COL CUORE COPERTO DI NEVE: INTERVISTA A SILVESTRO MONTANARO

Abbiamo fatto alcune domande al noto giornalista Silvestro Montanaro, autore di un libro che racconta il dramma di donne e bambine/i sfruttati sessualmente

Ci sono libri utili, libri interessanti e libri necessari. Quello di Silvestro Montanaro (“Col cuore coperto di neve, auto pubblicato nel 2016 dal giornalista e documentarista noto come autore del programma di Rai Tre “C’era una volta”), è decisamente un libro necessario.

Una lettura tutt’altro che facile, la cui brutalità sta nel fatto che le storie contenute nel romanzo, raccontate per altro con grande umanità, rappresentano fatti reali. Non si tratta, infatti, di una raccolta di racconti dell’orrore ma della spaventosa vita quotidiana di moltissime donne e soprattutto di bambine e bambini abusati, sfruttati e seviziati, dove la morte non è sempre qualcosa di cui avere paura ma, a volte, un amaro sollievo.

Quello che non dicono i numeri e le statistiche di un fenomeno di proporzioni enormi come lo sfruttamento sessuale (si parla di 4,5 milioni di vittime secondo l’ILO), ce lo racconta lui, Silvestro Montanaro, con la crudezza delle parole delle vittime.

“Ho sopportato ogni orrore e sono divenuta un corpo che scintilla e scintillare per tutte noi è innanzitutto sorridere. Voi uomini, voi stranieri, avete bisogno di comprarci sorridenti per chetare i vostri sensi di colpa, illudervi, nascondervi la semplice verità di star pagando un corpo che ha anche un’anima cui è stata rubata la libertà, la purezza e la gioia”

Queste storie sono state raccolte da Montanaro durante le sue coraggiose inchieste e percorrono un po’ tutto il globo: dall’America Latina all’Asia passando per l’Africa fino alla nostra “civilissima” Italia.

Abbiamo voluto saperne di più e l’abbiamo intervistato.

Chi sono gli orchi moderni?

Montanaro: “I moderni orchi sono persone apparentemente normalissime. Il vicino di casa, il collega di lavoro, il bottegaio, uno zio, un fratello o un marito. Mai confesserebbero di essere dei pedofili, ma tranquillamente vanno nei “paradisi” sessuali a basso costo presenti nei Caraibi, in Sudamerica e nel Sudest Asiatico e consumano “carne fresca”, ragazzine. Ora possono farlo anche senza viaggiare vista la crescente presenza sulle strade italiane di minorenni trafficate. Poi…tornano a casa…”

Cosa si può fare secondo te per porre rimedio alla piaga dello sfruttamento sessuale?

Montanaro: “Innanzitutto occorre una grande battaglia culturale. E non solo nelle scuole. Va sconfitta l’idea della normalità dell’uso a pagamento dei corpi delle donne. Va contestata l’idea che la prostituzione, soprattutto quella minorile, sia libera scelta. E nello stesso tempo occorre rafforzare le pene per chi si rende protagonista di questi crimini non solo in Italia ma anche all’estero”.

Come Mani Tese, nel 2016 abbiamo lanciato una campagna contro le schiavitù moderne (I Exist) promuovendo progetti di cooperazione in India, Bangladesh e Cambogia. La Cambogia, in particolare, è un posto che ben conosci: com’è ora la situazione in quel Paese?

Montanaro: “La Cambogia è un paese bellissimo ed insieme profondamente disgraziato. La guerra civile, il genocidio dei khmer rossi, un governo dispotico…Questo Paese si dibatte tra la ricchezza di pochissimi e la miseria totale della gran parte della popolazione. E’ grazie a questa miseria che la Cambogia si è trasformata nella principale meta delle reti pedofile e del turismo sessuale. Molte battaglie sono state fatte, molte ancora restano da fare. Se prima il fenomeno era a cielo aperto, ora è sommerso, ma purtroppo resiste”.

Di tutte le storie che hai scritto, quale ricordi con maggior dolore?

Montanaro: “Tutte le storie che ho raccolto mi hanno segnato e non potrebbe essere altrimenti. Come si può dimenticare ragazzine di dodici o tredici anni segnate, per la vita, dall’orrore. Angeli dalle ali spezzate. Il dolore di Alessandra, rumena, trafficata in Italia a 14 anni e costretta ad ogni schifo, a vedere assassinare la sua compagna di sventure e sbranare dai cani, per punizione, un’altra ragazzina che aveva tentato di scappare”.

