INIZIATA LA CAUSA DELLA COMUNITÀ IKEBIRI: ENI COMPARE DI FRONTE ALLA CORTE
Oggi ENI è comparsa, insieme alla sua controllata nigeriana NAOC, di fronte al Tribunale di Milano per rispondere in merito all’accusa di inquinamento da petrolio in Nigeria. Il ricorrente è la comunità Ikebiri dello stato di Bayelsa, nel delta del Niger, rappresentata dal proprio leader, il Re Francis Ododo. Il territorio della comunità è stato […]
Oggi ENI è comparsa, insieme alla sua controllata nigeriana NAOC, di fronte al Tribunale di Milano per rispondere in merito all’accusa di inquinamento da petrolio in Nigeria. Il ricorrente è la comunità Ikebiri dello stato di Bayelsa, nel delta del Niger, rappresentata dal proprio leader, il Re Francis Ododo. Il territorio della comunità è stato inquinato da una fuoriuscita di petrolio nel 2010. Il giudice non ha accolto, per ora, la richiesta di Eni di fermare il processo per mancanza di giurisdizione e di spostarlo in Nigeria, disponendo di procedere nel merito mantenendo il processo in Italia.
Se dovesse avere successo, questo caso sarebbe il primo in cui una società italiana verrebbe ritenuta responsabile da parte di una corte italiana per danni ambientali e violazioni dei diritti umani all’estero.
I membri della comunità Ikebiri chiedono una bonifica adeguata e un risarcimento da parte di ENI per l’inquinamento del torrente, degli stagni e degli alberi, causato da una fuoriuscita di petrolio dalle condutture della propria consociata NAOC. Friends of the Earth Europe ed Environmental Rights Action/Friends of the Earth Nigeria stanno supportando la comunità nel portare il caso davanti alla corte.
L’avvocato della comunità, Luca Saltalamacchia, dichiara: “Sono soddisfatto che il processo continui, dando così la possibilità alla comunità Ikebiri di proseguire la battaglia per la sua richiesta di giustizia. Per il momento la richiesta di ENI e di NAOC di spostare il processo in Nigeria non è stata accolta”.
Il re della comunità Ikebiri, Francis Ododo, ha dichiarato: “Dopo più di sette anni di lotta per far sì che Eni rimediasse all’inquinamento da petrolio causato, accolgo con piacere l’inizio del caso e spero di poter finalmente vedere giustizia per la mia comunità.”
Colin Roche, extractive industries campaigner di Friends of the Earth Europe, ha dichiarato: “E’ ora che ENI venga ritenuta responsabile per l’impatto delle sue azioni sul popolo della Nigeria. Se la comunità Ikebiri vincesse la causa e ottenesse un risarcimento da ENI, ciò darebbe speranza alle molte altre comunità colpite dall’inquinamento da petrolio nel delta del Niger, e dai crimini d’impresa in generale.”
La fuoriscita di petrolio che ha riguardato la comunità Ikebiri è solo una delle centinaia di quelle prodotte dagli oleodotti di compagnie petrolifere internazionali che avvengono ogni anno in Nigeria.
Godwin Ojo, direttore di Friends of the Earth Nigeria, ha dichiarato: “Il popolo della Nigeria sta soffrendo da decadi a causa della negligenza delle major del petrolio, che ha distrutto vite e mezzi di sostentamento, garantendo allo stesso tempo ampi profitti a queste stesse compagnie. E’ il momento di porre fine alla loro impunità e di vedere la terra della comunità Ikebiri bonificata.”
Il caso continuerà con la prossima udienza, prevista per il 18 aprile a Milano.
(Fonte: comunicato stampa Friends of the Earth Europe)
Per appronfondire:
L’intervista all’avvocato Luca Saltalamacchia rilasciata alla redazione di Festival dei diritti umani:
Godwin Uyi Ojo, Executive Director di Friends of the Hearth Nigeria. racconta com’è nata la causa degli Ikebiri contro Eni e una sua controllata:
IMPRESE E COOPERATIVE PER FAVORIRE L’OCCUPAZIONE GIOVANILE IN GUINEA BISSAU
In una conferenza organizzata da Mani Tese a Bissau si discute della possibilità di creare imprese e cooperative per favorire l’occupazione giovanile.
