Una nuova economia dell’anacardo in Guinea Bissau
Il report di Mani Tese realizzato nell’ambito del progetto “Food Wave” evidenzia gli impatti ambientali della filiera nel Paese, le cui importazioni in Europa sono aumentate del 111 per cento in dieci anni.
“Tutti dicono che gli anacardi sono il nostro petrolio, io credo siano il nostro inferno”. A detta dell’ex capo dell’agenzia forestale della Guinea-Bissau, Costantino Correia, la coltivazione dell’anacardio sta portando il Paese verso l’autodistruzione. In Guinea-Bissau, dove l’85% della popolazione vive di agricoltura, disboscare da sempre è sinonimo di sopravvivenza. Perciò, ogni anno decine di ettari di vegetazione vengono dati alle fiamme per lasciare spazio alle coltivazioni di riso. Nello specifico, si tratta di coltivazioni itineranti: si sfrutta il suolo per qualche anno, dopodiché ci si sposta, per dare alla terra il tempo di rigenerarsi. Da quando però al riso è stato affiancato il caju, l’albero di anacardio, il cambiamento è diventato irreversibile. Oggi l’anacardo è diventato molto popolare, tanto da far parlare di boom della domanda di anacardi nei Paesi europei. Secondo Eurostat, in Europa in dieci anni le importazioni sono aumentate del 111 per cento e le previsioni parlano di una crescita stabile, con l’Italia quarta tra i consumatori.Altrettanto rapidamente, sono cresciuti anche gli ettari coltivati ad anacardio su scala globale, passati da poco più di un milione nel 1988 ai 7,1 milioni del 2020. Attualmente, circa la metà della produzione si concentra in Africa, in particolare in Africa Occidentale, dove genera impatti ambientali significativi. Innanzitutto perché, al pari delle monocolture di cacao e caffè, l’espansione incontrollata delle piantagioni di anacardio sta contribuendo al disboscamento nei Paesi di origine della materia prima. In secondo luogo, poiché l’87,5 per cento della lavorazione avviene all’estero, il trasporto concorre in maniera significativa alle emissioni globali. Per l’Unione Europea al momento, però, l’impatto ambientale degli anacardi non sembra essere un problema e anche i consumatori sembrano ignorare le conseguenze delle proprie scelte alimentari. La Guinea-Bissau, più di altri stati, si presenta come un caso studio particolarmente interessante per l’analisi della filiera di produzione dell’anacardo e delle sue conseguenze sull’ambiente. Perciò, Mani Tese e lavialibera, nell’ambito del progetto “Food Wave” cofinanziato dalla Commissione Europea e coordinato dal Comune di Milano, hanno condotto una ricerca sul campo in Guinea-Bissau, con l’obiettivo di avere un quadro completo della filiera, nonché delle sue ricadute ambientali e sociali. La Guinea-Bissau, infatti, è tra i primi dieci produttori al mondo di anacardi e, nel continente africano, per qualche tempo è stata seconda soltanto alla Costa d’Avorio che, però, è otto volte più grande. Oggi, il caju rappresenta il 90 per cento delle esportazioni del Paese, dà da vivere al 70 per cento della sua popolazione e copre la quota più alta di superficie coltivata, superando il riso: l’alimento base. I governi guineensi hanno iniziato a puntare sul caju come prodotto di esportazione quando gli anacardi hanno cominciato ad avere un valore economico. Presto si è passati da un’agricoltura di sussistenza a un’agricoltura di scambio in cui tutto il prodotto, o quasi, viene venduto in cambio del riso necessario a soddisfare il fabbisogno interno in crescita. Così, piantare il caju è diventato il piano di tutti i contadini che speravano in guadagni facili. Eppure, la maggior parte di loro esporta il caju come materia prima, la cui vendita produce un valore, a livello locale, di oltre il 4000 per cento più basso rispetto al prezzo che ha l’anacardo nella vendita al dettaglio sul mercato europeo. Secondo Giovanni Sartor, responsabile di Mani Tese per l’Africa occidentale, per tutelare le foreste e la biodiversità in Guinea-Bissau, è necessario lavorare per la transizione agroecologica adottando un approccio ecosistemico attraverso il quale valorizzare la biodiversità. Dalle interviste con i ricercatori sono emerse la necessità di fissare limiti chiari all’estensione delle piantagioni di anacardi, nonché l’implementazione migliorata delle aree protette per limitare l’impatto ambientale entro un perimetro di sostenibilità. Per la ricercatrice specializzata in biodiversità tropicale, Filipa Monteiro, uno sviluppo auspicabile potrebbe prevedere la pianificazione di una filiera etica degli anacardi in cui tutti gli attori, governo e agricoltori, siano coinvolti con l’obiettivo di aumentare il valore della materia prima, assicurando che non sia frutto di disboscamento e sfruttamento, e contribuire, da un lato, alle necessità di sussistenza e, dall’altro, al miglioramento delle condizioni di vita della popolazione.
Dossier Mani Tese in collaborazione con La Via Libera