell’ecosistema. Inoltre, il progetto prevede la realizzazione di campi agroforestali, pozzi, allevamenti comunitari e silos per la conservazione di derrate alimentari e sementi. Tutto questo si sta accompagnando a un incessante lavoro di sensibilizzazione che coinvolge comunità e autorità locali sulle sfide ambientali del territorio.

In corso dal 2019, il progetto Sostenibilità urbana: valorizzazione delle buone pratiche in Italia e Mozambico, co-finanziato dal Comitato lecchese per la pace e la cooperazione tra i popoli, vuole contribuire alla sostenibilità urbana della Provincia della Zambézia e dei comuni del territorio lecchese: rafforzando e valorizzando le buone pratiche di sostenibilità urbana, attraverso lo scambio e la costruzione di partnership virtuose tra Italia-Mozambico e sensibilizzando il territorio lecchese sui temi legati alla sostenibilità urbana con focus specifico sulle buone pratiche legate al settore food.

Avviato in seguito al passaggio del ciclone Idai, il progetto Emergenza Cibo dal novembre del 2019 vede Mani Tese in prima linea nel programma Food Assistance for Assets, finanziato dal World Food Programme Mozambico. L’obiettivo principale di questo intervento di emergenza è il miglioramento delle condizioni di vita della popolazione di Chinde – un distretto della Provincia della Zambézia particolarmente colpito dal ciclone – fornendo alimenti di prima necessità e, al tempo stesso, rilanciando attività produttive ed infrastrutturali, come la costruzione di pozzi, latrine e strade di collegamento.

Ultimo in ordine cronologico, iniziato nei primi mesi del 2020, il progetto Agricoltura circolare per ridurre la fame In Zambézia, co-finanziato da Otto per mille a gestione statale, si propone di migliorare la sicurezza alimentare e la situazione nutrizionale delle comunità del distretto di Maquival, nell’area periurbana di Quelimane, attraverso il rafforzamento di agricoltura e allevamento. L’approccio proposto è quello dell’agricoltura circolare che ha l’obiettivo di ridurre il più possibile i rifiuti e gli sprechi derivanti dalla produzione agricola, dall’allevamento e dall’irrigazione, riutilizzando e valorizzando i prodotti di scarto.

MANI TESE E ICEI IN PRIMA LINEA CONTRO IL CORONAVIRUS IN ZAMBEZIA

In Zambezia, dove i casi di coronavirus stanno crescendo rapidamente, Mani Tese e ICEI stanno facendo attività di sensibilizzazione e prevenzione.

Mani Tese e ICEI, che collaborano nei progetti “Quelimane agricola” e “FORESTE”, nelle ultime settimane hanno consegnato materiali per la sensibilizzazione e la prevenzione del coronavirus in diverse comunità della provincia della Zambezia (Mozambico centrale), dove purtroppo i casi Covid-19 stanno aumentando rapidamente.

Nel dettaglio sono state distribuite biciclette dotate di megafoni per informare la popolazione, in portoghese e chuabo (lingua locale), su come prevenire il virus e dove recarsi in caso di sospetto di contagio. Gli stessi messaggi sono stati diffusi anche attraverso due radio molto seguite nella zona, Rádio Zambeze FM e Nova Rádio Paz.

Altri beneficiari, che vivono in aree remote ma hanno a disposizione un cellulare, sono stati invece raggiunti da SMS informativi sul Covid-19 e condivideranno le informazioni ricevute con i loro familiari e vicini. Infine, sono state distribuite delle mascherine che sono state cucite da sarti di Quelimane rispettando le indicazioni dell’OMS e del Ministero della Sanità del Mozambico.

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Il mondo dalla mia finestra: fotografie da casa mia!

Un’iniziativa per guardare il mondo da una prospettiva diversa stimolando l’immaginazione dei ragazzi durante il periodo di lockdown.

IL MONDO DALLA MIA FINESTRA Fotografie da casa mia! è stata un’iniziativa organizzata all’interno del progetto Piccoli che Valgono!, co-finanziato dall’impresa sociale Con i Bambini, che ha coinvolto gli alunni e le alunne di 5 regioni (Lombardia, Sardegna, Umbria, Toscana, Puglia) in un’attività pratica e divertente con l’obiettivo di guardare il mondo da una prospettiva diversa stimolando l’immaginazione, durante il periodo di lockdown.