Il 24 novembre, nella Casa dos Direitos di Bissau, è stata organizzata la conferenza dal titolo “Imprese e cooperative come motore per lo sviluppo della Guinea-Bissau”, organizzata da Mani Tese nell’ambito del progetto “Bo fia Bo pudi”. Il progetto, finanziato dall’Unione Europea ed implementato per l’organizzazione ENGIM, riguarda la promozione dell’occupazione giovanile in Guinea-Bissau.
La conferenza è stata un momento per dialogare con i rappresentanti dei ministeri della gioventù, dell’occupazione e dell’industria, con la società civile, con gli esperti del mondo dell’impresa e delle cooperative e con gli imprenditori. Si è discusso della possibilità di creare imprese e cooperative per favorire l’occupazione giovanile. Un confronto costruttivo fondamentale per iniziare a mettere le basi per uno sviluppo sostenibile del territorio.
CERIMONIA CONCLUSIVA DEL PROGETTO “IL PRIGIONIERO HA VALORE”
In vista della fine del progetto “Il prigioniero ha valore”, la cerimonia di conclusione rappresenta un momento di festa e di riflessione sulla tutela dei diritti dei prigionieri in Guinea Bissau.
Il 31 di Ottobre del 2017, nella Casa dos Direitos di Bissau, si è svolta la cerimonia conclusiva del progetto “Prisoneiro tene balur – Fase II”, che riguarda il reinserimento sociale e la promozione dei diritti dei carcerati in Guinea-Bissau.
In questa occasione, presenziata dall’Unione Europea, dal Direttore Generale dei Servizi Prigionali e da oltre 40 esponenti di organizzazioni nazionali ed internazionali, sono stati presentanti i risultati del progetto in ambito economico e psico-sociale, i dati preliminari della valutazione esterna del progetto e le prospettive future legate alla sostenibilità del progetto.
Un momento di dibattito, di incontro e di riflessione sul lavoro svolto da Mani Tese nelle prigioni della Guinea-Bissau. Un momento anche per festeggiare la fine di un cammino lungo cinque anni che vedrà ancora l’impegno della nostra ONG nella tutela dei diritti umani all’interno delle carceri guineensi.
PRATICHE D’ACCOGLIENZA: I PROGETTI SUL CAMPO.
Nei territori in cui è attiva, Mani Tese sperimenta iniziative per l’inclusione e la formazione di migranti e richiedenti asilo, con il coinvolgimento delle comunità locali.
di CHIARA CECOTTI, Responsabile Volontariato e Servizio Civile di Mani Tese.
NEI TERRITORI IN CUI È ATTIVA MANI TESE STA SPERIMENTANDO INIZIATIVE PER L’INCLUSIONE E LA FORMAZIONE DI MIGRANTI E RICHIEDENTI ASILO: ESPERIENZE CHE COINVOLGONO ANCHE LE COMUNITÀ LOCALI PER COSTRUIRE IL CAMBIAMENTO SENZA SUBIRLO.
Le migrazioni sono sempre fattori di cambiamento delle società con effetti soprattutto a livello locale: l’organizzazione delle città e le scelte fatte in materia di gestione determinano quanto un territorio è predisposto al cambiamento o quanto invece è destinato a subirlo attraverso reazioni conflittuali. Nell’ambito della cooperazione internazionale come delle campagne politiche, il tema del cambiamento è centrale nell’azione di Mani Tese per trasformare i contesti che impediscono la piena realizzazione delle persone e delle comunità. In questo senso, molti sono i progetti che le nostre sedi territoriali stanno realizzando in Italia, dove i migranti portano una domanda di cambiamento dei sistemi di accoglienza e inclusione, ma dove la posta in gioco è in realtà data dalla capacità di generare processi di trasformazione e di sviluppo.
Catania, la fabbrica del riuso.
L’occasione di realizzare qualcosa di concreto nel territorio ci è stata fornita da “ARCI Catania” che ha coinvolto Mani Tese Sicilia nella presentazione di un progetto finanziato da Fondazione con il Sud. E’ nata così FIERi: i migranti, all’interno di una vera e propria “Fabbrica Interculturale Ecosostenibile del Riuso” riparano e trasformano vari materiali che vengono quindi rimessi in circolo. Il progetto ha tre punti di forza: un partenariato di 13 associazioni e cooperative sociali del territorio; uno spazio che era da anni abbandonato, concesso in comodato d’uso, ristrutturato e restituito alla collettività; la creazione di opportunità lavorative per i migranti nell’ambito del riuso. FIERi vuole favorire un processo di “integrazione” dove “integrare” non significa “inserirsi”, ma “rendere completo”, aggiungere qualcosa che prima non c’era e contribuire a renderla migliore.
