7. I polli di Idrissa

Idrissa, dell’associazione Union des Jeunes Leaders du Boulgou, ci racconta di come abbia iniziato l’attività di allevamento dei polli, un “affare” molto serio in Burkina Faso.

L’Union des Jeunes Leaders du Boulgou o UJLB (Unione dei giovani leader di Boulgou) è un’associazione il cui nome mi ha sempre colpito. Tendenzialmente in Burkina Faso le associazioni e le imprese hanno o il nome del proprietario o un titolo benaugurante come ad esempio “insieme per la solidarietà”, “il Signore ci aiuta”, “sia fatta la volontà di Dio” o cose così. UJLB è decisamente inusuale. Di conseguenza andava approfondito e quindi mi faccio raccontare qualcosa da Idrissa, un giovane di 32 anni che fa parte dell’associazione da 5 anni.

“Leader si è, non si diventa” spiega Idrissa “Il leader è colui che ti mostra il cammino da intraprendere, che conduce gli altri”. “Io sono un leader. Sono un leader dinamico e lavoratore”.

E così Idrissa mi racconta la sua storia, di come sognasse di fare il commerciante, ma poi, entrato in contatto con UJLB, di come abbia capito che l’attività di allevamento dei polli nel suo villaggio potesse essere molto conveniente, visto che insieme al riso e ai fagioli, il pollo è uno degli alimenti più consumati.

Il pollo in Burkina Faso è festa. Si mangia nella zuppa, grigliato, all’aglio, fritto, nella salsa. Se inviti un Burkinabé a cena e non hai il pollo è quasi un dispetto. E poi parliamo di polli ruspanti, piccoli e atletici… i celebri poulet bicyclette di cui si legge a ogni angolo di strada.

Grazie al progetto “Imprese sociali innovative e partecipazione dei migranti per l’inclusione sociale in Burkina Faso” Idrissa e 19 membri dell’Unione hanno ricevuto diverse formazioni per rendere questa attività ancora più redditizia e ora sono nella fase in cui, costruito il pollaio, stanno installando i macchinari per autoprodurre il mangime.

L’UJLB, inoltre, ha una forte relazione di amicizia con la Ligue culturelle des Jeunes Burkinabé di Montebelluna (Treviso): un’associazione composta da 20 giovani migranti Burkinabé il cui presidente è Lucien Bambara. Anche la Ligue culturelle è coinvolta nel progetto e si è impegnata a cofinanziare la costruzione del pollaio. Lucien, che lo scorso mese di gennaio è stato in Burkina Faso per dare una mano alla costruzione e verificare l’avanzamento dei lavori, ritiene che l’attività intrapresa possa veramente garantire un reddito ai giovani del UJLB, alcuni dei quali hanno anche alle spalle storie di fallimenti migratori e sono stati costretti a rientrare dalla Libia a mani vuote.   

Idrissa si sta impegnando molto in questo progetto e da bravo leader ha le idee chiare: il lavoro in associazione potrà essere infatti un trampolino di lancio per ciascuno dei ragazzi perché possano un giorno avere una casa grande e bella e, perché no, con un pollaio da 1000 polli ciascuno.

Perché i polli, in Burkina Faso, sono un affare serio!

Idrissa Yankine del villaggio di Garango (Boulgou)

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KENYA, MASCHERINE AUTOPRODOTTE DISTRIBUITE NELLE COMUNITÀ DI BARINGO

Il Karunga Women Group sta realizzando mascherine lavabili che Mani Tese distribuisce fra le comunità della contea di Baringo (Kenya).

L’epidemia globale di Covid-19 sta toccando da vicino anche il Kenya. Per ora meno gravemente rispetto ad altri Paesi dal punto di vista sanitario (5.206 casi e 130 decessi al 25 giugno secondo i dati WHO), ma già fortemente dal punto di vista economico.

In questo contesto stiamo continuiamo a supportare le comunità locali e, da qualche settimana, abbiamo iniziato la distribuzione di mascherine. Queste vengono prodotte in loco dal Karunga Women Group che è stato supportato da Mani Tese in vari progetti negli anni passati e che si trova nella zona di Molo (Kenya occidentale).

È un intervento win win che aiuta le donne, spesso ragazze madri, ad avere un reddito in questo frangente difficile e allo stesso tempo rende disponibili per le comunità mascherine lavabili e di qualità.

