COSÌ IL BUSINESS DETTA LE REGOLE ALLA POLITICA

di ELIAS GEROVASI, responsabile Progettazione e Partenariati di Mani Tese NELL’UNIONE EUROPEA LE LOBBY SONO 9772, IPERATTIVE SOPRATTUTTO NEL SETTORE ENERGETICO, TECNOLOGICO E BANCARIO. GLI INCONTRI CON L’ESECUTIVO UE SONO 7000 ALL’ANNO E NEL 75% DEI C ASI RIGUARDANO LA GRANDE INDUSTRIA. INTANTO A LIVELLO GLOBALE NON ESISTONO ANCORA REGOLAMENTAZIONI VINCOLANTI. Se volessimo dare una […]

di ELIAS GEROVASI, responsabile Progettazione e Partenariati di Mani Tese

NELL’UNIONE EUROPEA LE LOBBY SONO 9772, IPERATTIVE SOPRATTUTTO NEL SETTORE ENERGETICO, TECNOLOGICO E BANCARIO. GLI INCONTRI CON L’ESECUTIVO UE SONO 7000 ALL’ANNO E NEL 75% DEI C ASI RIGUARDANO LA GRANDE INDUSTRIA. INTANTO A LIVELLO GLOBALE NON ESISTONO ANCORA REGOLAMENTAZIONI VINCOLANTI.

Se volessimo dare una definizione neutra di lobbismo, potremmo indicarlo in termini generali come “l’insieme delle tattiche e strategie con le quali i rappresentanti dei gruppi di interesse (i lobbisti) cercano di influenzare a beneficio dei gruppi rappresentati la formazione ed attuazione delle politiche pubbliche”.

Nonostante una pessima reputazione presso l’opinione pubblica, si tratta di un’attività del tutto lecita se non addirittura auspicabile. Il lobbismo infatti non è patrimonio esclusivo dei poteri occulti e viene praticato quotidianamente da organizzazioni di diversa natura, come ad esempio le società di consulenza in materia di affari pubblici, gli studi legali, le ONG, i centri di studi, le aziende o le associazioni di categoria.

Eppure c’è chi sostiene che il lobbismo, soprattutto quello esercitato dal mondo business, abbia cambiato per sempre la politica, le sue dinamiche, il suo reale potere. Se un tempo le lobby reagivano a specifiche sollecitazioni, spesso quando venivano toccati direttamente gli interessi di una certa categoria, oggi esercitano un’azione onnipresente e proattiva nei confronti della politica. Il modo in cui le grandi corporation e le aziende interagiscono con i governi (nazionali e sovranazionali) non si limita più a proteggere gli spazi del business; oggi il mondo profit cerca nei governi un partner da coinvolgere a 360° alla ricerca di un’interazione sistemica tra business e politica.

Un esempio concreto è l’iperattivismo delle corporation transnazionali sulle istituzioni comunitarie, unico fenomeno osservabile con una certa evidenza grazie alla costituzione del Registro europeo dei lobbisti, che si riferisce sia alla Commissione Europea che all’Europarlamento. Le lobby presenti a Bruxelles sono più di 9000, in un anno gli incontri tenutisi tra l’esecutivo UE e le lobby sono stati oltre 7000 e nel 75% dei casi si è trattato di incontri con rappresentanti della grande industria. Il registro permette alle organizzazioni di classificarsi in sei macro categorie: società di consulenza, lobbisti interni di aziende, organizzazioni non governative, centri studi, comunità religiose e amministrazioni locali. Oltre la metà (51,07%) delle 9.772 organizzazioni registrate rientra nella seconda categoria: lobbisti interni e associazioni di categoria, commerciali e professionali.

Secondo i dati del registro, i settori di business più presenti nelle istituzioni attraverso i propri lobbisti sono quello energetico (petrolifero), tecnologico (internet) e bancario. Nella classifica sempre aggiornata da Transparency international, a investire milioni in lobbying sono le grandi corporation come Google, Airbus, Microsoft, Unicredit, IBM, Deutsche Telekom, Facebook, ecc. Tra i nomi italiani i più presenti sono stati Confindustria, Enel, Eni. In generale il tema forte delle lobby italiane è quello energetico tanto che in classifica ci sono anche Edison, Snam e Terna.