Treviso, costruire relazioni.
Da diversi anni il gruppo Mani Tese di Treviso ha sviluppato un’azione in collaborazione con le comunità di migranti, in particolare con le associazioni della diaspora del Burkina Faso grazie al programma “Fondazioni For Africa Burkina Faso”, che l’ha coinvolta in attività rivolte alle associazioni di migranti burkinabé della regione. Le relazioni che si sono create hanno portato a realizzare due edizioni dell’iniziativa “Quello che possono le mani – Incontri di donne africane e donne italiane per condividere sogni e saperi”. Il percorso partecipativo sui temi dell’autoproduzione e della sartoria del riuso ha avuto come obiettivi il sostegno alle capacità organizzative e all’autonomia economica delle donne coinvolte e il rafforzamento del loro ruolo all’interno delle famiglie e delle comunità di migranti di appartenenza. Nell’estate 2017 è stata inoltre promossa l’iniziativa “e – STIAMOINSIEME”. Negli ultimi tre anni Treviso ha dovuto organizzare un sistema di accoglienza e di integrazione con circa 1100 richiedenti asilo e 200 rifugiati titolari di protezione internazionale. Queste persone sono per lo più giovani e, durante il periodo estivo, la condizione di solitudine e inattività di questi ragazzi e ragazze tende ad aggravarsi. “e – STIAMOINSIEME” ha promosso un lavoro di rete tra venti soggetti privati e pubblici della città. Ha realizzato un programma di 12 appuntamenti a carattere formativo e aggregativo e due corsi di formazione in panificazione e pizza della durata di 20 ore ciascuno. Oltre trenta i ragazzi richiedenti asilo coinvolti e un centinaio i residenti che hanno fatto esperienza diretta di conoscenza e di relazione.
Pratrivero, lavorare insieme.
A partire da marzo 2016 l’Associazione Mani Tese Pratrivero ha scelto di impegnarsi, a fianco dell’amministrazione comunale e di altre associazioni, per l’inserimento di persone richiedenti asilo interessate dai programmi governativi di accoglienza. Nel mese di marzo è stata stipulata una convenzione della durata di sei mesi con il Comune di Trivero per l’impiego in attività di volontariato di quattro persone ospiti del C.A.S. in frazione Mazzucco. Per 6 mesi alcuni ragazzi hanno potuto svolgere attività di volontariato presso il nostro magazzino e lavori di manutenzione delle strade e del verde comunale. L’esperienza è stata nel complesso positiva e ha permesso un coinvolgimento efficace da parte dei ragazzi e della comunità. Durante lo stage di volontariato organizzato per gli studenti delle scuole superiori del territorio, il gruppo di migranti ha inoltre partecipato alle attività lavorative insieme ai giovani. Purtroppo non sempre da parte dell’ente gestore c’è stata una collaborazione fattiva, quindi a volte i ragazzi non sono stati posti nelle condizioni ideali per continuare il loro lavoro. Nel periodo previsto dalla convenzione si sono spesso alternati, causa trasferimenti da un centro di accoglienza all’altro, interrompendo la continuità del lavoro.
La “cointegrazione” può rappresentare una “terza via” all’integrazione dei giovani migranti: andare oltre l’accoglienza verso uno scambio fra pari
LA ‘COINTEGRAZIONE’, CONCETTO ECONOMETRICO, PUÒ RAPPRESENTARE UNA ‘TERZA VIA’ ALL’INTEGRAZIONE DEI GIOVANI MIGRANTI: ANDARE OLTRE L’ACCOGLIENZA PER E VERSO IL RICONOSCIMENTO DI UNO “SCAMBIO TRA PARI” E DI UNA RECIPROCA ASSUNZIONE DI RESPONSABILITÀ CHE RICONOSCA DAVVERO NELLA PLURALITÀ UNA RISORSA.