Come si sopravvive all’orrore vissuto con i propri occhi?

Montanaro: “Dico sempre a me stesso che ho il cuore a pezzi, ma non l’ho perso, non voglio perderlo. Non posso concedermi di star tranquillo o dimenticare. Non posso permettermi di piangere. Innanzitutto dobbiamo pensare a salvare questa parte di nostre figlie e figli massacrata nei mercati mondiali del sesso. Ogni anno centinaia di migliaia di nuove creature entrano in questo inferno”.

Quali sono i tuoi progetti per il futuro?

Montanaro: “Tanti, forse troppi. Intanto un nuovo libro. Su Thomas Sankara, il giovanissimo presidente del poverissimo Burkina Faso, assassinato trenta anni fa per quello che pensava e faceva. La politica come servizio ai popoli e povera. La possibilità per l’Africa di farcela da sola se si spezzano le catene del nuovo colonialismo. Il diritto di tutti noi alla felicità reso possibile dagli enormi progressi della scienza e della tecnologia ma incatenato da pochi interessi che sull’infelicità hanno costruito il loro potere e la loro fortuna”.

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La copertina del libro “Col cuore coperto di neve” di Silvestro Montanaro

 

ILVA: LA PAROLA A STRASBURGO. UN TEST PER TUTTA L’EUROPA

di GIACOMO MARIA CREMONESI, avvocato, cofondatore Human Rights International Corner (HRIC) Gruppi distinti di cittadini di Taranto hanno promosso ricorso contro lo Stato italiano avanti alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo per l’impatto che lo stabilimento dell’ILVA ha avuto e continua ad avere sia sul loro diritto a un ambiente sano, sia sul diritto stesso […]

di GIACOMO MARIA CREMONESI, avvocato, cofondatore Human Rights International Corner (HRIC)

Gruppi distinti di cittadini di Taranto hanno promosso ricorso contro lo Stato italiano avanti alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo per l’impatto che lo stabilimento dell’ILVA ha avuto e continua ad avere sia sul loro diritto a un ambiente sano, sia sul diritto stesso alla vita.

La pronuncia della Corte di Strasburgo inciderà non solo sulla vita dei ricorrenti e della comunità di Taranto, ma soprattutto sul ruolo che lo Stato italiano deve mantenere nei confronti delle violazioni dei diritti umani compiute da imprese che vengono considerate di importanza strategica per la nostra economia.

Lo standard di condotta che il nostro Paese avrebbe dovuto adottare in relazione alla violazione dei diritti umani commessi da un’impresa è espressamente definito dai Principi Guida in Materia di Diritti Umani e Imprese, adottati nel 2011 dal Consiglio dei Diritti Umani delle Nazioni Unite.

I Principi Guida ONU, che rappresentano la base della materia Diritti Umani e Imprese, individuano tre pilastri fondamentali: il dovere dello stato di proteggere i diritti umani, la responsabilità delle imprese di rispettare i diritti umani e l’accesso alla giustizia per le vittime, in particolare ai rimedi giudiziali.

Il contesto in cui sono stati concepiti e si inseriscono i Principi Guida dell’ONU è stato il processo di globalizzazione economica. In particolare, uno degli obiettivi fondamentali era quello di evitare che potenti imprese multinazionali operassero in modo non responsabile all’interno di Paesi in via di sviluppo, che non sono in grado di imporre il rispetto dei diritti umani a dei colossi da cui dipende il loro benessere economico.

Dieci decreti legislativi

Pertanto, secondo questa prospettiva, sebbene i Principi Guida si rivolgano indistintamente ai Paesi industrializzati e a Paesi in via di sviluppo, i primi dovrebbero soprattutto adoperarsi per limitare gli abusi compiuti dalle proprie multinazionali che producono all’estero e i secondi avrebbero il compito di controllare più efficacemente le attività delle imprese operanti sul proprio territorio. Ovviamente per i Paesi in via di sviluppo questo compito comporta significativi sacrifici in quanto le grandi imprese che investono sul loro territorio rappresentano spesso risorse strategiche per la loro economia e in molti casi si verificano atteggiamenti di complicità più che di controllo.

