CONCLUSI I CORSI PER IL REINSERIMENTO DEI DETENUTI DI MANSOA E BAFATÀ

Consegnati a 53 detenuti delle carceri di Mansoa e Bafatá (Guinea Bissau), i certificati di partecipazione dei corsi del progetto “Il prigionero ha valore”.

A fine luglio abbiamo consegnato a 53 detenuti delle carceri di Mansoa e Bafatá, in Guinea Bissau, i certificati di partecipazione dei corsi di panificazione, orticultura, allevamento a ciclo corto, alfabetizzazione I e II livello e lavorazione del ferro. Tutti i corsi hanno avuto una durata compresa tra i 9 e i 12 mesi.

Considerato che la popolazione carceraria totale delle due prigioni è di 72 detenuti, attraverso il nostro progetto Il prigioniero ha valore ben il 73% dei prigionieri è stato coinvolto in attività formative di preparazione al reinserimento sociale e economico!

Scopri di più sul progetto.

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AIUTACI A RACCOGLIERE CANCELLERIA PER I BAMBINI INDIANI E CAMBOGIANI!

Cerchiamo volontari/e che ci aiutino a raccogliere prodotti di cancelleria per la nostra iniziativa “Una mano per la scuola”

Cerchiamo volontari/e che ci aiutino a raccogliere prodotti di cancelleria per la nostra iniziativa “Una mano per la scuola”!

Anche quest’anno, infatti, insieme a Coop Lombardia e Istituto Italiano per la Donazione doneremo prodotti per la scuola ai bambini e alle bambine destinatari dei progetti della campagna I Exist contro le schiavitù moderne in India e Cambogia.

Ti aspettiamo dal 7 al 10 settembre 2017 per raccogliere i prodotti donati dai clienti Coop nei punti vendita di Coop Lombardia a Brescia in Viale Mantova 85 e a Milano in Via Quarenghi 23.

Comunicaci subito le tue disponibilità a volontari@manitese.it – Tel 02 4075165 (Rif: Domenica Mazza).

Qui la pagina dell’evento!

LA FORZA DELLA MUSICA DOPO IL TERREMOTO ANCHE A MACERATA

Un incontro-scambio fra due realtà più forti del terremoto con l’esibizione della banda Rulli Frulli

Sabato 2 settembre 2017 a Caldarola (MC) si terrà un evento che vedrà l’incontro fra due realtà “più forti del terremoto”. L’esperienza della banda Rulli Frulli di Finale Emilia, un progetto di inclusione cresciuto nelle circostanze difficili del terremoto dell’Emilia, incontrerà infatti la comunità di Caldarola colpita dal terremoto. Durante l’evento si alterneranno esibizioni della banda a quelle dei giovani coristi di Caldarola e il corpo bandistico Città di Appignano.

“Il gemellaggio con Caldarola è nato quando un amministratore comunale, riacceso il televisore per la prima volta dopo molti mesi dal sisma dell’ottobre 2016 si è trovato ad ascoltare in onda su un canale nazionale l’intervista al nostro capitano Federico – spiegano i Rulli Frulli – intervista nella quale lui raccontava come il sisma del maggio 2012 che ha colpito l’Emilia avesse coinvolto direttamente anche la Banda.
Quell’intervista è stata la scintilla che ci ha dato la possibilità di conoscerci e far nascere una fratellanza tra due realtà che in comune avevano più che il dramma del sisma il calore della solidarietà”.

L’evento è promosso anche da Mani Tese Finale Emilia, presso la cui sede la banda Rulli Frulli ha costruito la propria casa. Qui per approfondire e sostenere il progetto.