La parola cointegrazione identifica un concetto econometrico, che fa riferimento al caso in cui due combinazioni di variabili si muovono congiuntamente e in maniera simile per un lungo periodo, tanto che sembrano avere lo stesso trend. Nelle facoltà di economia per spiegarla si usa l’esempio di due ubriachi appena usciti dal bar, che camminano verso casa tenendosi a braccetto. In modo casuale e non necessariamente efficiente procedono insieme, appoggiandosi l’uno all’altro verso un obiettivo. Il concetto di cointegrazione può essere applicato molto bene alle migrazioni. Secondo l’ultimo rapporto del Ministero dell’Istruzione gli studenti stranieri in Italia sono circa 815mila, il 9,2% del totale. Una percentuale stabile nell’ultimo biennio, ma raddoppiata negli ultimi 10 anni e quadruplicata nel giro di 15. È di questi ragazzi che parliamo quando pensiamo alla sfida di fare scuola in una società multietnica. Una galassia eterogenea e composita, dove trovano posto i figli dei migranti appena arrivati in Italia, i minori non accompagnati e gli studenti di cittadinanza non italiana nati nel nostro paese. Se a questo aggiungiamo che la loro distribuzione si concentra in particolare nelle aree marginali a ridosso delle grandi città, portando alcune scuole ad ospitare oltre il 50% di minori di origine straniera, è facile comprendere l’importanza di un fenomeno che sta rivoluzionando il sistema scolastico. Uno degli approcci che tendiamo ad usare è quello assimilazionista: identifichiamo i problemi e cerchiamo le soluzioni, con l’obiettivo di rendere più accessibile il sistema scolastico. I problemi, naturalmente, sono moltissimi; l’insegnamento della lingua italiana, i rapporti con le famiglie, l’eterno dilemma se livellare la qualità verso il basso per non tenere indietro nessuno o progettare percorsi diversificati con il rischio di non essere inclusivi. La tentazione è pensare che la soluzione per risolverli sia fare in modo che gli stranieri diventino più simili a noi. Un’altra strada è quella della multiculturalità, in cui le diverse culture sono viste come contenitori comunicanti che si influenzano tra di loro. Il rischio è che la responsabilità dell’integrazione rimanga comunque in capo solo alla comunità ricevente, scoprendo il fianco alle accuse di buonismo, che siccome sono facili e gratuite non si fanno mai attendere. Come sempre, per trovare nuove risposte bisogna osservare i ragazzi. Per loro è normale vivere in un contesto multietnico, in generale non sono impressionati dalla diversità, sembrano naturalmente immersi in quella che sarà la loro società multiculturale. Eppure il sospetto che questo non sia il risultato di un processo davvero inclusivo, ma piuttosto di un raggiunto livello di accettazione condito da un po’ di superficialità, si fa strada tra educatori e insegnanti. Una recente indagine dell’Ong Celim in Lombardia (circa 1.500 interviste svolte tra scuole, CAG e parrocchie lombarde), dimostra che il 60% degli intervistati ha una percezione frammentaria delle tradizioni culturali e delle condizioni di vita degli altri Paesi e alla richiesta di indicare nel proprio quartiere persone di recente immigrazione dichiara di non conoscerne. Di più, l’80% dichiara insufficiente la partecipazione ad iniziative volte a stringere legami, conoscersi e valorizzare le reciproche competenze a favore di tutta la comunità.
Come due ubriachi a braccetto
Non basta quindi intendere l’integrazione come la normalizzazione di una pluralità di presenze, né atto di una “normale diversità”. È più interessante confrontarsi con l’orizzonte di una “diversa normalità”, centrata sull’esperienza quotidiana dello scambio, dove la pluralità è una risorsa prima di essere considerata un problema e la responsabilità di tenere vivo il dialogo è di tutti, studenti stranieri e loro famiglie compresi. Questo modo di guardare al fenomeno migratorio va oltre l’accoglienza per assomigliare di più ad un incontro tra pari. Il pedagogista brasiliano Paulo Freire diceva: “Nessuno educa nessuno, nessuno si educa da solo. Gli uomini si educano insieme, con la mediazione del mondo”.