La vicenda tutta italiana dell’ILVA mescola completamente le carte e ribalta questa prospettiva, mostrandoci con tutta evidenza come anche un Paese altamente industrializzato come il nostro fatichi a garantire il rispetto dei diritti fondamentali nei confronti di una realtà economica di importanza strategica che impiega migliaia di lavoratori.

La peculiarità del caso ILVA risiede infatti nei ben dieci decreti legislativi, tutti convertiti in legge e susseguitisi dal 2012 ad oggi, che hanno consentito la prosecuzione dell’attività dello stabilimento a discapito dell’impatto ambientale dello stesso. Tale prosecuzione è stata autorizzata a livello politico, nonostante la magistratura avesse accertato che lo stabilimento di Taranto aveva, ed ha, un significativo impatto ambientale negativo, con emissioni al di fuori dei parametri di legge, idonee a incidere sul diritto ad un ambiente sano e sul diritto stesso alla vita e alla salute della popolazione.

I provvedimenti legislativi che si sono succeduti hanno avuto l’obiettivo non solo di salvaguardare l’attività di impresa, ritenuta di importanza strategica, e di evitare la relativa perdita di posti di lavoro, ma anche di porre al riparo da responsabilità penali il commissario straordinario che si occupa dell’impianto. Tutto questo, purtroppo, è avvenuto a parziale discapito dell’impatto ambientale che continua ad essere considerato fuori norma e pericoloso per la salute dei lavoratori e della comunità interessata.

La responsabilità legale dello Stato

La condotta dello Stato italiano non è stata in linea con quanto previsto dai Principi Guida dell’ONU. La lentezza dei controlli, la prosecuzione dell’attività disposta dal Governo nonostante il provvedimento della magistratura, nonché la nomina di un commissario straordinario posto al riparo per legge da responsabilità penale si pongono senz’altro in conflitto con il primo e il terzo pilastro dei Principi Guida dell’ONU in materia di Diritti Umani e Imprese.

Infatti, i Principi Guida prevedono espressamente una più stringente responsabilità legale internazionale dello Stato in relazione alla protezione dei diritti umani nel caso in cui un’impresa venga controllata dallo Stato, così come nel caso in cui i suoi atti possano essere in qualche modo attribuiti allo Stato. Non solo, mettere al riparo il commissario straordinario da responsabilità penale e vanificare il blocco dell’attività disposto dalla magistratura ha limitato l’accesso al rimedio giudiziale per le vittime, che dovrebbe invece essere garantito secondo quanto previsto dal terzo pilastro dei Principi Guida.

La Corte Europea dei Diritti dell’Uomo non è chiamata a interpretare i Principi Guida, ma assicura il rispetto della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU). Tuttavia, anche se in modo indiretto, la Corte di Strasburgo valuterà tutti i profili sopra esposti, giudicando se vi sia stata o meno una violazione del diritto alla vita, ad un ambiente sano e ad un mezzo di ricorso effettivo per i ricorrenti.

L’esito del giudizio potrebbe avere una diretta rilevanza non solo per le comunità interessate e per i ricorrenti, ma anche per il futuro stesso delle obbligazioni positive degli Stati europei nei confronti delle imprese che hanno una rilevanza strategica per la loro economia. La sentenza di Strasburgo potrebbe infatti dirci fino a che punto uno Stato parte della CEDU possa spingersi a limitare il diritto ad un ambiente sano e alla salute dei propri cittadini per proteggere il benessere economico della nazione.

Per queste ragioni, oggi più che mai, il caso ILVA riveste una particolare importanza non solo per il nostro Paese, ma per il futuro stesso della materia Diritti Umani e Imprese.

Articolo comparso sul Giornale di Mani Tese di maggio 2017

LE DIASPORE AFRICANE SONO PONTI PER LA COOPERAZIONE

Intervista di Giovanni Sartor a Abdou Yabre Mani Tese, insieme ad altre organizzazioni che si occupano di cooperazione internazionale, partecipa dal 2014 al programma Fondazioni for Africa Burkina Faso che prevede un intervento di sviluppo rurale nel paese africano e il coinvolgimento di numerose associazioni della diaspora Burkinabè presenti in Italia. In questo modo Mani […]