Di seguito il programma dell’evento:
La forza della musica_2 settembre 2017

I BAMBINI DI TARANTO VOGLIONO VIVERE: L’INCHIESTA SU GIUSTIZIAMBIENTALE.ORG

Mani Tese, insieme a Cittadini Reattivi, si è recata in missione a Taranto per valutare i danni sanitari e ambientali di uno dei luoghi simbolo dell’ingiustizia ambientale italiana ed europea. Attraverso la voce dei protagonisti, Rosy Battaglia (Cittadini Reattivi) ha realizzato un reportage pubblicato oggi su Giustiziambientale.org, il portale che dà voce agli attivisti ambientali […]

Mani Tese, insieme a Cittadini Reattivi, si è recata in missione a Taranto per valutare i danni sanitari e ambientali di uno dei luoghi simbolo dell’ingiustizia ambientale italiana ed europea. Attraverso la voce dei protagonisti, Rosy Battaglia (Cittadini Reattivi) ha realizzato un reportage pubblicato oggi su Giustiziambientale.org, il portale che dà voce agli attivisti ambientali promosso da Mani Tese insieme ad altri esperti.

“I bambini di Taranto vogliono vivere” è il disperato appello affisso un anno fa sulle mura di Taranto. Al suo posto oggi ne campeggia un altro: “Noi non dimentichiamo i complici del nostro genocidio”. Sono infatti i bambini i primi a soffrire dell’inquinamento emesso dal comparto industriale su cui domina la più grande acciaieria d’Italia e d’Europa.

Il reportage riassume i principali dati relativi ai danni sulla salute delle persone, intervallati dalla narrazione di chi vive quotidianamente questa situazione, come quella di Anna Maria Moschetti, medico pediatra responsabile dell’associazione Culturale Pediatri di Puglia e Basilicata per le malattie dei bambini legate all’inquinamento, membro del collegio regionale degli esperti del presidente Emiliano, nelle Commissioni Ambiente, Salute e ILVA. “Come pediatra faccio azione di advocacy – dice la Moschetti – chiedo la sospensione immediata dell’esposizione della popolazione tarantina alle sostanze tossiche”.

Ma sono tante altre le voci che si alternano nell’inchiesta, come quella di Giuseppe Roberto, ex-operaio dell’ILVA o di Alessandro Marescotti, presidente di Peacelink, docente e figura storica dell’attivismo tarantino e nazionale, che afferma: “La sorpresa fu scoprire che impianti industriali come ILVA potevano emettere 1000 volte più diossina di un inceneritore e in termini di concentrazione, 1000 volte di più di quanto emesso da un’acciaieria tedesca. Capimmo così che le norme erano state costruite secondo criteri di ingiustizia”.

Inizia così la grande attività di monitoraggio ambientale di Peacelink e il lungo iter delle indagini sull’ILVA, di cui il reportage ripercorre le principali tappe e che, a distanza di 5 anni, non ha ancora prodotto la cessazione delle emissioni. Tanto che oggi il vento a Taranto fa ancora paura. Basta infatti che spiri da nord ovest per mettere in pericolo la salute di bambini e adulti.

I cittadini tarantini continuano la loro battaglia e, dopo i numerosi decreti “sala ILVA” del Governo per rimediare al sequestro senza facoltà d’uso ordinato dalla Magistratura nel 2012, si apre alla Corte di Strasburgo un procedimento contro lo Stato Italiano, di cui attualmente si attende la sentenza. Fra le accuse dei cittadini tarantini dirette allo Stato, quella della violazione degli obblighi di protezione della vita e della salute (art.1 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo) dei singoli e delle loro famiglie.

IN MOZAMBICO NASCE L’UNIONE DEI CONTADINI DI MOCUBELA

La cerimonia di creazione dell’Unione dei contadini è stata realizzata col contributo di due progetti promossi da Mani Tese

L’Unione Provinciale dei Contadini della Zambézia (UPCZ) è nata nel 2012 anche grazie al contributo di Mani Tese, che opera in questa regione del Mozambico dagli anni ’90. Da allora, l’UPCZ è diventata sempre più strutturata e numerosa. Oggi infatti circa 21.300 contadini di 17 distretti della Zambézia sono membri di questa rete provinciale che, a sua volta, è parte dell’UNAC, l’Unione Nazionale dei Contadini del Mozambico.

Mocubela, nella Provincia della Zambezia, è un distretto amministrativo creato recentemente e il 27 maggio scorso è entrato a far parte dell’UPCZ.