Un concetto non così lontano dall’idea econometrica di cointegrazione, con qualche particolare in più: i due ubriachi escono dal bar tenendosi a braccetto l’un l’altro, si sostengono nella strada verso casa, si raccontano la loro vita e stringono un legame valorizzando le reciproche diversità. In definitiva, crescono insieme. Non solo si tollerano, non solo cercano di risolvere il problema di arrivare a casa, ma mantengono uno scambio di sguardi. Anche una volta passata la sbronza.
Mani Tese propone a ragazzi e studenti il percorso “Migranti per caso? Cittadini di un pianeta in movimento“, installazione didattica pensata per ragazzi dai 13 ai 19 anni volta ad approfondire le cause che originano le migrazioni. Per informazioni inviare una mail a ecg@manitese.it oppure telefonare allo 02.4075165 e chiedere dell’Ufficio ECG.
SULLA PELLE DEI MIGRANTI: SMASCHERARE LO SFRUTTAMENTO
Definizioni precise dei fenomeni di schiavitù, lavoro forzato e traffico di esseri umani possono aiutare a comprendere con quali strumenti combatterli: oltre che sulla legislazione penale, occorre concentrarcisi anche su profonde riforme sociali, economiche e culturali.
Estratto dell’articolo ‘Forced Labour, Slavery and Human Trafficking: When do definitions matter?’ di Roger Plant, già a capo dell’International Labour Organization’s Special Action Programme to Combat Forced Labour.
DEFINIRE I FENOMENI SERVE A CAPIRE CON QUALI STRUMENTI POSSANO ESSERE CONTRASTATI. UN TEMA EUROPEO E NON SOLO CHE ‘INCIAMPA’ IN FORME SPESSO SFUGGENTI DI COERCIZIONE E CHE NON VA CIRCOSCRITTO ALLA SOLA LEGISLAZIONE PENALE, MA RICHIEDE PROFONDE RIFORME SOCIALI, ECONOMICHE E CULTURALI.
Nei primi anni dopo l’entrata in vigore del Protocollo contro il traffico di esseri umani nel 2003 (1), l’enfasi predominante è stata sul trafficking a scopo di sfruttamento sessuale. A distanza di oltre un decennio l’enfasi si è gradualmente ma decisamente spostata. Molti stati hanno riconosciuto uno specifico reato di traffico di esseri umani per lo sfruttamento lavorativo, e hanno iniziato a rafforzare le proprie capacità di raccogliere dati, indagare e perseguire penalmente in questo ambito. Organizzazioni come l’Organizzazione Internazionale del Lavoro hanno sviluppato e affinato i propri indicatori, supportando sia le forze di polizia sia gli erogatori di servizi nell’identificazione di casi di trafficking a scopo di sfruttamento lavorativo. Sia le agenzie delle Nazioni Unite sia organizzazioni non governative specializzate hanno offerto numerose sessioni formative sull’argomento, solitamente cercando di coniugare giustizia penale e del lavoro, e cercando anche di tendere una mano al mondo del business e alle organizzazioni dei lavoratori. Gli ultimi anni sono stati caratterizzati dal crescente coinvolgimento del business, affinché affrontasse in maniera responsabile la possibile presenza di lavoro forzato e traffico di esseri umani nelle attività e nelle filiere produttive delle proprie imprese.
Zone grigie nei mercati del lavoro.
È emerso un consenso sul fatto che il confine tra lavoro forzato e trafficking a scopo di sfruttamento lavorativo sia estremamente difficile da definire. Esiste un numero ridottissimo di casi eclatanti, dove i colpevoli sono perseguiti con successo e ricevono condanne pesanti (a volte accompagnate da una sanzione amministrativa). La situazione è tuttavia caratterizzata da zone grigie e controverse, come le somme esorbitanti che spesso i migranti pagano alle agenzie di reclutamento, le ingiustificate deduzioni dallo stipendio a cui i migranti sono soggetti, le lunghe giornate di lavoro, e le insalubri condizioni di vita e lavoro. Questa viene spesso presentata come una catena di inganno fatta di sottili forme di coercizione che può spingere i migranti e altri lavoratori vulnerabili in situazioni di estremo degrado, che presumibilmente equivalgono a servitù da debito.
A causa di queste ambiguità, e della difficoltà a persuadere una corte, all’interno dei sistemi di diritto civile, che queste sottili forme di coercizione e inganno costituiscono reati di lavoro forzato e trafficking a scopo di sfruttamento lavorativo, ci sono stati pochissimi casi di procedimenti conclusisi con successo.