Intervista di Giovanni Sartor a Abdou Yabre

Mani Tese, insieme ad altre organizzazioni che si occupano di cooperazione internazionale, partecipa dal 2014 al programma Fondazioni for Africa Burkina Faso che prevede un intervento di sviluppo rurale nel paese africano e il coinvolgimento di numerose associazioni della diaspora Burkinabè presenti in Italia. In questo modo Mani Tese ha potuto entrare in contatto con molte di queste realtà, soprattutto a Napoli e Treviso dove ha partecipato e supportato percorsi di formazione e sensibilizzazione con le associazioni, ma non solo. Una di queste realtà è ABREER l’Associazione dei Burkinabè di Reggio Emilia ed Emilia Romagna nata nel 2002 che oggi conta oltre 100 soci e che svolge, tra le altre cose, iniziative in ambito agricolo. Abbiamo intervistato Abdou Yabre, segretario generale dal 2010.

Puoi brevemente raccontarci la tua storia, quando sei arrivato in Italia, i motivi che ti hanno spinto a migrare e cosa hai fatto e fai in Italia?

Ho 27 anni, sono nato e cresciuto nella provincia del Boulgou, regione del centro est, in Burkina Faso. Mio padre tanti anni fa è partito per l’Italia per trovare un lavoro e aiutare la famiglia rimasta a casa. Nel 2008 mi ha proposto di raggiungerlo a Reggio Emilia. In Italia mi sono diplomato come perito elettrotecnico e oggi lavoro come operaio. Sono anche mediatore culturale e linguistico e impegnato in varie associazioni di burkinabè sia in Italia sia all’estero.

Nell’ambito della cooperazione internazionale si parla sempre più del ruolo delle diaspore nello sviluppo del continente africano, cosa ne pensi?

Penso che le diaspore africane in Europa possano svolgere un ruolo molto importante nella cooperazione internazionale, quello del tramite, del ponte e di facilitatore-mediatore. I migranti sono “cooperanti” che conoscono bene le due realtà (il paese di accoglienza e quello di provenienza). Valorizzare il ruolo delle diaspore può dare una svolta positiva nelle politiche di cooperazione con i paesi di origine ricordando comunque che gli immigrati, sia tramite le Associazioni di cui fanno parte sia individualmente, fanno già cooperazione attraverso le loro rimesse e con il trasferimento delle conoscenze ed esperienze acquisite nel paese di accoglienza.

Qual è l’esperienza che state facendo con ABREER rispetto a questo tema?

Qualche anno fa abbiamo avuto un’idea: creare possibilità di lavoro in Italia e nello stesso tempo opportunità per un eventuale rientro in patria. Tutto è nato nel 2010, con la crisi economica, molti di noi hanno perso il lavoro e non riuscivano a trovarne un altro. Allora ci siamo riuniti e su una cosa tutti eravamo d’accordo: dovevamo trovare una strada che potesse darci l’opportunità di reintegrarci nel mondo del lavoro in Italia e, allo stesso tempo, prepararci per poter tornare nel nostro paese di origine con un progetto professionale e di vita. Veniamo da un paese dove l’agricoltura è l’attività economica principale di più dell’80% della popolazione. Abbiamo quindi deciso di formarci in agricoltura sostenibile e nel 2014, grazie ad un finanziamento della Provincia di Reggio Emilia attraverso il Fondo Sociale Europeo, abbiamo organizzato “AgrAfrica“ un corso di formazione in tecniche e modelli di agricoltura biologica e biodinamica al quale hanno partecipato oltre 22 persone. In seguito con la collaborazione del Comune di Reggio Emilia e diverse altre realtà del territorio abbiamo creato un orto nel Parco del Mauriziano dove oggi ABREER produce a chilometro zero e promuove percorsi di formazione per i migranti sull’agricoltura biologica e biodinamica. Stiamo, inoltre, lavorando per portare le attività anche in Burkina Faso. Con Fondazioni For Africa Burkina Faso nel 2016 abbiamo avviato un secondo corso, “AgrAfrica2”, che ha coinvolto 20 cittadini, la maggior parte giovani sotto i 40 anni e 4 donne, originari del Burkina Faso e oggi residenti in provincia di Reggio Emilia.

Oggi in Europa e in Italia si parla molto di Africa, con riferimento alle massicce migrazioni, ma anche come possibile nuova frontiera per gli investimenti delle imprese. Cosa pensi di questi due fenomeni?