La cerimonia di creazione dell’Unione dei contadini di Mocubela è stata realizzata col contributo di due progetti promossi da Mani Tese, che hanno UPCZ come partner locale: il progetto Alfabetizzazione, formazione e diritti”, cofinanziato dalla Fondazione Cassa di Risparmio di Modena, Mani Tese e Nexus E.R e il progetto “FORESTE”, cofinanziato dall’Agenzia Italiana per la Cooperazione allo Sviluppo, ICEI (capofila), Mani Tese e COSV.

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Il Presidente dell’UPCZ

COL CUORE COPERTO DI NEVE: INTERVISTA A SILVESTRO MONTANARO

Abbiamo fatto alcune domande al noto giornalista Silvestro Montanaro, autore di un libro che racconta il dramma di donne e bambine/i sfruttati sessualmente

Ci sono libri utili, libri interessanti e libri necessari. Quello di Silvestro Montanaro (“Col cuore coperto di neve, auto pubblicato nel 2016 dal giornalista e documentarista noto come autore del programma di Rai Tre “C’era una volta”), è decisamente un libro necessario.

Una lettura tutt’altro che facile, la cui brutalità sta nel fatto che le storie contenute nel romanzo, raccontate per altro con grande umanità, rappresentano fatti reali. Non si tratta, infatti, di una raccolta di racconti dell’orrore ma della spaventosa vita quotidiana di moltissime donne e soprattutto di bambine e bambini abusati, sfruttati e seviziati, dove la morte non è sempre qualcosa di cui avere paura ma, a volte, un amaro sollievo.

Quello che non dicono i numeri e le statistiche di un fenomeno di proporzioni enormi come lo sfruttamento sessuale (si parla di 4,5 milioni di vittime secondo l’ILO), ce lo racconta lui, Silvestro Montanaro, con la crudezza delle parole delle vittime.

“Ho sopportato ogni orrore e sono divenuta un corpo che scintilla e scintillare per tutte noi è innanzitutto sorridere. Voi uomini, voi stranieri, avete bisogno di comprarci sorridenti per chetare i vostri sensi di colpa, illudervi, nascondervi la semplice verità di star pagando un corpo che ha anche un’anima cui è stata rubata la libertà, la purezza e la gioia”

Queste storie sono state raccolte da Montanaro durante le sue coraggiose inchieste e percorrono un po’ tutto il globo: dall’America Latina all’Asia passando per l’Africa fino alla nostra “civilissima” Italia.

Abbiamo voluto saperne di più e l’abbiamo intervistato.

Chi sono gli orchi moderni?

Montanaro: “I moderni orchi sono persone apparentemente normalissime. Il vicino di casa, il collega di lavoro, il bottegaio, uno zio, un fratello o un marito. Mai confesserebbero di essere dei pedofili, ma tranquillamente vanno nei “paradisi” sessuali a basso costo presenti nei Caraibi, in Sudamerica e nel Sudest Asiatico e consumano “carne fresca”, ragazzine. Ora possono farlo anche senza viaggiare vista la crescente presenza sulle strade italiane di minorenni trafficate. Poi…tornano a casa…”

Cosa si può fare secondo te per porre rimedio alla piaga dello sfruttamento sessuale?

Montanaro: “Innanzitutto occorre una grande battaglia culturale. E non solo nelle scuole. Va sconfitta l’idea della normalità dell’uso a pagamento dei corpi delle donne. Va contestata l’idea che la prostituzione, soprattutto quella minorile, sia libera scelta. E nello stesso tempo occorre rafforzare le pene per chi si rende protagonista di questi crimini non solo in Italia ma anche all’estero”.

Come Mani Tese, nel 2016 abbiamo lanciato una campagna contro le schiavitù moderne (I Exist) promuovendo progetti di cooperazione in India, Bangladesh e Cambogia. La Cambogia, in particolare, è un posto che ben conosci: com’è ora la situazione in quel Paese?