Quando forme sottili di coercizione sono state così difficili da provare in tribunale, c’è stata una sorta di tendenza – sia nelle legislazioni sia nei sistemi giudiziari nazionali – a concentrarsi sulle condizioni oggettive dello sfruttamento, piuttosto che sui mezzi coercitivi o ingannevoli tramite i quali le persone vengono condotte in queste condizioni. In Europa, quando la Germania ha emendato il suo codice penale per introdurre il reato specifico di trafficking a scopo di sfruttamento lavorativo, questo è stato incluso nella sezione dei ‘crimini contro la libertà personale’.
Tra gli indicatori chiave del reato di trafficking a scopo di sfruttamento lavorativo figurano non solo la riduzione di lavoratori migranti in condizioni di ‘schiavitù, servitù o servitù da debito’, ma anche il loro impiego in condizioni sensibilmente differenti rispetto a quelle offerte a cittadini tedeschi.
Più in generale a livello europeo maggiore attenzione è stata posta su tali fattori oggettivi di sfruttamento lavorativo. È cresciuta la preoccupazione per le implicazioni per i diritti e gli standard del lavoro dei ‘mercati del lavoro a due livelli’ (una serie di standard per i cittadini, un’altra per i lavoratori migranti), e ‘forme atipiche’ di impiego come l’incarico dei lavoratori (assunti secondo lo stipendio e il diritto del lavoro del paese da cui partono, anziché secondo quelli del paese d’arrivo), o programmi di lavoro temporaneo per migranti fatti arrivare attraverso speciali regimi di visti.
Punire i colpevoli, cambiare il sistema.
Nei singoli casi sarà sempre difficile sapere quando applicare le sanzioni penali o le normative sul lavoro, o una combinazione delle due. Da un lato c’è un numero significativo, per quanto esiguo, di casi che devono essere affrontati penalmente. Non fa alcuna differenza che vengano affrontati attraverso i reati di schiavitù, lavoro forzato o traffico di esseri umani. Questi sono crimini seri in qualsiasi circostanza, sia per la legislazione internazionale sia per la maggior parte delle legislazioni nazionali, e come tali devono essere trattati. I sistemi assimilabili alla schiavitù, e in larga parte il concetto stesso di sfruttamento, devono essere compresi in maniera diversa. I primi sono chiaramente problemi sistemici, radicati in una complessa eredità di fattori socioculturali. L’opzione dell’applicazione della legislazione penale è sempre possibile per affrontare i casi peggiori, ma i problemi sistemici devono essere affrontati alla loro radice attraverso importanti riforme sociali, economiche e culturali e attraverso la sensibilizzazione. Più recentemente il ‘discorso di lotta al traffico di esseri umani’ nel suo senso più ampio è stato funzionale ad attirare la necessaria attenzione sui numerosi abusi che oggi colpiscono i migranti e altri lavoratori vulnerabili. È stato utile per mettere in evidenza questioni più ampie di discriminazione, insieme a gravi mancanze nelle politiche di migrazione e asilo.
Il futuro è incerto. Il discorso ha alimentato importanti dibattiti politici, in diversi contesti nazionali e regionali, su cosa costituisca sfruttamento del lavoro e sulle modalità per affrontarlo. Come reazione contro la spiccata deregolamentazione che ha influenzato il mercato del lavoro in così tanti paesi negli ultimi decenni, questo potrebbe costituire la base per nuove leggi e politiche che pongano rimedio a vuoti legislativi, come ad esempio garantire monitoraggio e supervisione più severi degli intermediari senza scrupoli che sono alla base di troppi di questi problemi.
La pignoleria sulle precise definizioni dei concetti di schiavitù, lavoro forzato e traffico di esseri umani non affronta le questioni principali che sono in gioco. La vera sfida è capire quale di questi problemi possa essere affrontato efficacemente attraverso l’applicazione della legge contro i singoli criminali; e quali problemi invece — che si tratti di contrastare la questione aperta delle pratiche tradizionali assimilabili alla schiavitù, piuttosto che affrontare nuovi fenomeni — possono essere affrontati solo attraverso strategie sociali ed economiche più complete.