Molti dei migranti che arrivano sulle coste italiane provengono dal continente africano come me. In tanti perdono la vita in questo disperato viaggio e altrettanti, grazie ad un colpo di fortuna, arrivano in Italia o in altri paesi europei e a questa situazione né l’Italia né l’Europa possono rimanere indifferenti. Questi arrivi stanno cambiando le modalità di gestione del fenomeno migratorio in Italia, perché ci sono sempre più nuovi cittadini con bisogni ed esigenze diverse: dalla ricerca di protezione a quella di trovare migliori condizioni di vita, tutti con la speranza di trovare soluzioni in questo Paese. Purtroppo, a mio avviso, gli sbarchi non si possono controllare e sono anche difficili da prevenire perché le ragioni di ciascun viaggio sono diverse. Certo bisognerebbe prima di tutto favorire la semplificazione dei processi di richiesta di visto d’ingresso in Italia e in Europa per motivi di lavoro, questo eviterebbe molte delle stragi che avvengono nel Mar Mediterraneo. Si potrebbe, inoltre, con una politica di cooperazione “onesta” tra l’Africa e l’Europa, provare a gestire il fenomeno. Una cooperazione “onesta” significa anche la valorizzazione delle competenze degli immigrati già presenti in Europa, coinvolgendoli nei vari percorsi e progetti di sviluppo con l’Africa, ma significa anche, e qui mi collego alla seconda domanda, cominciare a guardare all’Africa come un continente dove andare a fare business e affari, dove fare investimenti seri. L’obiettivo deve essere quello di creare posti di lavoro sviluppando programmi di crescita e di occupazione giovanile, incoraggiando così le persone a rimanere piuttosto che partire. Io penso che un imprenditore europeo che deciderà di investire in Africa lo dovrà fare con le stesse intenzioni che avrebbe in Giappone o in America: si deve pensare all’Africa come un continente dove poter andare a fare affari, a fare impresa e non solo a portare aiuto facendo opere di beneficenza e carità. Non si deve, d’altra parte, andare in Africa con l’obiettivo di fare profitti solo per sé, rischiando così di trasformare l’investimento in una sistema di sfruttamento.

Articolo comparso sul Giornale di Mani Tese di dicembre 2016

LA DANZA DEL RACCOLTO DEI BAMBINI CAMBOGIANI

La “Danza del Raccolto” è una danza tradizionale che insegna ai bambini vittime di sfruttamento solidarietà, spirito di gruppo e legame con le radici.

Sono sempre di più i bambini e le bambine assistiti presso il Centro di accoglienza per le vittime di traffico e sfruttamento sostenuto da Mani Tese a Poipet, in Cambogia.
A Maggio 2017, Damnok Toek, l’ONG partner di progetto, ha prestato soccorso a 31 bambini e accolto tre nuovi casi presso la struttura. Visto l’afflusso crescente di bambini, Damnok Toek sta promuovendo, nell’ambito del loro percorso di recupero e guarigione, una serie di attività che aiutino le piccole vittime di sfruttamento ad acquisire forza e indipendenza ed a aumentare la propria resilienza.

Nel mese di maggio una di queste attività è stata la “Danza del Raccolto”. Si tratta di una danza in stile tradizionale praticata a lungo dal popolo Khmer e dai suoi antenati per celebrare il compimento del raccolto. Questa danza insegna la solidarietà all’interno del lavoro di squadra ed è utile per creare nei bambini un legame con le proprie radici oltre che un senso di comunità e di spirito di gruppo fra di loro.

La maggior parte dei bambini dapprincipio si è dimostrata timida, imbarazzata ed esitante ma, dopo tre giorni, tutti sono stati in grado di danzare esibendosi all’interno del Centro. Per festeggiare il loro successo, è stata programmata un’altra esibizione che si è tenuta il 1 giugno durante la Giornata Internazionale dei Bambini.

IMPRESE E DIRITTI UMANI: SENZA REGOLE VINCE IL PIÙ FORTE

Da oltre trent’anni ormai le politiche economiche dei governi occidentali si concentrano sulla necessità di favorire il settore privato, identificando benessere sociale e crescita delle imprese. Ultimamente questa strategia è stata ulteriormente estesa alla scala globale, investendo anche il settore della cooperazione internazionale. Secondo questa logica gli investimenti porterebbero ai Paesi “poveri” quei capitali di […]

Da oltre trent’anni ormai le politiche economiche dei governi occidentali si concentrano sulla necessità di favorire il settore privato, identificando benessere sociale e crescita delle imprese. Ultimamente questa strategia è stata ulteriormente estesa alla scala globale, investendo anche il settore della cooperazione internazionale. Secondo questa logica gli investimenti porterebbero ai Paesi “poveri” quei capitali di cui hanno bisogno, attivando così virtuosi processi di sviluppo.

