PETROLIO E MINIERE: IL POZZO DELL’AFRICA
Dalla Nigeria al Mozambico, le popolazioni locali pagano il prezzo più alto in termini di danno ambientale e povertà a causa del sistema di mercato attuale che governa l’estrazione e l’esportazione di combustibili fossili.
DALLA NIGERIA AL MOZAMBICO, LE POPOLAZIONI LOCALI PAGANO IL PREZZO PIÙ ALTO IN TERMINI DI DANNO AMBIENTALE E POVERTÀ ANCHE A CAUSA DELL’ATTUALE SISTEMA DI MERCATO CHE GOVERNA L’ESTRAZIONE E L’ESPORTAZIONE DI COMBUSTIBILI FOSSILI.
Se vogliamo comprendere la crisi socio-ambientale che stiamo vivendo, pochi luoghi al mondo sono più significativi di Makoko, la baraccopoli da 100.000 abitanti che avanza nella laguna di Lagos su palafitte e su un nuovo suolo creato dai rifiuti smaltiti nell’acqua, in assenza di alternative. Qui, letteralmente sul livello del mare, la popolazione vive quotidianamente il senso dell’innalzamento degli oceani e l’aumento dei fenomeni climatici estremi. Quando non sono oggetto di attacchi da parte delle autorità, gli abitanti devono infatti difendersi dalle periodiche alluvioni che investono la zona. Nel 2016, a seguito di una di queste tempeste è affondata anche la Makoko Floating School, un edificio galleggiante costruito dall’architetto nigeriano Kunlé Adeyemi e divenuto per qualche tempo simbolo dell’adattamento al cambiamento climatico nei Paesi a basso reddito.
Nella morsa dell’“oro nero”
Makoko è il simbolo della crisi non solo perché mostra come i cambiamenti climatici colpiscano in modo sproporzionato i più poveri, ma anche perché si colloca al centro della principale città della Nigeria, prima economia africana per dimensioni, grazie all’esportazione del petrolio. La regione del Delta del fiume Niger, da cui proviene il petrolio nigeriano, da oltre cinquant’anni è devastata dal punto di vista sociale e ambientale dall’attività estrattiva di un gruppo ristretto di imprese che alimentano le economie di alcuni Paesi nordamericani ed europei, tra cui l’Italia.
La Nigeria, tuttavia, è solo l’esempio più clamoroso. Più in generale, infatti, è l’Africa nel suo complesso a rappresentare in modo emblematico la crisi socio-ambientale globale: da una parte, anche a causa delle difficoltà economiche, è il continente in cui si sentono maggiormente gli effetti del cambiamento climatico; dall’altra, nelle miniere e nei campi petroliferi africani vediamo all’opera un sistema produttivo fondato su combustibili che vengono estratti lontano dai luoghi dove vengono consumati.
Il continente africano produce circa il doppio del petrolio che consuma (oltre 8 milioni di barili estratti al giorno a fronte di circa 4 milioni consumati): il combustibile estratto viene infatti esportato verso le economie cosiddette avanzate, rendendo così possibile il loro sviluppo. A livello mondiale i principali esportatori di petrolio rimangono gli Stati del Golfo Persico, ma ormai da diversi anni alcuni Paesi africani occupano una posizione di primo piano in questo settore. Angola e Nigeria guidano questa particolare classifica: la prima è profondamente legata alle importazioni cinesi, la seconda è patria da decenni delle multinazionali occidentali.
Ambiente e mercato
La crisi socio-ambientale è globale, dunque, non tanto perché, come talvolta si dice, “siamo tutti sulla stessa barca”, quanto piuttosto perché l’economia che la determina è costruita su scala internazionale e gli effetti sono delocalizzati rispetto alle cause. Osserviamo il Mozambico: nonostante il Paese abbia un consumo trascurabile di carbone, circa un millesimo di quello italiano, qui vengono estratte ogni anno circa 6 milioni di tonnellate di questo combustibile. Il Mozambico è infatti il secondo produttore di carbone in Africa, dopo il Sudafrica, e le sue miniere, sfruttate da imprese brasiliane (Vale) e indiane (International Coal Ventures Limited) alimentano la produzione di energia dell’India, secondo consumatore mondiale di carbone dopo la Cina (e appena prima degli Stati Uniti, terzo stato per consumi). Tra i combustibili fossili più utilizzati, il carbone è quello che produce più gas climalteranti per unità di energia prodotta e, dopo alcuni anni di calo, nel 2017 i suoi consumi sono tornati a crescere a livello globale. Gli effetti dei cambiamenti climatici sono già visibili in Mozambico: nel marzo scorso la costa orientale del Paese è stata colpita da un ciclone di intensità anomala che ha provocato circa 900 vittime.
Gli esempi della Nigeria e del Mozambico mostrano due aspetti fondamentali della crisi. Il primo è che il sistema produttivo fondato sui combustibili fossili produce danni sociali e ambientali lungo tutta la sua filiera e non solo in termini di cambiamento climatico. Analizzare la crisi socio-ambientale isolando la questione climatica, significa osservare l’ultimo anello di una catena di sfruttamento delle persone e dell’ambiente che è alla base del sistema produttivo globale. Il secondo punto da sottolineare è che l’attuale sistema economico fa sì che sfruttamento e danni socio-ambientali si localizzino in modo sproporzionato nei Paesi più poveri e che, al contrario, i profitti rimangano concentrati nelle mani di poche imprese multinazionali.
Africa, un osservatorio sulla crisi
In questo senso il cambiamento climatico non è “il” problema, ma una delle forme con le quali si manifesta la crisi contemporanea. Se non capiamo questo passaggio, rischiamo di proporre una retorica del destino comune, della terra come “navicella spaziale” che non corrisponde alla realtà: il cambiamento climatico in atto sta già producendo danni per alcuni ed è già motore di nuova accumulazione di capitale per altri.
A pochi chilometri da Makoko, sulla costa atlantica di Lagos, sta prendendo forma su una penisola artificiale di 1000 ettari un nuovo quartiere di lusso che ospiterà l’élite nigeriana e le sedi delle principali imprese internazionali. L’iniziativa nasce per creare una barriera contro le ricorrenti inondazioni che colpiscono la costa meridionale della città e vede coinvolti investitori locali (gruppo Chagoury), imprese europee di bonifica (l’olandese Royal HaskoningDHV), aziende cinesi di costruzioni (China Communications Construction Group), oltre a fondazioni filantropiche internazionali (Clinton Foundation).
L’Africa è un punto di vista privilegiato per osservare la crisi contemporanea perché è la frontiera dell’attuale sistema economico, il luogo dove si manifestano in forma estrema le conseguenze dello sfruttamento delle persone e dell’ambiente, ma anche il terreno in cui si sperimentano modalità innovative per trarre profitto dalla crisi. Da questa posizione occorre dunque guardare il problema per capirne la complessità e produrre modelli di società alternativi.
Articolo pubblicato sul numero di Giugno 2019 del Giornale di Mani Tese.