Ai ragazzi e alle ragazze è stato infatti chiesto di inviare una foto di ciò che vedevano dalla propria finestra insieme a un breve testo in cui rispondevano alla domanda: cosa vorresti vedere dalla tua finestra?

Sono stati inoltre organizzati 4 momenti di formazione con fotografi esperti dell’associazione Cinevan che hanno fornito ai ragazzi le informazioni tecniche utili per scattare la propria foto utilizzando un telefono, un tablet o una piccola fotocamera. 

Tutte le foto ricevute sono state pubblicate su un album Facebook e, fra queste, le 10 più significative e descrittive di questo tempo saranno inviate alle scuole partecipanti sotto forma di una cartolina, come ricordo dell’esperienza fatta.

Quelimane sostenibile

L’impegno di Mani Tese per costruire sul territorio un modello di food system innovativo che sostenga le produzioni agricole locali e un’alimentazione sana.

Mani Tese, grazie al progetto “Quelimane agricola: produce, cresce e consuma sostenibile” vuole intervenire sul food system della Provincia della Zambézia, in Mozambico, e renderlo il più possibile sostenibile.

Per food system si intendono tutte le attività di produzione, trasformazione, trasporto, distribuzione, marketing e consumo di prodotti alimentari. Un food system sostenibile fornisce alimenti sani e nutrienti – di preferenza prodotti localmente da agricoltori che vedono tutelati i loro diritti – per soddisfare le esigenze alimentari attuali, preservando gli ecosistemi in modo che possano fornire cibo anche per le generazioni future impattando il meno possibile sull’ambiente. È una sfida che coinvolge gli agronomi, ma anche gli economisti, i giuristi e i policy makers, e che può essere supportata dall’innovazione tecnologica.

Per questo motivo, Mani Tese ha preliminarmente costituito un complesso partenariato che vede coinvolti la controparte locale UPC-Z, ovvero l’Unione dei contadini della Provincia della Zambézia, l’ONG ICEI, l’Università degli Studi di Firenze, il Municipio di Quelimane, il Comune di Milano, il Comune di Reggio nell’Emilia, la Fondazione E35, e infine Gnucoop, cooperativa esperta in tecnologia e innovazione per il non-profit. L’intervento, concepito grazie al contributo di tutti i partner, è stato cofinanziato dall’Agenzia Italiana per la Cooperazione allo Sviluppo ed è iniziato nel 2018. Si propone, nello specifico, di contribuire allo sviluppo rurale sostenibile della provincia della Zambézia attraverso il rafforzamento del sistema agroalimentare locale e dei suoi principali attori – produttori, settore privato e autorità locali, adottando pratiche innovative e sostenibili in tutta la catena legata al food, ovvero dalla produzione nei campi al loro consumo.

Ne abbiamo parlato con Agostinho de Brito, responsabile del Dipartimento di Cooperazione internazionale del Municipio di Quelimane.

Qual è la sfida che il Municipio di Quelimane sta affrontando per promuovere i prodotti agricoli locali?

La città di Quelimane ha una peculiarità: i terreni sono salmastri e per questa ragione la produzione orticola in città finora è stata poco redditizia ed esigua. Con l’arrivo del progetto Quelimane Limpa, gestito dalla ONG CELIM, e in particolare con la costruzione di un Centro di compostaggio, i piccoli produttori hanno migliorato la resa agricola e aumentato la quantità prodotta. Ciò ha creato un afflusso di prodotti locali sui mercati e alcuni produttori vendono i propri prodotti anche nei quartieri in cui vivono, per i vicini e per la gente di passaggio. La sfida più grande, al momento, è garantire la produzione agricola durante tutti i mesi dell’anno, e quindi anche in quelli caratterizzati dalla siccità, per esempio costruendo dei piccoli e semplici sistemi di irrigazione, come è stato fatto nell’ambito del progetto Quelimane Agricola. Inoltre, è importante formare i produttori per far in modo che scelgano con accuratezza i prodotti da coltivare e che utilizzino le migliori tecniche per farlo. È altrettanto cruciale migliorare il sistema di trasporto e di manipolazione degli alimenti (ci sono persone, infatti, che preferiscono comprare nei supermercati per questioni igieniche). Infine, è assolutamente necessario un sistema di stoccaggio e vendita dei prodotti che prevede impianti refrigeranti in grado di prolungare la durata della conservazione degli alimenti.