Ma è sempre così? Gli investimenti globali delle imprese si traducono automaticamente in benessere per le popolazioni locali, secondo una mitica dinamica “win-win”, nella quale tutti risultano vincenti? No, non è sempre una storia virtuosa quella degli investimenti nei paesi del Sud globale. In questi anni abbiamo raccontato molte volte come l’azione di imprese multinazionali si sia sviluppata in violazione dei più elementari diritti umani e producendo danni all’ambiente e alle comunità locali. Senza una regolamentazione globale, quindi, è più che probabile che dietro la retorica “win-win” si nasconda la più vecchia e dannosa dinamica della competizione al ribasso, un semplice tentativo di conquistare i nuovi mercati dei Paesi “in via di sviluppo”.

Al momento queste regole si possono intravedere nei “Principi Guida delle Nazioni Unite per le Imprese e i Diritti Umani”. Nulla di veramente impegnativo, perché su scala globale prevale ancora la logica miope che le regole facciano male all’economia, ma per la prima volta sono stati fissati tre principi cardine: il dovere degli stati di proteggere le loro popolazioni, la responsabilità delle imprese di rispettare i diritti umani anche nei paesi esteri e il diritto delle popolazioni vittime di violazione dei diritti umani ad avere accesso a forme di risarcimento.

Da qui si parte per chiedere di più. Per chiedere che questi principi guida siano tradotti in indicazioni operative e cogenti per gli stati e per le imprese che agiscono su scala globale.

La cooperazione esiste solo insieme alle regole. Perché senza regole vince sempre il più forte.

Articolo comparso sul Giornale di Mani Tese di maggio 2017

GUINEA BISSAU: CONSEGNATI I PRIMI 100 DIPLOMI DEL CORSO DI INFORMATICA

Venerdì 14 luglio abbiamo consegnato i primi 100 certificati ai ragazzi che hanno frequentato il corso di informatica del progetto “Antula è giovane!”

Guinea Bissau. Venerdì 14 luglio abbiamo consegnato i primi 100 certificati di partecipazione ai ragazzi che hanno frequentato il corso di informatica previsto dal progetto “Antula è giovane!“.

Con questo progetto abbiamo dinamizzato un centro giovanile, abbiamo offerto opportunità di formazione e abbiamo aiutato la reintegrazione dei migranti di ritorno.

Oltre ai 100 studenti del corso e alle loro famiglie, alla cerimonia – che si è trasformata in una grande festa! – erano presenti anche le autorità tra cui lo IOM (Organizzazione Internazionale per le Migrazioni, finanziatore del progetto) Guinea Bissau.

La prossima tappa è prevista per il mese di agosto in cui consegneremo i restanti 100 diplomi.

consegna diplomi_guinea bissau_mani tese_2017

consegna 100 diplomi_guinea bissau_mani tese_2017

AFRICA, IL RUOLO E IL VALORE DEI SOGGETTI LOCALI

Da diversi anni l’Africa è per Mani Tese il continente con il maggior numero di progetti e risorse allocate. Attualmente siamo presenti in cinque Paesi.

di GIOVANNI SARTOR, responsabile area Cooperazione Internazionale*

Da diversi anni l’Africa è per Mani Tese il continente con il maggior numero di progetti e risorse allocate. Si è presenti in cinque Paesi: Benin, Burkina Faso, Guinea Bissau, Kenya e Mozambico per un totale di 11 progetti, tutti di dimensione medio-grande, attualmente in corso. In questi Paesi, con l’eccezione del Mozambico, Mani Tese è operativa con un suo ufficio e un suo staff. I progetti sono tendenzialmente pluriennali e sono cofinanziati dall’Unione Europea, l’Agenzia Italiana per la Cooperazione allo Sviluppo, la Cooperazione Decentrata e le Fondazioni di origine bancaria, oltre a privati cittadini.