Un recente rapporto sulle lobby in Italia e in Europa, pubblicato da OpenPolis, dipinge un quadro ancora poco trasparente dell’attività dei cosiddetti portatori d’interesse in 22 Stati UE su 27. In assenza di interventi legislativi, nel 31% dei Paesi sono stati avviati percorsi di autoregolamentazione. L’Italia è ferma ad alcune prime sperimentazioni. Nel 2016 la giunta per il regolamento di Montecitorio ha approvato la Regolamentazione dell’attività di rappresentanza di interessi nella Camera dei deputati. A inizio settembre dello stesso anno, il ministro per lo Sviluppo economico ha lanciato un registro per la trasparenza dello stesso MISE che conta ad oggi poco più di 500 soggetti. Nel frattempo si sta muovendo anche il Parlamento, con alcune proposte di legge che andrebbero verso l’introduzione di un registro obbligatorio.

A livello internazionale il problema dell’influenza crescente delle lobby delle multinazionali è ben nota già dalla fine degli anni ‘70 quando le Nazioni Unite istituirono un apposito gruppo di studio per monitorare i tentativi di pressione del mondo business. Uno dei casi più documentati fu quello legato alle aziende produttrici di tabacco che hanno operato per molti anni con il deliberato proposito di sovvertire gli sforzi dell’OMS per regolamentare l’uso del tabacco.

A partire dagli anni ‘80 il fronte dei diritti umani è sicuramente quello su cui le corporation hanno concentrato il loro massimo sforzo, da quando di fatto si è aperto il dibattito internazionale sugli strumenti giuridicamente vincolanti per regolamentare le imprese transnazionali.

Uno dei più grandi risultati ottenuti dalle lobby del business contro l’introduzione di regolamentazioni internazionali vincolanti per le aziende in sede Nazioni Unite è stato messo a segno in occasione della Conferenza delle Nazioni Unite su Ambiente e Sviluppo (UNCED) – il ‘Summit della Terra’ – tenutasi a Rio de Janeiro nel 1992. Lo UNCTC aveva elaborato un serie di raccomandazioni sulle “società transnazionali e lo sviluppo sostenibile” da inserire nel programma d’azione dell’Agenda 21. Ma una coalizione di governi occidentali e lobbisti aziendali è riuscita a ottenere che questo capitolo sulla responsabilità ambientale delle imprese transnazionali fosse rimosso in blocco dall’ordine del giorno della conferenza.

Quella dimostrazione di forza del lobbismo globale segnò un punto di svolta anche nelle ambizioni delle stesse Nazioni Unite in materia di business e diritti umani. L’influenza delle multinazionali infatti è aumentata in modo significativo con l’arrivo di Kofi Annan al Segretariato generale dell’ONU nel 1997. Fu proprio Annan con la sua partecipazione al World Economic Forum di Davos a segnare la transizione “from regulation to partnership” chiamando a raccolta 25 alti dirigenti aziendali, compresi i rappresentanti di Coca-Cola, Unilever, Mc- Donalds, Goldman Sachs e British American Tobacco. Pochi anni dopo sempre a Davos fu lo stesso Kofi Annan a lanciare il Global Compact, un’iniziativa globale che ha spostato l’attenzione sui valori e l’apprendimento comune, piuttosto che sulle regole e sul diritto. Nel suo discorso di presentazione non mancò di sottolineare quanto fossero state forti e tenaci le pressioni dei gruppi d’interesse sui tentativi di regolamentazione delle aziende transnazionali in materia di violazione dei diritti umani.

Articolo comparso sul Giornale di Mani Tese di maggio 2017

GIORNATA MONDIALE DELL’ALIMENTAZIONE: MANGIA, DONA, AMA!