È aumentata l’offerta dei prodotti agricoli locali a Quelimane e quale ruolo ha avuto il progetto Quelimane Agricola?

È aumentata sia l’offerta che la quantità. Grazie al progetto Quelimane Agricola un numero maggiore di persone si è impegnato in una produzione agricola di piccola scala diversa da quella familiare tradizionale e sta scommettendo su coltivazioni che permettono un aumento della quantità e qualità dei prodotti agricoli, su modi diversi di coltivare e sull’uso di compost organico. Un aspetto fondamentale in questo processo è la quantità delle sementi, oltre che il loro prezzo. Molti agricoltori utilizzano sementi della produzione agricola precedente e questo ha come conseguenza un potere germinativo minore e un rendimento basso; il progetto Quelimane Agricola offre invece sementi di qualità. Inoltre, tali sementi possono essere riprodotte e quindi moltiplicate grazie alla costruzione di apposite banche di sementi, per poter tra l’altro garantire un prezzo accessibile per i produttori.

Può fornirci qualche dato sui prodotti agricoli, locali e importati, che si trovano nei supermercati e nei mercati, per esempio il Mercato Centrale e il Mercato di Aquima che sono stati oggetto proprio in questi mesi di lavori infrastrutturali realizzati nell’ambito del progetto Quelimane agricola?

Nei mercati si trovano più prodotti locali rispetto ai supermercati. Ad esempio, il pesce presente nelle bancarelle dei mercati è quasi esclusivamente locale, mentre quello che si trova nei supermercati proviene per l’80% da Cina, Portogallo e Angola. Un altro esempio riguarda la carota: se nei mercati è possibile acquistare quella prodotta localmente, nei supermercati per l’80% si tratta di carote provenienti dal Sudafrica, che tra l’altro esporta in Mozambico anche cipolla, pollo e carne rossa.

Da quand’è che Quelimane fa parte del Milan Urban Food Policy Pact (MUFPP) e quali sono le iniziative prese dall’Amministrazione legate a questo Patto?

La città di Quelimane fa parte del MUFPP da 4 anni e ha avviato il processo di apprendimento e di condivisione di buone pratiche. Per esempio, è stato pubblicato un articolo sulla gestione e la trasformazione dei rifiuti solidi organici dei mercati locali e sui concimi organici utilizzati nei campi dagli agricoltori. Inoltre, le politiche di sicurezza alimentare della città si basano sulle direttive del MUFPP. Credo che a breve, inoltre, la città di Quelimane formulerà un piano più circostanziato per la sicurezza alimentare e per sistemi alimentari.

Nel novembre dello scorso anno lei ha visitato Milano, Reggio Emilia e Bologna. Cosa l’ha colpita di più? Cosa pensa del food system italiano?

“Roma non è stata costruita in un giorno”, si dice. L’ho percepito chiaramente nell’organizzazione delle cooperative, soprattutto a Reggio Emilia, dove abbiamo visitato con molto interesse La Collina e la Cantina Albinea Canali. Inoltre, a Bologna abbiamo partecipato a una stimolante videoconferenza con il Sebrae dello Stato del Paranà (Servizio di appoggio per la micro e piccola impresa) per uno scambio sulla gestione dei mercati, organizzata dalla Regione Emilia-Romagna. Italia e Brasile hanno sistemi alimentari sviluppati che consentono ai produttori di cooperare e di guadagnare un bargaining power nel mercato. Le cooperative hanno creato interessanti sistemi di incentivazione per i soci e il sistema di trattamento e manipolazione degli alimenti fa sì che i consumatori abbiano prodotti di qualità.

Ripartiamo dal cibo

L’emergenza COVID-19 mette alla prova anche gli attuali modelli agro-alimentari: da un sistema fondato sulle reti locali una possibile risposta per l’Africa.

L’emergenza COVID-19 mette alla prova anche gli attuali modelli agro-alimentari: da un sistema fondato sulle reti locali una possibile risposta per l’Africa.