Il settore di intervento più importante è quello della sovranità alimentare, che comprende azioni di sviluppo rurale con un approccio che promuove i piccoli allevatori e produttori agricoli, l’agroecologia, la diversificazione produttiva, il rafforzamento delle organizzazioni dei contadini, il ruolo delle donne e la finanza rurale, con un’attenzione particolare alle diverse fasi delle filiere dalla produzione alla trasformazione e commercializzazione dei prodotti. Altri interventi riguardano la protezione dei diritti umani, la giustizia ambientale, lo sviluppo di microimprese e le energie rinnovabili. Vi sono alcune caratteristiche che contraddistinguono l’operato di Mani Tese in Africa che è possibile riassumere in tre parole: il partenariato, la presenza e lo scambio.

Il partenariato

Da sempre Mani Tese opera in Africa supportando e valorizzando soggetti locali rappresentanti della società civile inseriti nel contesto di riferimento e profondi conoscitori delle problematiche e delle dinamiche del loro Paese. Si è passati però negli ultimi anni da forme di partenariato “semplice”, dove Mani Tese si rapportava ad uno o più soggetti locali con i quali implementava i diversi interventi, ad un partenariato complesso. Esso coinvolge più soggetti, non solo locali, ma anche italiani o di altri Paesi, spesso altre ONG ma anche realtà organizzate come Slow Food, Università, Imprese, Scuole. Mani Tese in alcuni casi ha la responsabilità di coordinare il progetto, in altri è partner per un’azione particolare. Ogni soggetto mette a disposizione le proprie expertise e capacità. Il ruolo di Mani Tese, quando ha la responsabilità del coordinamento, è quello del regista che conosce il contesto, gli attori locali e le diverse problematiche e può far da tramite tra le comunità target e i diversi soggetti esterni, che altrimenti farebbero fatica ad intervenire in maniera puntuale e corretta. Ed è questo un ruolo che sempre più Mani Tese dovrà svolgere in futuro: il nodo principale di una rete di relazioni e collaborazioni che vede diversi soggetti intervenire su un determinato progetto, che il nodo stesso garantisce si muovano verso un obiettivo comune, finalizzato alla risposta dei bisogni espressi dalle comunità locali con le quali si opera.

La presenza

Un’altra caratteristica fondamentale che Mani Tese ha rilanciato in questi ultimi anni è la presenza nei Paesi. Una presenza leggera, che si inserisce nel contesto e non si sostituisce ai soggetti locali, ma serve invece a rafforzare e rendere effettiva la collaborazione reciproca. In alcuni casi i partner locali sono gruppi e associazioni di villaggio, di donne come di contadini, ed è Mani Tese che segue l’evoluzione dell’intervento; in altri casi è una realtà più strutturata che esegue direttamente il progetto con il supporto dell’équipe di Mani Tese.

La presenza non è solo legata alla gestione delle azioni già previste ma è funzionale allo sviluppo di nuove idee progettuali sulla base dei bisogni che si rilevano ogni giorno e delle relazioni che si costruiscono sul campo con gli altri attori, siano essi locali o internazionali, con i quali già si collabora ma anche con soggetti nuovi che si incrociano nella stessa area di intervento o alle riunioni di coordinamento. La presenza infatti permette di essere presenti ai tavoli di confronto con altri attori della società civile, in alcuni casi anche con le istituzioni, ti dà l’opportunità di comprendere le priorità e le analisi che vengono fatte su di un determinato contesto e anche esprimere la propria opinione, in quanto soggetto riconosciuto e legittimato.

Questa dinamica è maggiormente efficace in Paesi piccoli come per esempio la Guinea Bissau o a livello di regioni dove Mani Tese opera. In Benin e Kenya, per esempio, i nostri uffici non sono nella capitale ma nelle regioni dove realizziamo gli interventi. Questo facilità le relazioni anche con le autorità locali, sempre più importanti dopo i processi di devolution che hanno coinvolto soprattutto il Kenya con l’istituzione delle contee ma anche il Burkina Faso e il Benin. La presenza è infine necessaria per garantire continuità nel tempo agli interventi: una cooperazione mordi e fuggi, che purtroppo esiste ed è spesso causata dal sistema dei finanziamenti spesso previsti senza una strategia di lungo periodo, non va da nessuna parte.