La prima distribuzione è stata realizzata a Baringo dove, attraverso le ricerche sul campo, è emerso che la maggioranza dei nostri beneficiari era sprovvista di misure di protezione. Un primo lotto di 100 mascherine è stato distribuito nelle comunità di Salabani, Kataran, Eldume and Sokote.

Un secondo lotto, invece, è stato distribuito nella zona del mercato di Marigat allo scopo di sostenere le donne che si occupano della vendita di frutta e ortaggi che sono anche cruciali per la raccolta dei residui organici per il nostro lavoro sugli insetti.

Fra i gruppi beneficiari della distribuzione di mascherine, c’è anche il Joy Hope presso la missione cattolica di Marigat, che è composto da persone sieropositive, una della categorie a più alto rischio.

Il nostro impegno in Kenya continua con questi piccoli gesti per continuare il lavoro a fianco delle comunità e rafforzare la loro resilienza anche contro il pericolo rappresentato dal Covid.

Di seguito alcune foto dal mercato di Marigat, dalla comunità di Kataran e dal gruppo Joy Hope della missione cattolica di Marigat.

Mercato di Marigat
Comunità di Kataran
Il gruppo Joy Hope della missione cattolica di Marigat

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IN TAMIL NADU ABBIAMO DISTRIBUITO CIBO A 40 MILA FAMIGLIE IN DIFFICOLTÀ

A causa del lockdown, molti lavoratori indiani hanno perso il lavoro e non hanno risparmi per sopravvivere: insieme al nostro partner SAVE abbiamo così distribuito 40 mila kit di sopravvivenza per famiglie, contenenti riso, farina, patate e latte.

Tiruppur, una delle capitali mondiali della lavorazione del cotone nello stato indiano del Tamil Nadu, rappresenta una delle mete principali per i lavoratori provenienti dalle città vicine e, ancor di più, per quelli provenienti da altri stati dell’India. Purtroppo, però, i contratti di lavoro a cui sono assoggettati hanno spesso poche garanzie.

Durante il lockdown, infatti, molti operai hanno perso il lavoro e, senza alcun supporto da parte dei datori di lavoro, la situazione delle loro famiglie si è aggravata notevolmente poiché non avevano risparmi che permettessero loro di sopravvivere.

Nel frattempo, i proprietari di casa continuavano a chiedere l’affitto per le case dove alloggiavano: appartementi dove 5 o 6 persone vivonoin stanze di dimensioni di 10×10 metri, con tetti in lamiera che non isola gli spazi interni e quindi la temperatura resta alta tutto il giorno. In queste condizioni precarie, aggravate dal forzato lockdonwn e quindi dall’obbligo di restare a casa, sono stati soprattutto le donne e i bambini a soffrire di più.

Garantire cibo e beni di prima necessità è stato il nostro obiettivo e grazie all’associazione SAVE, nostro partner nel progetto “Combattere e prevenire le schiavitù moderne nel Tamil Nadu”, abbiamo fornito più di 40 mila pasti alle famiglie dei lavoratori di Tiruppur oltre a materiale per l’igiene.

Finito il lockdown, sono iniziate le proteste da parte dei lavoratori che, non trovandosi nel loro luogo di residenza, richiedevano un servizio di trasporto per tornare alle loro città di origine. I trasporti risultavano molto costosi e i lavoratori erano spesso costretti a vendere i loro beni per potersi permettere il viaggio. Alcuni, spinti dal desiderio di ricongiungersi alle proprie famiglie, si sono persino messi in viaggio a piedi, pensando di raggiungere villaggi anche a 1000 chilometri di distanza da Tiruppur.

Siamo dunque intervenuti insieme al nostro partner  SAVE per supportare i lavoratori nella ricerca di un trasporto sicuro.

Di seguito una serie di foto che testimoniano il nostro impegno e quello di SAVE nell’aiutare i lavoratori del Tamil Nadu:

 

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Mozambico un paese lontano che ci è molto vicino

All’insegna di rapporti storicamente forti con l’Italia, Mani Tese opera dal 1967 con numerosi progetti indirizzati soprattutto alle filiere agroalimentari.

di Giulia Donnici, Desk Cooperazione di Mani Tese

Tra un taglio e una piega, qualche tempo fa una parrucchiera di Quelimane mi confessò, emozionata, che negli anni Settanta si era perdutamente innamorata, ricambiata, di un italiano che lavorava nel settore automobilistico. Non potrebbe esserci, per me, testimonianza più autentica dei profondi legami tra Italia e Mozambico che, nel 1975, più o meno il periodo in cui la parrucchiera si innamorava, raggiunse l’indipendenza dal Portogallo. Da allora il Paese africano piombò in una lunga e sanguinosa guerra civile alla cui cessazione diede un contributo fondamentale proprio il nostro Paese, grazie alla mediazione della Comunità di Sant’Egidio, con gli “Accordi di Roma” firmati il 4 ottobre del 1992.