Il 16 ottobre si celebra la Giornata Mondiale dell’Alimentazione.
Festeggiala con noi e partecipa alla nostra campagna “MANGIA, DONA, AMA”

Il 16 ottobre si celebra la Giornata Mondiale dell’Alimentazione.
Festeggiala con noi e partecipa alla nostra campagna “MANGIA, DONA, AMA“: potrai aiutarci a sostenere i nostri progetti in Guinea Bissau organizzando cene, aperitivi, show cooking, corsi di cucina o un qualsiasi evento conviviale, che diventerà un’occasione per garantire cibo equo, sano e sostenibile per tutti!
I fondi raccolti grazie alla tua iniziativa andranno a sostegno dei nostri progetti in Guinea Bissau per lo sviluppo rurale e la sovranità alimentare.

Scopri tutti i modi in cui puoi aiutarci:
https://manitese.it/cosa-puoi-fare-tu/mangia-dona-ama/

#MangiaDonaAma #GiornataAlimentazione2017 #WorldFoodDay2017

MANGIA DONA AMA_MANI TESE_2017

ACHILLE TEPA CANDIDATO AL PREMIO VOLONTARIATO FOCSIV!

Achille Tepa è un uomo straordinario che lavora con noi da diversi anni in #Benin ed è candidato al PREMIO DEL VOLONTARIATO INTERNAZIONALE 2017 di Focsiv!

“Ho lasciato volontariamente la funzione pubblica per lavorare a Mani Tese dal gennaio 1992 e sono stato nominato rappresentante del Benin il 1 agosto 1995. Certo, la proposta di lavorare per Mani Tese mi era stata fatta da Silvano Orlandi (ex Presidente), ma la decisione di accettare l’incarico abbandonando la funzione pubblica è stata una scelta personale molto rischiosa all’epoca.
Oggi, sono felice di ciò che posso fare per il mio paese grazie a Mani Tese.”

Achille Tepa è un uomo straordinario che lavora con noi da diversi anni e sta facendo tantissimo per il suo popolo in #Benin. Crediamo meriti davvero di vincere il PREMIO DEL VOLONTARIATO INTERNAZIONALE 2017 di Focsiv, a cui è candidato.

Se volete votarlo, ecco come fare:

COME VOTARE:
1. Registrati sul sito http://premiodelvolontariato.focsiv.it/it o accedi se hai già un account
2. Scegli ACHILLE YOTTO TEPA nella sezione Volontari del Sud
3. VOTA e invita i tuoi amici a fare lo stesso

Leggi la scheda di Achille e guarda il video della sua candidatura!

 

achille tepa_mani tese_2017

SFRUTTA ZERO, I POMODORI CHE COMBATTONO LE NUOVE SCHIAVITÙ

Quando arriviamo per la conferenza stampa, alla Masseria Boncuri tira un’aria da momento importante, silenziosa e sospesa. I ragazzi dell’Associazione Diritti a Sud chiacchierano nel portico con i migranti come hanno sempre fatto in questi mesi, ma non c’è troppa voglia di ridere o scherzare. La presidentessa Rosa Vaglio ci accoglie comunque con un sorriso […]

Quando arriviamo per la conferenza stampa, alla Masseria Boncuri tira un’aria da momento importante, silenziosa e sospesa. I ragazzi dell’Associazione Diritti a Sud chiacchierano nel portico con i migranti come hanno sempre fatto in questi mesi, ma non c’è troppa voglia di ridere o scherzare.

La presidentessa Rosa Vaglio ci accoglie comunque con un sorriso e ci guida all’interno. L’ingresso è tappezzato di cartelli con le regole e gli orari della casa, scritti in diverse lingue.