Lo scambio

Questo è un ambito che è sempre stato presente nel lavoro di Mani Tese: si pensi ad esempio ai seminari di approfondimento che spesso sono stati realizzati nel continente africano come le visite ai progetti dei gruppi locali che li sostenevano. Oggi lo scambio resta importante e in futuro sarà oggetto di sempre maggior attenzione. Non è ancora inserito in una strategia consolidata ma in questi ultimi anni vi sono diversi esempi del lavoro fatto. Il gruppo di Treviso, grazie alle relazioni avviate con le associazioni della diaspora del Burkina Faso in Italia, ha realizzato un primo corso per il rafforzamento delle capacità e competenze di donne immigrate intitolato “Quello che possono le mani. Incontri di donne burkinabé e donne italiane per condividere sogni e saperi”, percorso parallelo ad attività simili che si svolgono con le donne in Burkina Faso.

Quest’estate si è svolto il primo campo estivo in Kenya per volontari, che ha permesso di visitare i progetti realizzati da Mani Tese nel Paese e utilizzare le infrastrutture di accoglienza realizzate da un progetto di qualche anno fa e oggi gestite dalle comunità locali. Nell’ambito dell’educazione alla cittadinanza mondiale è stata realizzata un’azione di scambio e formazione degli insegnanti italiani e beninesi con un corso realizzato in Benin. Per quanto riguarda la giustizia ambientale i casi dei progetti in Guinea Bissau e Kenya sono stati presentati alla Summer School organizzata da Mani Tese in Italia e il caso del Kenya è stato poi scelto per un approfondimento.

L’idea che piano piano sta maturando è quella di andare verso un rapporto di reciprocità dove non esistono più progetti in Italia e progetti in Africa, ma programmi e una strategia che affronta problematiche sempre più globali che coinvolgono tutti con interventi appropriati ai diversi contesti e target di riferimento e coordinati da un’unica regia e con uno stesso comune obiettivo.

*Articolo comparso sul Giornale di Mani Tese di dicembre 2016

IN BENIN SONO ARRIVATE LE ATTREZZATURE PER TRASFORMARE SOIA E MANIOCA

Molta gioia da parte delle donne produttrici di soia, manioca e fonio per l’arrivo degli attrezzi e degli utensili per la trasformazione dei loro prodotti.

I gruppi di donne che producono manioca a Tigninti nel comune di Natitingou (Benin) lo scorso mese di maggio hanno festeggiato l’arrivo dei macchinari per la trasformazione della manioca: la tritatrice meccanica e la pressa a vite.

Anche le donne dei gruppi produttori di soia hanno ricevuto i kit completi di utensili per la trasformazione del loro prodotto, ma nello stesso tempo si sono mostrate interessate anche alla produzione e alla trasformazione della manioca. Ciò è dovuto al fatto che i prodotti derivati della manioca (gari e tapioca) costituiscono sia una fonte di reddito per le donne sia una garanzia di sicurezza alimentare per le famiglie. Le donne dei “gruppi Soia” vogliono quindi vincere la scommessa di abbracciare entrambe le attività di trasformazione perché, come dicono loro :“Il gari ha cacciato la miseria dai nostri villaggi. Non si è più costretti a vivere periodi di scarsità di cibo”.

In questo stesso mese anche il gruppo di donne produttrici di manioca di Tampaatou, nel comune di Toucountouna, ha ricevuto una pressa a vite che completa l’equipaggiamento, dopo che lo scorso mese di dicembre avevano ricevuto la tritatrice meccanica.

Infine sono stati consegnati alle responsabili dei dieci gruppi di donne del comune di Toucountouna le attrezzature agricole scelte per la produzione del fonio, un cereale tradizionale dalle importanti qualità nutrizionali, la cui produzione Mani Tese vuole sostenere in collaborazione con il comune di Toucountouna. Sono state distribuite zappe e falcetti che serviranno al dissodamento, all’aratura e alla lavorazione dei campi.

C’è molta gioia per l’arrivo degli attrezzi. Ora non resta che da aspettare la pioggia, purtroppo in ritardo anche quest’anno!

Scopri di più sul progetto PROTAGONISMO AL FEMMINILE E SVILUPPO ECONOMICO IN BENIN

consegna attrezzature manioca e soia_benin_mani tese_2017
Consegna dei kit di attrezzature e utensili per la trasformazione della manioca e della soia a Tigninti
donne ricevono atrezzi per Fonio_benin_mani tese_2017
Alcune responsabili del gruppo di donne produttrici di Fonio ricevono gli attrezzi per l’aratura
zappe per fonio_benin_mani Tese_2017
Zappe per il fonio