Non può perciò sorprendere il fatto che, nel frattempo, l’Italia sia diventata il primo investitore europeo in Mozambico, seguito da Paesi Bassi e Portogallo, e il terzo a livello globale, dopo Emirati Arabi e Stati Uniti. Se il 2018 ha visto l’interscambio commerciale tra Italia e Mozambico raggiungere il valore record di 524 milioni di euro, il 2019 ha segnato un rallentamento. Si tratta comunque di un valore di 373 milioni di euro, tra esportazioni in Mozambico di macchinari, alimenti, prodotti farmaceutici e fertilizzanti, e importazioni di alluminio e rubini.

Crescita economica e criticità

Il 2019 è stato un anno particolarmente critico per il Mozambico: due cicloni, Idai e Kenneth, si sono abbattuti sul Paese tra marzo e aprile provocando centinaia di vittime. In ottobre, in un clima di forte tensione, si sono svolte nuove elezioni che sono state vinte dal Frelimo, al potere dal 1975, e contestate dalla Renamo, l’ex guerriglia che ora è il principale partito di opposizione. A ridosso del 2020, inoltre, la provincia di Cabo Delgado è stata nuovamente oggetto di feroci violenze da parte di cellule jihadiste, che dal 2017 hanno causato oltre 500 morti. A Cabo Delgado, tra l’altro, questi attacchi minacciano quello che potrebbe essere il più grandioso progetto energetico dell’Africa: lo sfruttamento di giacimenti di gas naturale nel bacino del fiume Rovuma che da diversi anni attrae imprese straniere e, tra queste, alcune italiane.

Il Fondo Monetario Internazionale ha previsto una crescita dell’economia del Mozambico dell’8,6% per il 2023 e del 10,6% per il 2024 ma questi numeri diventeranno reali solo se verrà garantita stabilità politica e sicurezza.

Mani Tese in Mozambico

Mani Tese è presente in Mozambico dal lontano 1967, quando fece dono alla comunità di Alua, nella Provincia di Nampula, di un trattore. Da allora il suo impegno nel Paese è cresciuto con numerosi progetti che hanno visto la nascita di scuole di falegnameria, la costruzione di pozzi e mulini, l’organizzazione di corsi di alfabetizzazione, il sostegno alle associazioni dei contadini e l’organizzazione di campagne contro l’AIDS.

Dal 2010 Mani Tese è riconosciuta e autorizzata dal Ministero degli Affari Esteri del Mozambico come ONG che può operare direttamente nel Paese e, negli ultimi anni, si è specializzata nella promozione dell’agricoltura sostenibile, in particolare dell’agroecologia, nella lotta ai cambiamenti climatici, nel rafforzamento di sistemi alimentari locali e della commercializzazione dei prodotti agricoli sani e nutrienti, nella promozione di partnership a livello accademico e istituzionale. È in prima linea, infine, con interventi tempestivi durante le emergenze, come le recentissime alluvioni che hanno colpito duramente il Paese.

Oggi Mani Tese opera prevalentemente nella Provincia della Zambézia, una delle più vulnerabili del Mozambico. Dati della World Bank del 2018 stimano infatti che il 62% della popolazione della Provincia si trovi sotto la soglia di povertà.

Il progetto “Quelimane agricola” e gli altri

Il progetto “Quelimane agricola: produce, cresce e consuma sostenibile”, cofinanziato dall’Agenzia Italiana per la Cooperazione allo Sviluppo, si propone di contribuire allo sviluppo rurale sostenibile della provincia della Zambézia attraverso il rafforzamento del sistema agroalimentare locale e dei suoi principali attori: produttori, settore privato e autorità locali. L’intervento, iniziato nel 2018, è realizzato in partenariato con UPC-Z (Unione dei contadini della Provincia della Zambézia), l’ONG ICEI, l’Università degli Studi di Firenze, il Municipio di Quelimane, il Comune di Milano, il Comune di Reggio nell’Emilia, la Fondazione E35, e Gnucoop. Ne parliamo più approfonditamente nelle pagine successive.