Montanaro: “La Cambogia è un paese bellissimo ed insieme profondamente disgraziato. La guerra civile, il genocidio dei khmer rossi, un governo dispotico…Questo Paese si dibatte tra la ricchezza di pochissimi e la miseria totale della gran parte della popolazione. E’ grazie a questa miseria che la Cambogia si è trasformata nella principale meta delle reti pedofile e del turismo sessuale. Molte battaglie sono state fatte, molte ancora restano da fare. Se prima il fenomeno era a cielo aperto, ora è sommerso, ma purtroppo resiste”.

Di tutte le storie che hai scritto, quale ricordi con maggior dolore?

Montanaro: “Tutte le storie che ho raccolto mi hanno segnato e non potrebbe essere altrimenti. Come si può dimenticare ragazzine di dodici o tredici anni segnate, per la vita, dall’orrore. Angeli dalle ali spezzate. Il dolore di Alessandra, rumena, trafficata in Italia a 14 anni e costretta ad ogni schifo, a vedere assassinare la sua compagna di sventure e sbranare dai cani, per punizione, un’altra ragazzina che aveva tentato di scappare”.

Come si sopravvive all’orrore vissuto con i propri occhi?

Montanaro: “Dico sempre a me stesso che ho il cuore a pezzi, ma non l’ho perso, non voglio perderlo. Non posso concedermi di star tranquillo o dimenticare. Non posso permettermi di piangere. Innanzitutto dobbiamo pensare a salvare questa parte di nostre figlie e figli massacrata nei mercati mondiali del sesso. Ogni anno centinaia di migliaia di nuove creature entrano in questo inferno”.

Quali sono i tuoi progetti per il futuro?

Montanaro: “Tanti, forse troppi. Intanto un nuovo libro. Su Thomas Sankara, il giovanissimo presidente del poverissimo Burkina Faso, assassinato trenta anni fa per quello che pensava e faceva. La politica come servizio ai popoli e povera. La possibilità per l’Africa di farcela da sola se si spezzano le catene del nuovo colonialismo. Il diritto di tutti noi alla felicità reso possibile dagli enormi progressi della scienza e della tecnologia ma incatenato da pochi interessi che sull’infelicità hanno costruito il loro potere e la loro fortuna”.

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La copertina del libro “Col cuore coperto di neve” di Silvestro Montanaro

 

ILVA: LA PAROLA A STRASBURGO. UN TEST PER TUTTA L’EUROPA

di GIACOMO MARIA CREMONESI, avvocato, cofondatore Human Rights International Corner (HRIC) Gruppi distinti di cittadini di Taranto hanno promosso ricorso contro lo Stato italiano avanti alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo per l’impatto che lo stabilimento dell’ILVA ha avuto e continua ad avere sia sul loro diritto a un ambiente sano, sia sul diritto stesso […]

di GIACOMO MARIA CREMONESI, avvocato, cofondatore Human Rights International Corner (HRIC)

Gruppi distinti di cittadini di Taranto hanno promosso ricorso contro lo Stato italiano avanti alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo per l’impatto che lo stabilimento dell’ILVA ha avuto e continua ad avere sia sul loro diritto a un ambiente sano, sia sul diritto stesso alla vita.

La pronuncia della Corte di Strasburgo inciderà non solo sulla vita dei ricorrenti e della comunità di Taranto, ma soprattutto sul ruolo che lo Stato italiano deve mantenere nei confronti delle violazioni dei diritti umani compiute da imprese che vengono considerate di importanza strategica per la nostra economia.

Lo standard di condotta che il nostro Paese avrebbe dovuto adottare in relazione alla violazione dei diritti umani commessi da un’impresa è espressamente definito dai Principi Guida in Materia di Diritti Umani e Imprese, adottati nel 2011 dal Consiglio dei Diritti Umani delle Nazioni Unite.

I Principi Guida ONU, che rappresentano la base della materia Diritti Umani e Imprese, individuano tre pilastri fondamentali: il dovere dello stato di proteggere i diritti umani, la responsabilità delle imprese di rispettare i diritti umani e l’accesso alla giustizia per le vittime, in particolare ai rimedi giudiziali.