Da Novembre 2016, quando è stata riaperta, la struttura ospita 16 persone, quelle rimaste nelle campagne intorno a Nardò (in provincia di Lecce) dopo la chiusura della tendopoli dei lavoratori stagionali a fine settembre. In realtà, ci spiega Rosa, in 7 mesi ne sono state accolte molte di più, almeno una quarantina, grazie al lavoro dei volontari che hanno abitato fianco a fianco con gli accolti garantendo la propria presenza ventiquattr’ore su ventiquattro. Del resto Boncuri non è un posto qualunque. Le masserie sono nate come strutture legate al sistema del latifondo per ospitare contadini e braccianti stagionali, e molte di esse mantengono la loro funzione originaria. Solo che quelli che riempiono d’estate i campi del sud Italia oggi sono soprattutto migranti che arrivano per lavorare a qualsiasi condizione, diventando facile preda di forme di sfruttamento, e in alcuni casi di schiavitù. Fu proprio Boncuri il luogo simbolo dello sciopero dei braccianti del 2011, guidato da Yvan Sagnet, che portò l’attenzione dei media italiani sul fenomeno e segnò l’inizio di un lungo percorso fino alla legge contro il caporalato dell’Ottobre 2016.

Al piano terra, nel salone di fianco alle cucine, è stato allestito lo spazio per accogliere pubblico e giornalisti. Diritti a Sud ha convocato la conferenza stampa insieme al Consiglio italiano per i Rifugiati (CIR) per spiegare le ragioni della decisione di non proseguire nella gestione della struttura. Nei 7 mesi di gestione, affermano, l’amministrazione li ha lasciati soli, provvedendo solo in minima parte al sostegno delle necessità economiche di gestione a cui si è aggiunto un inverno inaspettatamente rigido, che ha visto perfino la neve cadere nel Leccese. Ma più di ogni altra cosa brucia la mancanza di progettualità, la situazione di provvisorietà continua che determina il verificarsi ogni anno dello stesso rituale di sfruttamento, delle stesse emergenze, degli stessi interventi straordinari.

“Con la fine del Ramadan, a partire dall’ultima settimana di Giugno il grosso degli stagionali arriverà come ogni anno per lavorare nei campi”, dice Angelo Cleopazzo, vicepresidente dell’associazione. “Nonostante le proposte che abbiamo portato al tavolo territoriale per l’accoglienza dei lavoratori stagionali non è stato fatto nulla per scongiurare il ripetersi di un’emergenza che si potrebbe e dovrebbe ampiamente prevedere”. È questo più di ogni altro il motivo che ha spinto Diritti a Sud a lasciare la gestione della masseria Boncuri.

“Ma ciò non significa che staremo con le mani in mano”, continua Angelo. “Il nostro unico riferimento sono le persone, e ad esse continuiamo a rivolgerci. È dal 2009 che siamo presenti a fianco dei migranti e continueremo a fornire assistenza e accompagnamento anche fuori dalla masseria, come sempre”.

Ma i ragazzi si Diritti a Sud non si fermano a questo: da qualche anno hanno in progetto di andare oltre l’accoglienza e l’assistenza e partire dal punto chiave, il lavoro. “L’idea ci è arrivata un paio di anni fa grazie agli amici dell’associazione Nezanet-Solidaria di Bari” racconta Rosa. “Vogliamo produrre passata di pomodoro tramite una filiera pulita, dalla semina alla trasformazione e la vendita. Siamo partiti nel 2015 con 2.500 bottiglie di passata di alta qualità senza sfruttamento del lavoro e lo scorso siamo arrivati a 13.000 bottiglie”.

L’idea ha preso forma con il progetto Sfrutta Zero, che si basa su un principio semplice: dimostrare che è possibile creare occasioni di lavoro dignitose senza distinzioni tra migranti, contadini e giovani precari, in un luogo dove la disoccupazione giovanile supera abbondantemente il 40%. E così i ragazzi di Diritti a Sud si sono organizzati, hanno affittato un terreno e hanno piantato le prime piantine finanziando l’avvio dell’attività tramite il crowdfunding. Mentre ci accompagnano al campo, più di un ettaro quest’anno, la soddisfazione e l’orgoglio sono evidenti. A comporre i filari ci sono 15.000 piantine di pomodoro Penny, più 2.500 di Fiaschetto e Regina. La produzione è portata avanti con il supporto di un agronomo che coordina il gruppo che segue i lavori agricoli, applicando metodi naturali. Altri si occupano di distribuzione e logistica, altri ancora di commercializzazione e vendita. Il risultato è un prodotto che da simbolo del caporalato può diventare simbolo di emancipazione, un messaggio molto potente vista l’attenzione mediatica sul tema.