Per molto tempo le reti locali del cibo in Africa sono state considerate più un limite che un valore. Il “Vangelo” della “rivoluzione verde” diceva che occorreva abbandonare l’agricoltura locale, residuo di un passato poco produttivo, e adottare nuovi sistemi importati dall’esterno. Contemporaneamente, le istituzioni internazionali imponevano un modello economico che apriva i Paesi in via di sviluppo alle merci estere e li spingeva a produrre uno spettro limitato di prodotti da esportazione in cui avevano un “vantaggio comparato”.

Si tratta di un modello che, in termini quantitativi, ha prodotto risultati rilevanti, sebbene con forti differenze geografiche e sociali. Complessivamente, la percentuale di popolazione sottoalimentata del pianeta è scesa nel corso degli ultimi decenni: nel periodo 1990-2015, la quota di persone che soffrono la fame si è ridotta dal 23% al 10%, da quasi un miliardo e 900 a 800 milioni di persone. Il modello della “rivoluzione verde” gode ancora di grande credito se una delle più potenti iniziative di sviluppo rurale, in grado di finanziare progetti per oltre 400 milioni di dollari, si chiama Alleanza per la Rivoluzione Verde in Africa.

Tuttavia, negli ultimi anni hanno iniziato a emergere prospettive diverse che rivalutavano i saperi e le economie locali rispetto alle tecnologie importate e alle reti commerciali globali. Hanno iniziato i movimenti contadini negli anni Novanta proponendo una strategia di “sovranità alimentare” incentrata sulla valorizzazione dei sistemi locali. Intorno a questo tema si è poi sviluppato un dibattito scientifico che si è progressivamente tradotto in decisioni politiche incentrate sulla dimensione locale del cibo (si pensi al Milan Urban Food Policy Pact firmato nel 2015). Questa dimensione, a maggior ragione nell’attuale fase di crisi per l’emergenza COVID-19, potrebbe rivelarsi decisiva. Secondo la FAO, infatti, la recente crisi legata al virus avrà un impatto sul sistema globale del cibo perché le restrizioni sui movimenti delle persone condizioneranno la produzione di cibo e dunque il prezzo sui mercati mondiali.

Sicurezza alimentare: rischio default

Se i dati sulla riduzione della fame a scala globale appaiono relativamente positivi, osservando il caso dell’Africa a Sud del Sahara l’orizzonte si fa più fosco. La quota di persone sottoalimentate è scesa dal 28,5% del 2000 al 21% del 2013, per poi risalire negli ultimi anni al 22,8%. In valori assoluti significa che la popolazione affamata in quell’area è passata da 180 milioni nel 2000 a 240 milioni nel 2018. In termini demografici significa che a Sud del Sahara c’è un’Italia affamata in più rispetto a vent’anni fa.

La questione però non è semplicemente quantitativa. Se in passato la fame era un problema tipicamente rurale, in un continente dove 4 persone su 10 vivono in città (saranno 5 su 10 tra quindici anni), la questione cambia connotati. Molto spesso non si tratta di crisi di produzione, come in passato, ma di impossibilità di accedere al cibo perché gli alimenti, perlopiù importati dall’esterno, sono troppo cari o temporaneamente assenti.

Il sistema agro-alimentare centrato sul mercato internazionale ha infatti prodotto un aumento straordinario delle importazioni di cibo in Africa a Sud del Sahara. Il valore delle importazioni di cereali dei Paesi africani è aumentato da 7 miliardi di dollari nel 2000 a 24 miliardi nel 2017. Una crescente dipendenza dal mercato internazionale significa anche un’esposizione sempre più forte alle oscillazioni di prezzo, che, come sottolineato, proprio con l’emergenza COVID-19 potrebbero aggravarsi. Inoltre, il rallentamento delle economie mondiali previsto per il prossimo futuro avrà un impatto diretto sulla possibilità delle popolazioni più povere di avere accesso al cibo di importazione.

Quale agricoltura?

La volatilità dei prezzi colpisce non solo i consumatori, ma anche i contadini vincolati alla produzione di merci da esportazione che si trovano a dipendere da processi politici, economici e ambientali al di fuori del loro controllo. Nel Benin settentrionale, ad esempio, negli anni 2000 molti contadini si sono trovati in difficoltà perché il cotone, il prodotto da esportazione che avrebbe dovuto finanziare la sicurezza alimentare della popolazione locale, ha visto scendere rapidamente il suo prezzo sul mercato mondiale. Sono queste famiglie di contadini che Mani Tese ha sostenuto negli ultimi 15 anni per favorire la transizione verso sistemi agro-alimentari locali basati sulla commercializzazione del gari, un derivato della manioca molto utilizzato nella cucina dei Paesi del golfo di Guinea.