Il contesto in cui sono stati concepiti e si inseriscono i Principi Guida dell’ONU è stato il processo di globalizzazione economica. In particolare, uno degli obiettivi fondamentali era quello di evitare che potenti imprese multinazionali operassero in modo non responsabile all’interno di Paesi in via di sviluppo, che non sono in grado di imporre il rispetto dei diritti umani a dei colossi da cui dipende il loro benessere economico.

Dieci decreti legislativi

Pertanto, secondo questa prospettiva, sebbene i Principi Guida si rivolgano indistintamente ai Paesi industrializzati e a Paesi in via di sviluppo, i primi dovrebbero soprattutto adoperarsi per limitare gli abusi compiuti dalle proprie multinazionali che producono all’estero e i secondi avrebbero il compito di controllare più efficacemente le attività delle imprese operanti sul proprio territorio. Ovviamente per i Paesi in via di sviluppo questo compito comporta significativi sacrifici in quanto le grandi imprese che investono sul loro territorio rappresentano spesso risorse strategiche per la loro economia e in molti casi si verificano atteggiamenti di complicità più che di controllo.

La vicenda tutta italiana dell’ILVA mescola completamente le carte e ribalta questa prospettiva, mostrandoci con tutta evidenza come anche un Paese altamente industrializzato come il nostro fatichi a garantire il rispetto dei diritti fondamentali nei confronti di una realtà economica di importanza strategica che impiega migliaia di lavoratori.

La peculiarità del caso ILVA risiede infatti nei ben dieci decreti legislativi, tutti convertiti in legge e susseguitisi dal 2012 ad oggi, che hanno consentito la prosecuzione dell’attività dello stabilimento a discapito dell’impatto ambientale dello stesso. Tale prosecuzione è stata autorizzata a livello politico, nonostante la magistratura avesse accertato che lo stabilimento di Taranto aveva, ed ha, un significativo impatto ambientale negativo, con emissioni al di fuori dei parametri di legge, idonee a incidere sul diritto ad un ambiente sano e sul diritto stesso alla vita e alla salute della popolazione.

I provvedimenti legislativi che si sono succeduti hanno avuto l’obiettivo non solo di salvaguardare l’attività di impresa, ritenuta di importanza strategica, e di evitare la relativa perdita di posti di lavoro, ma anche di porre al riparo da responsabilità penali il commissario straordinario che si occupa dell’impianto. Tutto questo, purtroppo, è avvenuto a parziale discapito dell’impatto ambientale che continua ad essere considerato fuori norma e pericoloso per la salute dei lavoratori e della comunità interessata.

La responsabilità legale dello Stato

La condotta dello Stato italiano non è stata in linea con quanto previsto dai Principi Guida dell’ONU. La lentezza dei controlli, la prosecuzione dell’attività disposta dal Governo nonostante il provvedimento della magistratura, nonché la nomina di un commissario straordinario posto al riparo per legge da responsabilità penale si pongono senz’altro in conflitto con il primo e il terzo pilastro dei Principi Guida dell’ONU in materia di Diritti Umani e Imprese.

Infatti, i Principi Guida prevedono espressamente una più stringente responsabilità legale internazionale dello Stato in relazione alla protezione dei diritti umani nel caso in cui un’impresa venga controllata dallo Stato, così come nel caso in cui i suoi atti possano essere in qualche modo attribuiti allo Stato. Non solo, mettere al riparo il commissario straordinario da responsabilità penale e vanificare il blocco dell’attività disposto dalla magistratura ha limitato l’accesso al rimedio giudiziale per le vittime, che dovrebbe invece essere garantito secondo quanto previsto dal terzo pilastro dei Principi Guida.

La Corte Europea dei Diritti dell’Uomo non è chiamata a interpretare i Principi Guida, ma assicura il rispetto della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU). Tuttavia, anche se in modo indiretto, la Corte di Strasburgo valuterà tutti i profili sopra esposti, giudicando se vi sia stata o meno una violazione del diritto alla vita, ad un ambiente sano e ad un mezzo di ricorso effettivo per i ricorrenti.