La forza comunicativa di un pomodoro pulito e controcorrente sembra riflettersi positivamente sui circuiti di vendita. Il marchio Sfrutta Zero distribuisce le proprie passate su tutto il territorio nazionale, sfruttando le reti di acquisto eticamente orientate già esistenti. A differenza di altri progetti che mettono al centro l’agricoltura come strumento di coesione sociale, Diritti a Sud vende meno sul territorio locale e più in giro per l’Italia, dove si propone come buona pratica di cambiamento. Assieme al pomodoro la gente acquista anche la sua storia, testimoniata dai volti che compaiono sulle etichette e dai video postati sui social.

Un messaggio positivo, di attivazione e di proposta, riconosciuto nel 2017 a Diritti a Sud e al progetto Sfrutta Zero dal Premio Internazionale all’impegno sociale “Rosario Livatino – Antonino Saetta – Gaetano Costa”, uno dei più importanti premi antimafia che sostiene “l’impegno dei cittadini onesti, che quotidianamente operano per assicurare la civile convivenza”.

Articolo comparso su BioEcoGeo di agosto/settembre 2017

“L’ORDINE DELLE COSE”, IL FILM SUI MIGRANTI E CHI LAVORA PER FERMARLI

Andrea Segre si cimenta in una narrazione introspettiva che esplora il punto di vista dei funzionari inviati in Libia a negoziare con le autorità locali

di Martina Milos

La questione della collaborazione tra Italia e Libia per chiudere la rotta del Mediterraneo centrale è stata un punto cruciale del dibattito estivo sulla gestione dei flussi migratori: l’uscita nelle sale de “L’ordine delle cose” di Andrea Segre non poteva capitare in un momento più adatto. Da anni impegnato nel racconto delle migrazioni, questa volta il regista si cimenta in una narrazione introspettiva che esplora il punto di vista dei funzionari inviati in Libia a negoziare con le autorità locali.

Attraverso gli occhi di Corrado, poliziotto specializzato in missioni internazionali, lo spettatore scopre una Libia fuori controllo, in cui il potere è conteso tra una manciata di uomini forti in lotta tra loro e i più deboli diventano fonte di guadagno attraverso estorsioni e lavoro forzato. È la Libia di cui già parlava il dossier ONU del dicembre 2016 e su cui continua a concentrarsi l’attenzione di numerose ONG e osservatori internazionali. Andrea Segre la ricostruisce basandosi sui racconti di centinaia di sopravvissuti (alcuni dei quali recitano nel ruolo dei prigionieri di un centro di detenzione) e sulla documentazione raccolta dal collega Khalifa Abo Khraisse, anch’egli attore nel film, che da anni lavora come giornalista per documentare le condizioni dei migranti in Libia.

Di fronte alle palesi violazioni dei diritti umani con cui è costretto a confrontarsi, il protagonista mantiene un atteggiamento distaccato e professionale, ma l’equilibrio raggiunto in anni di esperienza vacilla davanti alla richiesta d’aiuto di una giovane migrante somala. Dal momento in cui al “flusso” da fermare si sostituiscono un volto e una storia, per Corrado l’accettazione pragmatica dell’ordine delle cose cede il passo ad una dolorosa riflessione sui limiti del compromesso etico su cui si basa la legittimità della sua missione.

Il 7 settembre, giorno in cui il film è stato presentato al Festival di Venezia, il presidente di Medici Senza Frontiere Internazionale ha scritto una lettera aperta ai capi di stato e di governo europei, che conclude chiedendo al Presidente del Consiglio italiano se le violenze che i migranti subiscono in Libia siano davvero il prezzo che, per fermare i flussi, i governi europei sono disposti a pagare. “L’ordine delle cose” pone allo spettatore la stessa domanda, offrendo spunti per cercare insieme una risposta diversa di quella che finora di fatto abbiamo dato.