Mani Tese partecipa ad altri importanti progetti nella regione della Zambézia

Iniziato nel 2017, il progetto Foreste, di cui è capofila l’ONG ICEI, è cofinanziato dall’Agenzia Italiana per la Cooperazione allo Sviluppo e ha come obiettivo principale quello di contribuire all’implementazione di strategie di mitigazione e adattamento ai cambiamenti climatici, migliorando la resilienza delle comunità rurali e riducendo la pressione antropica sulle risorse naturali del distretto di Mocubela. Le attività di cui è responsabile Mani Tese, che realizza in collaborazione con la controparte locale UPC-Z mirano a dar vita a un sistema agroforestale in grado di contrastare gli effetti del cambiamento climatico e della deforestazione.

L’attività agro-silvo-pastorale è svolta seguendo pratiche ecosostenibili che permettono di rigenerare un suolo ormai impoverito grazie all’introduzione di tecniche di conservazione dell’ecosistema. Inoltre, il progetto prevede la realizzazione di campi agroforestali, pozzi, allevamenti comunitari e silos per la conservazione di derrate alimentari e sementi. Tutto questo si sta accompagnando a un incessante lavoro di sensibilizzazione che coinvolge comunità e autorità locali sulle sfide ambientali del territorio.

In corso dal 2019, il progetto Sostenibilità urbana: valorizzazione delle buone pratiche in Italia e Mozambico, co-finanziato dal Comitato lecchese per la pace e la cooperazione tra i popoli, vuole contribuire alla sostenibilità urbana della Provincia della Zambézia e dei comuni del territorio lecchese: rafforzando e valorizzando le buone pratiche di sostenibilità urbana, attraverso lo scambio e la costruzione di partnership virtuose tra Italia-Mozambico e sensibilizzando il territorio lecchese sui temi legati alla sostenibilità urbana con focus specifico sulle buone pratiche legate al settore food.

Avviato in seguito al passaggio del ciclone Idai, il progetto Emergenza Cibo dal novembre del 2019 vede Mani Tese in prima linea nel programma Food Assistance for Assets, finanziato dal World Food Programme Mozambico. L’obiettivo principale di questo intervento di emergenza è il miglioramento delle condizioni di vita della popolazione di Chinde – un distretto della Provincia della Zambézia particolarmente colpito dal ciclone – fornendo alimenti di prima necessità e, al tempo stesso, rilanciando attività produttive ed infrastrutturali, come la costruzione di pozzi, latrine e strade di collegamento.

Ultimo in ordine cronologico, iniziato nei primi mesi del 2020, il progetto Agricoltura circolare per ridurre la fame In Zambézia, co-finanziato da Otto per mille a gestione statale, si propone di migliorare la sicurezza alimentare e la situazione nutrizionale delle comunità del distretto di Maquival, nell’area periurbana di Quelimane, attraverso il rafforzamento di agricoltura e allevamento. L’approccio proposto è quello dell’agricoltura circolare che ha l’obiettivo di ridurre il più possibile i rifiuti e gli sprechi derivanti dalla produzione agricola, dall’allevamento e dall’irrigazione, riutilizzando e valorizzando i prodotti di scarto.

MANI TESE E ICEI IN PRIMA LINEA CONTRO IL CORONAVIRUS IN ZAMBEZIA

In Zambezia, dove i casi di coronavirus stanno crescendo rapidamente, Mani Tese e ICEI stanno facendo attività di sensibilizzazione e prevenzione.

Mani Tese e ICEI, che collaborano nei progetti “Quelimane agricola” e “FORESTE”, nelle ultime settimane hanno consegnato materiali per la sensibilizzazione e la prevenzione del coronavirus in diverse comunità della provincia della Zambezia (Mozambico centrale), dove purtroppo i casi Covid-19 stanno aumentando rapidamente.

Nel dettaglio sono state distribuite biciclette dotate di megafoni per informare la popolazione, in portoghese e chuabo (lingua locale), su come prevenire il virus e dove recarsi in caso di sospetto di contagio. Gli stessi messaggi sono stati diffusi anche attraverso due radio molto seguite nella zona, Rádio Zambeze FM e Nova Rádio Paz.