L’esito del giudizio potrebbe avere una diretta rilevanza non solo per le comunità interessate e per i ricorrenti, ma anche per il futuro stesso delle obbligazioni positive degli Stati europei nei confronti delle imprese che hanno una rilevanza strategica per la loro economia. La sentenza di Strasburgo potrebbe infatti dirci fino a che punto uno Stato parte della CEDU possa spingersi a limitare il diritto ad un ambiente sano e alla salute dei propri cittadini per proteggere il benessere economico della nazione.

Per queste ragioni, oggi più che mai, il caso ILVA riveste una particolare importanza non solo per il nostro Paese, ma per il futuro stesso della materia Diritti Umani e Imprese.

Articolo comparso sul Giornale di Mani Tese di maggio 2017

LE DIASPORE AFRICANE SONO PONTI PER LA COOPERAZIONE

Intervista di Giovanni Sartor a Abdou Yabre Mani Tese, insieme ad altre organizzazioni che si occupano di cooperazione internazionale, partecipa dal 2014 al programma Fondazioni for Africa Burkina Faso che prevede un intervento di sviluppo rurale nel paese africano e il coinvolgimento di numerose associazioni della diaspora Burkinabè presenti in Italia. In questo modo Mani […]

Intervista di Giovanni Sartor a Abdou Yabre

Mani Tese, insieme ad altre organizzazioni che si occupano di cooperazione internazionale, partecipa dal 2014 al programma Fondazioni for Africa Burkina Faso che prevede un intervento di sviluppo rurale nel paese africano e il coinvolgimento di numerose associazioni della diaspora Burkinabè presenti in Italia. In questo modo Mani Tese ha potuto entrare in contatto con molte di queste realtà, soprattutto a Napoli e Treviso dove ha partecipato e supportato percorsi di formazione e sensibilizzazione con le associazioni, ma non solo. Una di queste realtà è ABREER l’Associazione dei Burkinabè di Reggio Emilia ed Emilia Romagna nata nel 2002 che oggi conta oltre 100 soci e che svolge, tra le altre cose, iniziative in ambito agricolo. Abbiamo intervistato Abdou Yabre, segretario generale dal 2010.

Puoi brevemente raccontarci la tua storia, quando sei arrivato in Italia, i motivi che ti hanno spinto a migrare e cosa hai fatto e fai in Italia?

Ho 27 anni, sono nato e cresciuto nella provincia del Boulgou, regione del centro est, in Burkina Faso. Mio padre tanti anni fa è partito per l’Italia per trovare un lavoro e aiutare la famiglia rimasta a casa. Nel 2008 mi ha proposto di raggiungerlo a Reggio Emilia. In Italia mi sono diplomato come perito elettrotecnico e oggi lavoro come operaio. Sono anche mediatore culturale e linguistico e impegnato in varie associazioni di burkinabè sia in Italia sia all’estero.

Nell’ambito della cooperazione internazionale si parla sempre più del ruolo delle diaspore nello sviluppo del continente africano, cosa ne pensi?

Penso che le diaspore africane in Europa possano svolgere un ruolo molto importante nella cooperazione internazionale, quello del tramite, del ponte e di facilitatore-mediatore. I migranti sono “cooperanti” che conoscono bene le due realtà (il paese di accoglienza e quello di provenienza). Valorizzare il ruolo delle diaspore può dare una svolta positiva nelle politiche di cooperazione con i paesi di origine ricordando comunque che gli immigrati, sia tramite le Associazioni di cui fanno parte sia individualmente, fanno già cooperazione attraverso le loro rimesse e con il trasferimento delle conoscenze ed esperienze acquisite nel paese di accoglienza.

Qual è l’esperienza che state facendo con ABREER rispetto a questo tema?

