RISCALDAMENTO GLOBALE: CHE FRETTA C’E?
di Giosuè De Salvo, Responsabile Advocacy e Campagne di Mani Tese Si è chiusa venerdì scorso a Marrakech la COP22, conferenza ONU sui cambiamenti climatici. Era il primo appuntamento ufficiale dopo il tanto agognato Accordo di Parigi del dicembre 2015, in cui 196 paesi avevano deciso di mantenere il riscaldamento entro 2 gradi dai livelli […]
di Giosuè De Salvo, Responsabile Advocacy e Campagne di Mani Tese
Si è chiusa venerdì scorso a Marrakech la COP22, conferenza ONU sui cambiamenti climatici. Era il primo appuntamento ufficiale dopo il tanto agognato Accordo di Parigi del dicembre 2015, in cui 196 paesi avevano deciso di mantenere il riscaldamento entro 2 gradi dai livelli pre-industriali e, se possibile, entro 1,5 gradi.
L’obiettivo dichiarato era quello di passare dalle promesse all’azione ma a giudicare dai risultati, utilizzando una metafora calcistica, il summit marocchino si è limitato a tenere caldi i giocatori e a disegnare sulla lavagna non gli schemi da applicare in partita ma semplicemente il calendario della preparazione.
Sottoscrivendo il testo finale, le Parti (gli Stati) si sono infatti accordate sostanzialmente su due cose: definire entro dicembre 2018 un regolamento per l’attuazione dell’Accordo di Parigi, che specifichi i meccanismi di monitoraggio degli impegni presi; continuare a lavorare per istituire entro il 2020 un Fondo Verde di 100 miliardi di dollari per aiutare i Paesi in via di sviluppo.
Nessuno spazio di discussione sulla coerenza delle politiche nazionali oggi in campo (secondo il Fondo monetario internazionale, nel 2015, per esempio, i sussidi alle fonti fossili sono stati pari a 5.300 miliardi di dollari, pari al 6,5 per cento del PIL mondiale e più della spesa sanitaria globale). Nessuno spazio per includere nel mandato negoziale la definizione di misure di controllo e sanzione super partes che possano sostanziare un carattere vincolante degli impegni presi.
L’impressione è che i leader mondiali siano costretti dall’evidenza scientifica a riconoscere l’emergenza climatica ma poi si comportino come se emergenza non fosse.
Secondo Naomi Klein ciò dipende dal fatto che “i più ricchi delle nazioni più ricche pensano che se la caveranno comunque, che qualcun altro correrà i rischi maggiori, che perfino quando il cambiamento climatico arriverà alle loro porte qualcuno si prenderà cura di loro”.
Troppo pessimista? Forse ma quando ho letto questa sua frase, la mia mente è subito tornata alle installazioni multimediali “Paris de l’Avenir” che campeggiavano l’anno scorso davanti a l’Hotel de Ville, sede del municipio della capitale francese. Attraverso monitor iper definiti e plastici di ultima generazione, vi erano prefigurate le trasformazioni paesaggistiche che avrebbero interessato i quartieri cittadini a seguito dell’innalzamento delle temperature. Tutto era più verde, non c’erano macchine ma molta più acqua e molta più luce per passeggiare, correre in bicicletta e fare shopping.
La cosa mi straniò non poco ma oggi tutto sembra acquisire un senso, per quanto non auspicabile. “Una cultura che attribuisce così poco valore alla vita di chi ha la pelle di un altro colore da lasciare che degli esseri umani siano inghiottiti dalle onde o si diano fuoco in campi di detenzione”, dice ancora la Klein, “sarà disposta a lasciare che scompaiono tra le onde o siano arsi dal sole anche i paesi in cui quegli esseri umani vivono. Quando accadrà, per razionalizzare queste mostruose decisioni si formuleranno teorie sulle gerarchie umane, si dirà che dobbiamo preoccuparci prima di noi stessi”.
E in effetti, se ci pensate, qualcosa del genere è già avvenuto dopo le ultime grandi alluvioni in Gran Bretagna a inizio 2016 e in Italia in occasione dei tragici terremoti. Perché, alcuni hanno chiesto, spendiamo tanti soldi per i profughi e gli aiuti all’estero invece di prenderci cura dei cittadini inglesi e italiani?
Torna quindi di attualità, secondo me, una delle grandi lezioni inascoltate del movimento volgarmente detto “no-global”, quello di Seattle, di Porto Alegre, di Genova. Non è possibile far fronte alla crisi climatica e ambientale senza inserirla nel contesto delle politiche di austerità, di privatizzazione, di post colonialismo e militarizzazione.
Gli intrecci sono sempre più evidenti ma le forme di resistenza sono spesso scollegate tra loro. Tornare a rafforzare i fili che ci uniscono come società civile e movimenti sociali dovrebbe essere la priorità strategica di tutti. Con una novità, però. Quella di abbassare di un livello la scala del conflitto sociale (e non violento), dal globale al locale. Detta in altro modo: cerchiamo di essere meno presenti ai vertici ONU, COP e G20 e simili e di fare più programmazione strategica e più azioni di advocacy a livello di grandi città e singole nazioni.
Almeno proviamoci.