Altri beneficiari, che vivono in aree remote ma hanno a disposizione un cellulare, sono stati invece raggiunti da SMS informativi sul Covid-19 e condivideranno le informazioni ricevute con i loro familiari e vicini. Infine, sono state distribuite delle mascherine che sono state cucite da sarti di Quelimane rispettando le indicazioni dell’OMS e del Ministero della Sanità del Mozambico.

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Il mondo dalla mia finestra: fotografie da casa mia!

Un’iniziativa per guardare il mondo da una prospettiva diversa stimolando l’immaginazione dei ragazzi durante il periodo di lockdown.

IL MONDO DALLA MIA FINESTRA Fotografie da casa mia! è stata un’iniziativa organizzata all’interno del progetto Piccoli che Valgono!, co-finanziato dall’impresa sociale Con i Bambini, che ha coinvolto gli alunni e le alunne di 5 regioni (Lombardia, Sardegna, Umbria, Toscana, Puglia) in un’attività pratica e divertente con l’obiettivo di guardare il mondo da una prospettiva diversa stimolando l’immaginazione, durante il periodo di lockdown.

Ai ragazzi e alle ragazze è stato infatti chiesto di inviare una foto di ciò che vedevano dalla propria finestra insieme a un breve testo in cui rispondevano alla domanda: cosa vorresti vedere dalla tua finestra?

Sono stati inoltre organizzati 4 momenti di formazione con fotografi esperti dell’associazione Cinevan che hanno fornito ai ragazzi le informazioni tecniche utili per scattare la propria foto utilizzando un telefono, un tablet o una piccola fotocamera. 

Tutte le foto ricevute sono state pubblicate su un album Facebook e, fra queste, le 10 più significative e descrittive di questo tempo saranno inviate alle scuole partecipanti sotto forma di una cartolina, come ricordo dell’esperienza fatta.

Quelimane sostenibile

L’impegno di Mani Tese per costruire sul territorio un modello di food system innovativo che sostenga le produzioni agricole locali e un’alimentazione sana.

Mani Tese, grazie al progetto “Quelimane agricola: produce, cresce e consuma sostenibile” vuole intervenire sul food system della Provincia della Zambézia, in Mozambico, e renderlo il più possibile sostenibile.

Per food system si intendono tutte le attività di produzione, trasformazione, trasporto, distribuzione, marketing e consumo di prodotti alimentari. Un food system sostenibile fornisce alimenti sani e nutrienti – di preferenza prodotti localmente da agricoltori che vedono tutelati i loro diritti – per soddisfare le esigenze alimentari attuali, preservando gli ecosistemi in modo che possano fornire cibo anche per le generazioni future impattando il meno possibile sull’ambiente. È una sfida che coinvolge gli agronomi, ma anche gli economisti, i giuristi e i policy makers, e che può essere supportata dall’innovazione tecnologica.

Per questo motivo, Mani Tese ha preliminarmente costituito un complesso partenariato che vede coinvolti la controparte locale UPC-Z, ovvero l’Unione dei contadini della Provincia della Zambézia, l’ONG ICEI, l’Università degli Studi di Firenze, il Municipio di Quelimane, il Comune di Milano, il Comune di Reggio nell’Emilia, la Fondazione E35, e infine Gnucoop, cooperativa esperta in tecnologia e innovazione per il non-profit. L’intervento, concepito grazie al contributo di tutti i partner, è stato cofinanziato dall’Agenzia Italiana per la Cooperazione allo Sviluppo ed è iniziato nel 2018. Si propone, nello specifico, di contribuire allo sviluppo rurale sostenibile della provincia della Zambézia attraverso il rafforzamento del sistema agroalimentare locale e dei suoi principali attori – produttori, settore privato e autorità locali, adottando pratiche innovative e sostenibili in tutta la catena legata al food, ovvero dalla produzione nei campi al loro consumo.

Ne abbiamo parlato con Agostinho de Brito, responsabile del Dipartimento di Cooperazione internazionale del Municipio di Quelimane.

Qual è la sfida che il Municipio di Quelimane sta affrontando per promuovere i prodotti agricoli locali?