La coltivazione del cotone – ma il discorso può essere facilmente esteso a tutte le monocolture – ha anche un forte impatto ambientale sul territorio locale: per ottenere rese sufficienti, i contadini beninesi utilizzano infatti fertilizzanti, diserbanti e insetticidi chimici, sempre importati, che si accumulano nei suoli con danni per le persone e per gli ecosistemi.

L’impatto ambientale del modello agro-alimentare globale non è però solo locale. Il Benin importa ogni anno 140 milioni di dollari di carne di pollo, perlopiù (85%) provenienti da allevamenti europei che vengono alimentati con la soia prodotta in Brasile deforestando vaste aree del Cerrado e del bacino amazzonico.

Allargando lo sguardo all’intero continente, si osserva che l’importazione di olio di palma è aumentata negli ultimi venti anni da 500 milioni a quasi 7 miliardi di dollari. In questo caso le importazioni provengono principalmente dall’Asia sud-orientale, Indonesia e Malesia in particolare, due tra le aree dove la deforestazione causata dalle piantagioni di palma da olio è più forte.

Secondo la FAO, l’agricoltura commerciale è responsabile di più del 50% della deforestazione mondiale. Occorre dunque uno sguardo globale che consideri il sistema produttivo nel suo complesso e i suoi effetti socio-ambientali lontani nello spazio e nel tempo: la deforestazione non solo contribuisce in modo decisivo alla crisi climatica globale, ma altera in modo irreparabile ecosistemi fragili, innescando processi di cui non conosciamo la portata. Il passaggio di malattie dalla fauna selvatica all’uomo, tanto per fare un esempio che ci tocca da vicino, è favorito dalla rapida riduzione di superficie forestale e dal contatto sempre più frequente e ravvicinato tra grandi concentrazioni di animali umani e non umani (grandi città, allevamenti intensivi), da una parte, e aree selvatiche, dall’altra.

Il futuro “si chiama” Quelimane

Il caso africano mostra come il modello agro-alimentare convenzionale sia inefficiente dal punto di vista sociale, economico e ambientale. I costi di questo sistema sono distribuiti a varie scale: gli affamati nei villaggi e nelle città, i contadini marginalizzati, le vittime del cambiamento climatico e dell’erosione degli ecosistemi. I profitti sono anch’essi significativi, ma sono perlopiù di tipo economico e sono estremamente concentrati nelle mani di pochi soggetti privati.

Un’alternativa però esiste. In Africa, come nel resto del mondo, già esistono sistemi agro-alimentari locali e sono già attive reti locali e internazionali impegnate a sostenerli. Non si tratta di un ritorno a una società pre-moderna di autoproduzione, peraltro mai realmente esistita. Si tratta di sistemi innovativi che superano la tradizionale competizione tra città e campagna, creando una nuova integrazione tra spazi urbani, peri-urbani e rurali in grado di sostenere le economie locali, difendere la biodiversità e produrre varietà socio-culturale.

A Quelimane – la città che raccontiamo in questo numero – come a Milano i contadini locali possono svolgere un ruolo di protagonisti nella costruzione del territorio di domani e non di meri esecutori di un’agricoltura globale che estrae prodotti dalla terra come fossero minerali da immettere sui mercati internazionali.

I due modelli agro-alimentari coesistono, non solo sul territorio africano, e sono in competizione: da una parte un sistema fondato sul commercio internazionale che fornisce cibo standardizzato a basso costo, garantisce profitti per pochi e distribuisce i costi sull’intera umanità. Dall’altra una molteplicità di reti locali che, mentre producono cibo, tutelano la diversità biologica e culturale, distribuendo costi e benefici in modo più equo.

A noi la scelta.

RIMESSE E MIGRAZIONI: FATICHE E SPERANZE DEI MIGRANTI BURKINABÈ

L’Associazione Watinoma ha recentemente realizzato una campagna di Teatro forum sul tema delle rimesse, ovvero quelle somme di denaro che i migranti inviano ai loro Paesi d’origine.