Qualche anno fa abbiamo avuto un’idea: creare possibilità di lavoro in Italia e nello stesso tempo opportunità per un eventuale rientro in patria. Tutto è nato nel 2010, con la crisi economica, molti di noi hanno perso il lavoro e non riuscivano a trovarne un altro. Allora ci siamo riuniti e su una cosa tutti eravamo d’accordo: dovevamo trovare una strada che potesse darci l’opportunità di reintegrarci nel mondo del lavoro in Italia e, allo stesso tempo, prepararci per poter tornare nel nostro paese di origine con un progetto professionale e di vita. Veniamo da un paese dove l’agricoltura è l’attività economica principale di più dell’80% della popolazione. Abbiamo quindi deciso di formarci in agricoltura sostenibile e nel 2014, grazie ad un finanziamento della Provincia di Reggio Emilia attraverso il Fondo Sociale Europeo, abbiamo organizzato “AgrAfrica“ un corso di formazione in tecniche e modelli di agricoltura biologica e biodinamica al quale hanno partecipato oltre 22 persone. In seguito con la collaborazione del Comune di Reggio Emilia e diverse altre realtà del territorio abbiamo creato un orto nel Parco del Mauriziano dove oggi ABREER produce a chilometro zero e promuove percorsi di formazione per i migranti sull’agricoltura biologica e biodinamica. Stiamo, inoltre, lavorando per portare le attività anche in Burkina Faso. Con Fondazioni For Africa Burkina Faso nel 2016 abbiamo avviato un secondo corso, “AgrAfrica2”, che ha coinvolto 20 cittadini, la maggior parte giovani sotto i 40 anni e 4 donne, originari del Burkina Faso e oggi residenti in provincia di Reggio Emilia.

Oggi in Europa e in Italia si parla molto di Africa, con riferimento alle massicce migrazioni, ma anche come possibile nuova frontiera per gli investimenti delle imprese. Cosa pensi di questi due fenomeni?

Molti dei migranti che arrivano sulle coste italiane provengono dal continente africano come me. In tanti perdono la vita in questo disperato viaggio e altrettanti, grazie ad un colpo di fortuna, arrivano in Italia o in altri paesi europei e a questa situazione né l’Italia né l’Europa possono rimanere indifferenti. Questi arrivi stanno cambiando le modalità di gestione del fenomeno migratorio in Italia, perché ci sono sempre più nuovi cittadini con bisogni ed esigenze diverse: dalla ricerca di protezione a quella di trovare migliori condizioni di vita, tutti con la speranza di trovare soluzioni in questo Paese. Purtroppo, a mio avviso, gli sbarchi non si possono controllare e sono anche difficili da prevenire perché le ragioni di ciascun viaggio sono diverse. Certo bisognerebbe prima di tutto favorire la semplificazione dei processi di richiesta di visto d’ingresso in Italia e in Europa per motivi di lavoro, questo eviterebbe molte delle stragi che avvengono nel Mar Mediterraneo. Si potrebbe, inoltre, con una politica di cooperazione “onesta” tra l’Africa e l’Europa, provare a gestire il fenomeno. Una cooperazione “onesta” significa anche la valorizzazione delle competenze degli immigrati già presenti in Europa, coinvolgendoli nei vari percorsi e progetti di sviluppo con l’Africa, ma significa anche, e qui mi collego alla seconda domanda, cominciare a guardare all’Africa come un continente dove andare a fare business e affari, dove fare investimenti seri. L’obiettivo deve essere quello di creare posti di lavoro sviluppando programmi di crescita e di occupazione giovanile, incoraggiando così le persone a rimanere piuttosto che partire. Io penso che un imprenditore europeo che deciderà di investire in Africa lo dovrà fare con le stesse intenzioni che avrebbe in Giappone o in America: si deve pensare all’Africa come un continente dove poter andare a fare affari, a fare impresa e non solo a portare aiuto facendo opere di beneficenza e carità. Non si deve, d’altra parte, andare in Africa con l’obiettivo di fare profitti solo per sé, rischiando così di trasformare l’investimento in una sistema di sfruttamento.

Articolo comparso sul Giornale di Mani Tese di dicembre 2016