La città di Quelimane ha una peculiarità: i terreni sono salmastri e per questa ragione la produzione orticola in città finora è stata poco redditizia ed esigua. Con l’arrivo del progetto Quelimane Limpa, gestito dalla ONG CELIM, e in particolare con la costruzione di un Centro di compostaggio, i piccoli produttori hanno migliorato la resa agricola e aumentato la quantità prodotta. Ciò ha creato un afflusso di prodotti locali sui mercati e alcuni produttori vendono i propri prodotti anche nei quartieri in cui vivono, per i vicini e per la gente di passaggio. La sfida più grande, al momento, è garantire la produzione agricola durante tutti i mesi dell’anno, e quindi anche in quelli caratterizzati dalla siccità, per esempio costruendo dei piccoli e semplici sistemi di irrigazione, come è stato fatto nell’ambito del progetto Quelimane Agricola. Inoltre, è importante formare i produttori per far in modo che scelgano con accuratezza i prodotti da coltivare e che utilizzino le migliori tecniche per farlo. È altrettanto cruciale migliorare il sistema di trasporto e di manipolazione degli alimenti (ci sono persone, infatti, che preferiscono comprare nei supermercati per questioni igieniche). Infine, è assolutamente necessario un sistema di stoccaggio e vendita dei prodotti che prevede impianti refrigeranti in grado di prolungare la durata della conservazione degli alimenti.

È aumentata l’offerta dei prodotti agricoli locali a Quelimane e quale ruolo ha avuto il progetto Quelimane Agricola?

È aumentata sia l’offerta che la quantità. Grazie al progetto Quelimane Agricola un numero maggiore di persone si è impegnato in una produzione agricola di piccola scala diversa da quella familiare tradizionale e sta scommettendo su coltivazioni che permettono un aumento della quantità e qualità dei prodotti agricoli, su modi diversi di coltivare e sull’uso di compost organico. Un aspetto fondamentale in questo processo è la quantità delle sementi, oltre che il loro prezzo. Molti agricoltori utilizzano sementi della produzione agricola precedente e questo ha come conseguenza un potere germinativo minore e un rendimento basso; il progetto Quelimane Agricola offre invece sementi di qualità. Inoltre, tali sementi possono essere riprodotte e quindi moltiplicate grazie alla costruzione di apposite banche di sementi, per poter tra l’altro garantire un prezzo accessibile per i produttori.

Può fornirci qualche dato sui prodotti agricoli, locali e importati, che si trovano nei supermercati e nei mercati, per esempio il Mercato Centrale e il Mercato di Aquima che sono stati oggetto proprio in questi mesi di lavori infrastrutturali realizzati nell’ambito del progetto Quelimane agricola?

Nei mercati si trovano più prodotti locali rispetto ai supermercati. Ad esempio, il pesce presente nelle bancarelle dei mercati è quasi esclusivamente locale, mentre quello che si trova nei supermercati proviene per l’80% da Cina, Portogallo e Angola. Un altro esempio riguarda la carota: se nei mercati è possibile acquistare quella prodotta localmente, nei supermercati per l’80% si tratta di carote provenienti dal Sudafrica, che tra l’altro esporta in Mozambico anche cipolla, pollo e carne rossa.

Da quand’è che Quelimane fa parte del Milan Urban Food Policy Pact (MUFPP) e quali sono le iniziative prese dall’Amministrazione legate a questo Patto?

La città di Quelimane fa parte del MUFPP da 4 anni e ha avviato il processo di apprendimento e di condivisione di buone pratiche. Per esempio, è stato pubblicato un articolo sulla gestione e la trasformazione dei rifiuti solidi organici dei mercati locali e sui concimi organici utilizzati nei campi dagli agricoltori. Inoltre, le politiche di sicurezza alimentare della città si basano sulle direttive del MUFPP. Credo che a breve, inoltre, la città di Quelimane formulerà un piano più circostanziato per la sicurezza alimentare e per sistemi alimentari.

Nel novembre dello scorso anno lei ha visitato Milano, Reggio Emilia e Bologna. Cosa l’ha colpita di più? Cosa pensa del food system italiano?

“Roma non è stata costruita in un giorno”, si dice. L’ho percepito chiaramente nell’organizzazione delle cooperative, soprattutto a Reggio Emilia, dove abbiamo visitato con molto interesse La Collina e la Cantina Albinea Canali. Inoltre, a Bologna abbiamo partecipato a una stimolante videoconferenza con il Sebrae dello Stato del Paranà (Servizio di appoggio per la micro e piccola impresa) per uno scambio sulla gestione dei mercati, organizzata dalla Regione Emilia-Romagna. Italia e Brasile hanno sistemi alimentari sviluppati che consentono ai produttori di cooperare e di guadagnare un bargaining power nel mercato. Le cooperative hanno creato interessanti sistemi di incentivazione per i soci e il sistema di trattamento e manipolazione degli alimenti fa sì che i consumatori abbiano prodotti di qualità.