(1) Assemblea Generale delle Nazioni Unite, Protocollo per prevenire, reprimere e punire la tratta di persone, in particolare donne e bambini, Protocollo addizionale alla Convenzione delle Nazioni Unite contro la criminalità organizzata transnazionale, 15 novembre 2000, (Protocollo contro il traffico di esseri umani).
Questo è un articolo liberamente accessibile distribuito con licenza Creative Commons Attribution, che ne consente l’utilizzo, la distribuzione e la riproduzione su qualsiasi supporto esclusivamente per fini non commerciali, a condizione di riportare sempre autore e citazione originale: R. Plant, ‘Forced Labour, Slavery and Human Trafficking: When do definitions matter?’, Anti-Trafficking Review, issue 5, 2015, pp. 153–157.
9 GENNAIO: LA COMUNITÀ IKEBIRI CONTRO ENI, IL CASO ARRIVA IN ITALIA
Il 9 gennaio 2018, presso il Tribunale di Milano, si svolgerà la prima audizione sul caso della comunità nigeriana Ikebiri contro ENI.
Il 9 gennaio 2018, presso il Tribunale di Milano, si svolgerà la prima audizione sul caso della comunità nigeriana Ikebiri contro ENI.
A sette anni di distanza da una grave fuoriuscita di petrolio della Nigerian Agip Oil Company, la controllata di ENI, gli Ikebiri stanno infatti ancora aspettando un’adeguata compensazione del danno subito e la bonifica dei luoghi inquinati.
“L’assenza di un tribunale internazionale sui crimini delle imprese multinazionali è un vulnus del sistema giuridico mondiale – dichiara Giosuè De Salvo, Responsabile Advocacy e Campagne di Mani Tese – Per porvi rimedio occorre che le corti europee e nordamericane, dove hanno sede legale i principali gruppi industriali, siano rese accessibili a coloro che si ritengono vittime di una violazione di diritti umani e ambientali e sono residenti in Paesi dove, per ragioni diverse, il diritto a un equo processo non è garantito.
“Come Mani Tese – prosegue De Salvo – ci battiamo da anni in questo senso e abbiamo quindi deciso di supportare la Comunità Ikebiri e i colleghi di Friends of the Earth Europe nella realizzazione di questo evento di informazione alla cittadinanza milanese.
Se il giudice del Tribunale di Milano dovesse dichiarare ammissibile lo svolgimento del processo in Italia, e quindi riconoscere il dovere della casa madre del gruppo ENI di rispondere alle accuse su fatti accaduti in Nigeria, ciò segnerebbe un precedente storico per la battaglia di civiltà in cui siamo impegnati“.
Di seguito, la locandina dell’evento
(clicca sull’immagine per scaricare il pdf)
CAMBOGIA, IL VALORE DELLA FAMIGLIA SI INSEGNA ANCHE CON UN PANINO DOLCE
A settembre in Cambogia si è tenuta la festa di Pchum Be, che celebra l’importanza della famiglia nella cultura cambogiana.
A settembre in Cambogia si è tenuta la festa di Pchum Be, che celebra l’importanza della famiglia, sia quella vivente che degli antenati, nella cultura cambogiana. Per l’occasione, il centro di accoglienza di Poipet per bambini vittime di trafficking ha svolto attività creative come la preparazione di dolci e la cucina per favorire la connessione tra i bambini e l’eredità culturale, la lingua e la tradizione cambogiane.
Gli operatori del centro di accoglienza hanno invitato un pasticcere esperto nel preparare il Nom Ansom (un pane dolce tradizionale della cultura Khmer). Questi panini dolci rappresentano il valore del trascorre del tempo in famiglia durante questa festa sacra. Come molti cambogiani vi diranno, infatti, è importante preparare i Nom Ansom da scambiarsi con amici e familiari durante il periodo di Pchum Ben.
Per molti bambini senza famiglia questi rituali hanno un’importanza culturale fondamentale e permettono di sperimentare il valore della comunità. L’obiettivo di Damnok Toek, l’organizzazione che gestisce il centro di Poipet, è che ogni bambino di cui ci si prende cura abbia un giorno una famiglia e sia supportato da una comunità. Se fare panini dolci può aiutare a insegnare questi valori, allora gli operatori e gli assistenti sociali si assicureranno che attività come questa continuino!