PRESENTATI A MILANO I RISULTATI DEL PROGETTO SOBERANOS IN GUATEMALA

Durante il V Convegno del Coordinamento Universitario Cooperazione allo Sviluppo (CUCS), Giulio Castelli e Beatrice Laurita hanno presentato in un pannello esplicativo il lavoro realizzato dal Dipartimento di Gestione dei Sistemi Agrari, Alimentari e Forestali (GESAAF) dell’Università degli Studi di Firenze nell’ambito del progetto SOBERANOS “Diritto al cibo per i contadini del Corredor Seco,  Regione […]

Durante il V Convegno del Coordinamento Universitario Cooperazione allo Sviluppo (CUCS), Giulio Castelli e Beatrice Laurita hanno presentato in un pannello esplicativo il lavoro realizzato dal Dipartimento di Gestione dei Sistemi Agrari, Alimentari e Forestali (GESAAF) dell’Università degli Studi di Firenze nell’ambito del progetto SOBERANOS “Diritto al cibo per i contadini del Corredor Seco,  Regione Occidentale in Guatemala”, in partenariato con Mani Tese

In particolare, il progetto Soberanos mira alla promozione di una gestione sostenibile della risorsa idrica, anche attraverso l’installazione di sistemi di raccolta dell’acqua piovana.

Nella prima fase del progetto, nel 2014, 34 famiglie beneficiarie, situate nelle comunità di Rodeo e Muyurcò (municipi di Jocotan), sono state oggetto della costruzione di strutture per la raccolta di acqua piovana da tetto; l’acqua viene convogliata in invasi scavati nel terreno e portata agli orti familiari per mezzo di pompe EMAS. Queste ultime sono strumenti molto semplici e a bassissimo costo, facili da realizzare e da mantenere, costruiti con materiali reperibili in loco e pertanto assolutamente sostenibili.

Durante la seconda fase del progetto, dal 26 aprile al 15 maggio 2017, è stata effettuata la diagnostica delle strutture di raccolta dell’acqua piovana precedentemente costruite. Si è, quindi, proceduto con la realizzazione di un cantiere scuola per la costruzione di una cisterna migliorata: la struttura è stata fabbricata con un coronamento di adobe, mattoni di terra cruda prodotti dalla comunità locale di Lantinquin, rivestita con un’intonacatura in argilla e successivamente impermeabilizzata con un telo di polietilene. Si è inoltre realizzato un workshop per la costruzione di una pompa EMAS nella comunità Dos Quebradas.

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AGRICOLTURA: NON SOLO CAPORALATO DIETRO LA FILIERA INIQUA

di FABIO CICONTE, co-fondatore di Terra!* IL QUADRO DI RELAZIONI NEGATIVE E AMBIGUE NELL’AGRICOLTURA ITALIANA È MOLTO AMPIO E ABBRACCIA PRODUTTORI E CONSUMATORI, INDUSTRIA E GRANDE DISTRIBUZIONE. LE DENUNCE DELLA CAMPAGNA #FILIERASPORCA Anche quest’anno le telecamere hanno riversato nelle case degli Italiani le crude immagini girate sui campi del Mezzogiorno. Qui, migliaia di braccianti africani […]

di FABIO CICONTE, co-fondatore di Terra!*

IL QUADRO DI RELAZIONI NEGATIVE E AMBIGUE NELL’AGRICOLTURA ITALIANA È MOLTO AMPIO E ABBRACCIA PRODUTTORI E CONSUMATORI, INDUSTRIA E GRANDE DISTRIBUZIONE. LE DENUNCE DELLA CAMPAGNA #FILIERASPORCA

Anche quest’anno le telecamere hanno riversato nelle case degli Italiani le crude immagini girate sui campi del Mezzogiorno. Qui, migliaia di braccianti africani lavorano a cottimo nella raccolta dei pomodori o delle arance, organizzati in squadre dai cosiddetti caporali e ridotti a dormire in baracche di lamiera lontano dai centri abitati. Nonostante lo scorso ottobre sia finalmente stata approvata la legge sul caporalato, tutto questo potrebbe non bastare a eliminare lo sfruttamento dall’agricoltura italiana.