Ripartiamo dal cibo

L’emergenza COVID-19 mette alla prova anche gli attuali modelli agro-alimentari: da un sistema fondato sulle reti locali una possibile risposta per l’Africa.

L’emergenza COVID-19 mette alla prova anche gli attuali modelli agro-alimentari: da un sistema fondato sulle reti locali una possibile risposta per l’Africa.

Per molto tempo le reti locali del cibo in Africa sono state considerate più un limite che un valore. Il “Vangelo” della “rivoluzione verde” diceva che occorreva abbandonare l’agricoltura locale, residuo di un passato poco produttivo, e adottare nuovi sistemi importati dall’esterno. Contemporaneamente, le istituzioni internazionali imponevano un modello economico che apriva i Paesi in via di sviluppo alle merci estere e li spingeva a produrre uno spettro limitato di prodotti da esportazione in cui avevano un “vantaggio comparato”.

Si tratta di un modello che, in termini quantitativi, ha prodotto risultati rilevanti, sebbene con forti differenze geografiche e sociali. Complessivamente, la percentuale di popolazione sottoalimentata del pianeta è scesa nel corso degli ultimi decenni: nel periodo 1990-2015, la quota di persone che soffrono la fame si è ridotta dal 23% al 10%, da quasi un miliardo e 900 a 800 milioni di persone. Il modello della “rivoluzione verde” gode ancora di grande credito se una delle più potenti iniziative di sviluppo rurale, in grado di finanziare progetti per oltre 400 milioni di dollari, si chiama Alleanza per la Rivoluzione Verde in Africa.

Tuttavia, negli ultimi anni hanno iniziato a emergere prospettive diverse che rivalutavano i saperi e le economie locali rispetto alle tecnologie importate e alle reti commerciali globali. Hanno iniziato i movimenti contadini negli anni Novanta proponendo una strategia di “sovranità alimentare” incentrata sulla valorizzazione dei sistemi locali. Intorno a questo tema si è poi sviluppato un dibattito scientifico che si è progressivamente tradotto in decisioni politiche incentrate sulla dimensione locale del cibo (si pensi al Milan Urban Food Policy Pact firmato nel 2015). Questa dimensione, a maggior ragione nell’attuale fase di crisi per l’emergenza COVID-19, potrebbe rivelarsi decisiva. Secondo la FAO, infatti, la recente crisi legata al virus avrà un impatto sul sistema globale del cibo perché le restrizioni sui movimenti delle persone condizioneranno la produzione di cibo e dunque il prezzo sui mercati mondiali.

Sicurezza alimentare: rischio default

Se i dati sulla riduzione della fame a scala globale appaiono relativamente positivi, osservando il caso dell’Africa a Sud del Sahara l’orizzonte si fa più fosco. La quota di persone sottoalimentate è scesa dal 28,5% del 2000 al 21% del 2013, per poi risalire negli ultimi anni al 22,8%. In valori assoluti significa che la popolazione affamata in quell’area è passata da 180 milioni nel 2000 a 240 milioni nel 2018. In termini demografici significa che a Sud del Sahara c’è un’Italia affamata in più rispetto a vent’anni fa.

La questione però non è semplicemente quantitativa. Se in passato la fame era un problema tipicamente rurale, in un continente dove 4 persone su 10 vivono in città (saranno 5 su 10 tra quindici anni), la questione cambia connotati. Molto spesso non si tratta di crisi di produzione, come in passato, ma di impossibilità di accedere al cibo perché gli alimenti, perlopiù importati dall’esterno, sono troppo cari o temporaneamente assenti.

Il sistema agro-alimentare centrato sul mercato internazionale ha infatti prodotto un aumento straordinario delle importazioni di cibo in Africa a Sud del Sahara. Il valore delle importazioni di cereali dei Paesi africani è aumentato da 7 miliardi di dollari nel 2000 a 24 miliardi nel 2017. Una crescente dipendenza dal mercato internazionale significa anche un’esposizione sempre più forte alle oscillazioni di prezzo, che, come sottolineato, proprio con l’emergenza COVID-19 potrebbero aggravarsi. Inoltre, il rallentamento delle economie mondiali previsto per il prossimo futuro avrà un impatto diretto sulla possibilità delle popolazioni più povere di avere accesso al cibo di importazione.

Quale agricoltura?