Nel quadro del progetto “Imprese sociali innovative e partecipazione dei migranti per l’inclusione sociale in Burkina Faso”, cofinanziato dall’Agenzia Italiana per la Cooperazione allo sviluppo (AICS) e dalla Fondazione Maria Enricauno dei partner di progetto, l’Associazione Watinoma di Koubri, con sede a qualche km dalla capitale, ha recentemente realizzato una campagna di Teatro forum nella regione di Centre-Est, ovvero la zona da cui parte la maggior parte dei migranti burkinabé che cercano fortuna in Europa. Il progetto è realizzato nelle Regioni del Centro-Ovest e del Centro-Est da un partenariato composto oltre che delle già citate Mani Tese e Associazione Watinoma da ACRACeSPIComune di Milano, Comune di Ouagadougou, Chico MendesItal-Watinoma e le controparti locali FIAB e FENAFERB.

Il tema affrontato dall’attività proposta da Watinoma è stato quello delle rimesse, cioè di come vengono spesi e come invece sarebbe opportuno venissero spesi i soldi che i membri della diaspora inviano nel loro Paese di origine da ogni parte del mondo: infatti spesso le famiglie rimaste a casa non si rendono conto che il denaro che viene loro inviato è frutto di grossi sacrifici e viene sperperato in futilità che non aiutano affatto lo sviluppo del Paese e ad ogni invio seguono infinite nuove richieste che mettono in difficoltà non da poco il migrante stesso. Attraverso la tecnica del Teatro Forum (uno spettacolo interattivo, in cui il pubblico ha la possibilità di commentare e schierarsi con l’una o l’altra parte) abbiamo cercato di raccontare questa realtà che non è affatto semplice o immediata da comunicare.

Le risposte che abbiamo ottenuto sono state molto diverse soprattutto da parte degli uomini e da parte delle donne. Gli uomini hanno spesso testimoniato che la migrazione è una decisione sofferta, determinata dalla mancanza di prospettive di lavoro stabile e ben retribuito in Burkina Faso e anche da una certa pressione sociale: chi non parte è un fannullone senza coraggio, un debole che non onora la sua famiglia, rispetto a coloro che hanno viaggiato e hanno potuto costruire delle belle case per i propri cari (la casa in mattoni è da sempre uno status quo). D’altra parte sono consapevoli che la gestione non oculata dei fondi, non solo è uno spreco, ma spesso genera conflitti e divisioni in famiglia, perché di solito è l’uomo più anziano che riceve le rimesse dai parenti lontani e a volte, spesso, succede che li tenga semplicemente per sé, senza pensare al benessere generale della famiglia o del villaggio ed è rarissimo che vengano utilizzati per attività di vero sviluppo.

Le donne d’altro canto, hanno espresso il loro sentimento d’abbandono, un altro tema molto importante che riguarda le migrazioni: si sposano giovani, il marito parte per fare fortuna e loro restano sole spesso senza avere notizie per anni e anni (perché il compagno rimane vittima del viaggio o perché una volta arrivato non si occupa più di loro), senza possibilità di rifarsi una vita perché legalmente legate al marito. Nei casi peggiori alcune di loro, per poter sopravvivere e far fronte alle spese della famiglia, si prostituiscono nella zona delle miniere d’oro. Ci sono anche dei casi più fortunati, con un marito all’estero che però contribuisce con le rimesse al loro sostentamento, ma anche queste fortunate sono insoddisfatte: dicono che i soldi che il marito migrante fa arrivare loro, non sono sufficienti perché ciò che manca è l’amore della vita condivisa nel quotidiano. In generale le donne vorrebbero che i propri mariti contribuissero alle responsabilità della famiglia senza partire o che, se partono, possano poi ricongiungersi nel Paese di destinazione per poter vivere insieme.