L’approvazione della legge è senz’altro una buona notizia perché riconosce un fenomeno di dimensioni troppo estese per poter essere ignorato. Modifica in maniera sostanziale l’articolo 603 bis del codice penale (intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro) e, oltre a riformulare il reato di caporalato, allarga le maglie della responsabilità al datore di lavoro che “sottopone i lavoratori a condizioni di sfruttamento approfittando del loro stato di bisogno”. Riconosce cioè che non deve esserci per forza un “caporale” o un’organizzazione criminale perché un bracciante sia sfruttato.

Una legge che però offre risposte insufficienti sulla pratica dell’intermediazione lecita tra domanda e offerta che, non essendo garantita dallo stato, continuerà a essere portata avanti dal “caporale” fino a quando non sarà scoperto.

Ma è soprattutto una legge con un approccio di carattere repressivo, intervenendo quando il fatto è avvenuto e non agendo sulle cause del fenomeno.

Lo sfruttamento del lavoro nei campi è infatti figlio di una serie di concause, difficili da mettere insieme e impossibili da affrontare con un approccio meramente repressivo. Il quadro di relazioni che producono effetti negativi è molto ampio e abbraccia produttori e consumatori, industria e grande distribuzione.

I nodi della filiera

Da queste premesse, due anni fa è partita la campagna #FilieraSporca, promossa dalle associazioni Terra! e daSud con l’obiettivo di seguire a ritroso il percorso che collega il cibo che arriva sulle nostre tavole ai lavoratori agricoli, migranti e non, vittime di un sistema iniquo e intollerabile.

#FilieraSporca è una campagna di pressione pubblica e sensibilizzazione dei cittadini, che abbina il lavoro di indagine sul campo a raccomandazioni politiche tese a riformare le opacità del sistema agroalimentare italiano.

Nei rapporti di ricerca prodotti in questi anni è stato possibile esaminare a fondo la filiera agrumicola e quella del pomodoro da industria. Da tutte le inchieste sul campo è emerso un sistema in crisi profonda, vittima di numerose disfunzioni ad ogni livello. A meno di interventi strutturali, la progressiva industrializzazione dell’agricoltura, la concentrazione delle sementi in mano a poche imprese multinazionali e il controllo della distribuzione in mano a pochi soggetti porteranno alla progressiva trasformazione del cibo in una commodity, una merce standardizzata che perde peculiarità e qualità tipiche del luogo di produzione. Il pomodoro italiano, ad esempio, potrebbe presto rivelarsi tale e quale a quello coltivato in altre parti del mondo, dalla California alla Spagna, dalla Turchia alla Cina.

E questo è un rischio per l’intero comparto agricolo perché non esiste un indirizzo di filiera, ma singoli attori che si muovono sulla base di strategie individuali. Un quadro in cui le regole sono spesso disattese, i contratti stipulati prima della raccolta si trasformano in carta straccia durante il picco della stagione e in cui la presenza di una pletora di intermediari dagli interessi difformi rappresenta un pesante intralcio al corretto funzionamento del sistema.

L’azzardo della GDO

La diffidenza tra imprenditori agricoli e industria di trasformazione riduce il potere contrattuale dei due soggetti nei confronti del terzo grande anello della catena: la Grande Distribuzione Organizzata (GDO), che di fatto ha il controllo quasi totale della filiera. Questo dominio si esprime tramite politiche aggressive come il “sottocosto”. Per offrire al consumatore prodotti sempre più a basso prezzo, la GDO impone all’industria – che si rivale poi sul produttore e a cascata sul bracciante – prezzi di acquisto spesso al limite della sostenibilità. L’unico modo per evitare i contratti capestro, per l’industria, è diventare fornitrice di prodotti a marchio del distributore. Un comparto, quello della “private label”, che in alcuni Paesi europei vale il 50% del mercato agroalimentare ed è in forte crescita anche in Italia, con punte del 25-30%.

Se per molti consumatori tutto ciò può apparire rassicurante, in realtà è un processo che mette in modo meccanismi di standardizzazione e riduzione della biodiversità del cibo, sempre più stretto nella “trappola della commodity” che ha come risultato più evidente la perdita di importanza delle caratteristiche organolettiche del cibo, dei metodi produttivi e degli standard lavorativi. L’unica variabile su cui si gioca la partita è il prezzo.

