Il tema delle schiavitù moderne ha un che di paradossale: sulle prime ci indigna, perché siamo abituati a dare per scontata la libertà degli esseri umani, ma rapidamente sembra suscitare una sorta di anestesia che ci impedisce di reagire.
In parte si tratta di un processo generale provocato dalla quantità di ingiustizie con le quali veniamo in contatto quotidianamente, quell’abitudine che, come scriveva Brecht, “rende gli uomini insensibili”. In questo torpore però c’è anche qualcosa di specifico, legato alla percezione dell’ingiustizia: nel nostro immaginario la schiavitù appartiene a mondi lontani nel tempo e nello spazio e quindi genera presto un senso di impotenza, talvolta persino di disinteresse. Allora la domanda di fondo che percorre questo numero del giornale di Mani Tese è “perché la schiavitù riguarda anche noi”?
La schiavitù ci riguarda in primo luogo perché è meno lontana di quanto vogliamo pensare: è nelle nostre città e nelle nostre campagne, dove uomini e donne ogni giorno sono costretti a prostituirsi, mendicare, lavorare senza diritti. Questa schiavitù la vediamo continuamente, ma la rimuoviamo, per non dover affrontare il problema.
La schiavitù ci è vicina anche perché si trova nel cibo che consumiamo, nei vestiti che indossiamo e negli oggetti che usiamo: la schiavitù ci guarda e ci riguarda negli schermi degli smartphone prodotti con minerali di provenienza incerta. Si tratta di una schiavitù meno visibile, perché siamo stati allontanati dal processo di produzione degli oggetti che ci circondano e raramente disponiamo delle informazioni necessarie a compiere scelte veramente consapevoli. Sospettiamo che dietro un prezzo insolitamente basso ci sia qualche forma di sfruttamento, ma il processo complessivo ci sfugge e dunque non prendiamo iniziative.
La schiavitù, però, riguarda noi anche in un modo più profondo, perché ci mostra il degrado del sistema economico che abbiamo costruito e che alimentiamo: gli schiavi ci interrogano, anche quando non possono parlare. Come scriveva Sartre nella prefazione ai Dannati della terra “Le nostre vittime ci conoscono dalle loro ferite e dai loro ferri: questo rende la loro testimonianza irrefutabile. Basta che ci mostrino quel che abbiamo fatto di loro perché conosciamo quel che abbiamo fatto di noi”.
È per questo motivo che nessuno può dirsi veramente libero finché un altro essere umano vive in schiavitù. Ed è per questo motivo che figure come quella di Kailash Satyarthi assumono un valore universale: perché la loro battaglia, la nostra battaglia, libera gli schiavi lontani, invisibili, e, contemporaneamente, libera un po’ anche noi.