Sono tanti spunti importanti che emergono, a dimostrare quanto la tematica sia sensibile e attuale. Le migrazioni dal Burkina Faso verso l’Italia hanno conosciuto un’epoca d’oro, negli anni 90, quando prendere un aereo per arrivare era più semplice e con una sanatoria si poteva sperare in documento regolare in relativamente poco tempo, ma nonostante gli sforzi dei migranti di allora, spesso comunque impiegati in occupazioni non molto redditizie (braccianti e operai per la maggiore), nella realtà di villaggio i risultati non si vedono. Tantissime rimesse inviate per costruire case di mattoni e cemento che non vengono mai completate e che crollano dopo anni di abbandono, telefonini e scarpe ultimo modello. E quando “l’italien” rientra “au Pays” per vedere i suoi cari, viene tartassato: tutti nel villaggio devono avere la loro parte, un regalo o una busta di denaro, perché lui può, fa la bella vita nel loro immaginario. Poco importa se l’italien in questione si sia indebitato per quel viaggio. È difficile stimolare una visione d’insieme, cercare di far capire che quel denaro, messo insieme, poteva servire a costruire un’impresa per dare lavoro a delle persone e generare altro reddito, per esempio, e far sì che i giovani potessero rimanere accanto alle loro famiglie senza abbandonarle per andare a cercare fortuna.

Noi con il progetto, oltre a quest’importante attività di sensibilizzazione, abbiamo proposto un utilizzo diverso delle rimesse e inizialmente sei Associazioni di migranti del Burkina Faso in Italia hanno aderito alla proposta. Di queste, a seguito di una selezione, solo quattro ed in particolare Song Taba di Napoli, UABT e Solidarieta Sabtenga di Treviso e Ligue culturelle des jeunes du Burkina Faso di Montebelluna (TV), accompagnate dal partner CeSPI, hanno proseguito con le attività di progetto. Esse hanno costituito un partenariato con altrettante Associazioni o cooperative in Burkina Faso già attive nella produzione e trasformazione di prodotti agro-alimentari e desiderose di rafforzare ed espandere la propria attività. Insieme hanno elaborato un progetto di sviluppo delle attività economiche che è stato successivamente accompagnato dai tecnici del progetto in Burkina Faso.

Dopo le formazioni i quattro progetti sono stati selezionati per una donazione a fondo perduto per l’acquisto di materiali ed equipaggiamenti per sviluppare l’attività. La condizione per ricevere la donazione è stata che ci fosse una partecipazione economica almeno del 10% del costo complessivo dell’intervento da parte dell’Associazione della Diaspora in Italia. Tutte quattro le citate Associazioni hanno aderito e un loro rappresentante si è anche recato in Burkina Faso, per accompagnare e lavorare fianco a fianco con l’associazione partner in Burkina Faso per due o tre settimane. È una piccola esperienza ma pensiamo significativa e che può fare da modello ad altre in futuro. Rimesse per lo sviluppo è possibile.

CIBO LOCALE, CIBO SANO: UNA PRODUZIONE AGRICOLA SOSTENIBILE

È da poco terminato il progetto “CIBO LOCALE, CIBO SANO”: fra le varie attività in programma lo sviluppo di un’agricoltura sostenibile e senza l’uso di fertilizzanti chimici.

Il progetto “CIBO LOCALE, CIBO SANO”, cofinanziato dalla Regione Emilia-Romagna, è da poco terminato. Lo staff di Mani Tese si è recato nelle comunità beneficiarie – Mudenga, Barrone e Sangravera – per svolgere degli incontri conclusivi e sensibilizzare sul tema del coronavirus che, purtroppo, è arrivato anche nella provincia della Zambezia. A breve, pubblicheremo un video riassuntivo di questi incontri.

Molte sono state le attività realizzate grazie al progetto “CIBO LOCALE, CIBO SANO” che aveva l’obiettivo di valorizzare buone pratiche già avviate nel settore alimentare, promuovendone di nuove, anche attraverso la creazione di partnership virtuose fra Italia e Mozambico.

In questo articolo ci vogliamo concentrare sulla parte agricola del progetto che prevedeva la costruzione di vivai, banche dei semi e unità di compostaggio, allo scopo di incrementare e differenziare la produzione di cibo sano e locale in modo sostenibile e con tecniche dell’agricoltura di conservazione, senza l’uso di fertilizzanti chimici.

Come si può vedere dalle foto qui di seguito, molto è stato il lavoro fatto e importante è stata, oltre al lavoro sui campi, anche l’opera di formazione condotta dal nostro staff che, ad esempio, ha mostrato come preparare e applicare sui campi i biopesticidi.

Il lavoro nei campi

La costruzione di un vivaio

La preparazione dei biopesticidi

Le interviste alla comunità

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La distribuzione delle sementi