La volatilità dei prezzi colpisce non solo i consumatori, ma anche i contadini vincolati alla produzione di merci da esportazione che si trovano a dipendere da processi politici, economici e ambientali al di fuori del loro controllo. Nel Benin settentrionale, ad esempio, negli anni 2000 molti contadini si sono trovati in difficoltà perché il cotone, il prodotto da esportazione che avrebbe dovuto finanziare la sicurezza alimentare della popolazione locale, ha visto scendere rapidamente il suo prezzo sul mercato mondiale. Sono queste famiglie di contadini che Mani Tese ha sostenuto negli ultimi 15 anni per favorire la transizione verso sistemi agro-alimentari locali basati sulla commercializzazione del gari, un derivato della manioca molto utilizzato nella cucina dei Paesi del golfo di Guinea.

La coltivazione del cotone – ma il discorso può essere facilmente esteso a tutte le monocolture – ha anche un forte impatto ambientale sul territorio locale: per ottenere rese sufficienti, i contadini beninesi utilizzano infatti fertilizzanti, diserbanti e insetticidi chimici, sempre importati, che si accumulano nei suoli con danni per le persone e per gli ecosistemi.

L’impatto ambientale del modello agro-alimentare globale non è però solo locale. Il Benin importa ogni anno 140 milioni di dollari di carne di pollo, perlopiù (85%) provenienti da allevamenti europei che vengono alimentati con la soia prodotta in Brasile deforestando vaste aree del Cerrado e del bacino amazzonico.

Allargando lo sguardo all’intero continente, si osserva che l’importazione di olio di palma è aumentata negli ultimi venti anni da 500 milioni a quasi 7 miliardi di dollari. In questo caso le importazioni provengono principalmente dall’Asia sud-orientale, Indonesia e Malesia in particolare, due tra le aree dove la deforestazione causata dalle piantagioni di palma da olio è più forte.

Secondo la FAO, l’agricoltura commerciale è responsabile di più del 50% della deforestazione mondiale. Occorre dunque uno sguardo globale che consideri il sistema produttivo nel suo complesso e i suoi effetti socio-ambientali lontani nello spazio e nel tempo: la deforestazione non solo contribuisce in modo decisivo alla crisi climatica globale, ma altera in modo irreparabile ecosistemi fragili, innescando processi di cui non conosciamo la portata. Il passaggio di malattie dalla fauna selvatica all’uomo, tanto per fare un esempio che ci tocca da vicino, è favorito dalla rapida riduzione di superficie forestale e dal contatto sempre più frequente e ravvicinato tra grandi concentrazioni di animali umani e non umani (grandi città, allevamenti intensivi), da una parte, e aree selvatiche, dall’altra.

Il futuro “si chiama” Quelimane

Il caso africano mostra come il modello agro-alimentare convenzionale sia inefficiente dal punto di vista sociale, economico e ambientale. I costi di questo sistema sono distribuiti a varie scale: gli affamati nei villaggi e nelle città, i contadini marginalizzati, le vittime del cambiamento climatico e dell’erosione degli ecosistemi. I profitti sono anch’essi significativi, ma sono perlopiù di tipo economico e sono estremamente concentrati nelle mani di pochi soggetti privati.

Un’alternativa però esiste. In Africa, come nel resto del mondo, già esistono sistemi agro-alimentari locali e sono già attive reti locali e internazionali impegnate a sostenerli. Non si tratta di un ritorno a una società pre-moderna di autoproduzione, peraltro mai realmente esistita. Si tratta di sistemi innovativi che superano la tradizionale competizione tra città e campagna, creando una nuova integrazione tra spazi urbani, peri-urbani e rurali in grado di sostenere le economie locali, difendere la biodiversità e produrre varietà socio-culturale.

A Quelimane – la città che raccontiamo in questo numero – come a Milano i contadini locali possono svolgere un ruolo di protagonisti nella costruzione del territorio di domani e non di meri esecutori di un’agricoltura globale che estrae prodotti dalla terra come fossero minerali da immettere sui mercati internazionali.

I due modelli agro-alimentari coesistono, non solo sul territorio africano, e sono in competizione: da una parte un sistema fondato sul commercio internazionale che fornisce cibo standardizzato a basso costo, garantisce profitti per pochi e distribuisce i costi sull’intera umanità. Dall’altra una molteplicità di reti locali che, mentre producono cibo, tutelano la diversità biologica e culturale, distribuendo costi e benefici in modo più equo.

A noi la scelta.