In questa logica non sorprende che tra i gruppi della grande distribuzione le aste on line al doppio ribasso si stiano diffondendo come pratica di acquisto di diverse varietà merceologiche. Caffè, olio, pomodoro, legumi e conserve di verdura sono soggette a questo meccanismo: viene convocata per e-mail una prima asta, in cui la GDO richiede ai fornitori un’offerta di prezzo per una certa commessa (ad esempio un tot di barattoli di passata e/o latte di pelati). Raccolte le proposte, lo stesso committente convoca una seconda asta on-line, ancora al ribasso, la cui base di partenza è l’offerta più bassa. Questo meccanismo, che somiglia in tutto e per tutto al gioco d’azzardo, pregiudica fortemente il funzionamento della filiera, sia per la rapidità con cui si svolge sia perché gli industriali vendono spesso allo scoperto un prodotto che ancora non hanno acquistato dal produttore.

La campagna #FilieraSporca ha denunciato questa pratica come insostenibile, e pesantemente lesiva del funzionamento complessivo del comparto. Per questo motivo, chiede alle aziende di abbandonarla e al governo di vietarla per legge.

Il valore della trasparenza

Altre misure, volte a riequilibrare pesi e contrappesi nel settore agroalimentare, tentano di rafforzare i soggetti più deboli ed eliminare le disfunzioni attuali. Una riforma delle organizzazioni dei produttori, ad esempio, potrebbe aiutare questi ultimi a cooperare nella contrattazione con l’industria. Per offrire ai consumatori informazioni che vadano oltre la mera indicazione del prezzo, infine, è necessaria una legge sulla trasparenza fondata sull’etichetta narrante, alla cui base vi è l’idea che una conoscenza più accurata della provenienza del cibo possa garantire una scelta più consapevole.

*Articolo comparso sul Giornale di Mani Tese di maggio 2017

DIRITTI UMANI: AL VIA IL FORUM DELLA SOCIETÀ CIVILE IN EL SALVADOR

Nell’ambito del III Summit Unione Europea – CELAC oggi e domani si terrà a Salvador il Forum della Società Civile UE-CELAC

Nell’ambito del III Summit Unione Europea – CELAC (Comunità di Stati Latinoamericani e dei Caraibi) oggi e domani si terrà a Salvador il Forum della Società Civile UE-CELAC, organizzato da CONCORD e Mesa de Articulación col sostegno della Commissione Europea.

Al Forum parteciperanno oltre cento rappresentanti di reti e network di organizzazioni di America Latina, Caraibi ed Europa, tra cui CIFCA-Grupo Sur, di cui Mani Tese è membro. Si prevede, inoltre, la partecipazione di rappresentanti di alto livello sia della CELAC che dell’Unione Europea nelle sessioni di apertura e chiusura del Forum.

Per le organizzazioni della società civile il forum è un’opportunità per confrontarsi ed esporre preoccupazioni e domande alle autorità presenti su una vasta gamma di temi importanti e strettamente connessi tra di loro: il rispetto dei diritti umani, i difensori dei diritti umani, i diritti umani e le imprese, i diritti delle donne e la lotta contro il femminicidio, la partecipazione della società civile, la disuguaglianza, la giustizia fiscale e il cambiamento climatico.

Con questo forum la società civile intende quindi ribadire che interessi e relazioni commerciali non devono prevalere sul rispetto dei diritti umani.

PER SAPERNE DI PIÙ
Quello su “diritti e imprese” è un tema molto caro a Mani Tese. Recentemente vi abbiamo dedicato l’ultimo numero del nostro giornale, scaricabile on line gratuitamente.
Per ulteriori approfondimenti ti suggeriamo anche la sezione dedicata alle filiere produttive sul sito della nostra campagna I Exist contro le schiavitù moderne, nell’ambito della quale abbiamo attivo un progetto per la tutela dei diritti delle lavoratrici nel settore tessile in India.

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