16 APRILE: PER IQBAL E PER TUTTI I BAMBINI VITTIME DI SCHIAVITÙ

Oggi è la Giornata mondiale contro la schiavitù infantile e l’anniversario della morte del piccolo Iqbal Masih. Lo ricordiamo in questo articolo.

Iqbal Masih è stato un operaio tessile, attivista e simbolo della lotta contro il lavoro minorile. Per sempre bambino, ucciso a 12 anni in circostanze tuttora oscure.

Nato nel 1983 in una famiglia pakistana poverissima, iniziò a lavorare a sei anni presso un piccolo imprenditore tessile per estinguere un debito contratto dalla famiglia. Incatenato al telaio, malnutrito, lavorava per 12 ore al giorno, 7 giorni alla settimana. I miseri guadagni, però, non riuscivano mai a estinguere il debito originario di 6 dollari.

Una volta sfuggito a questa schiavitù, iniziò a battersi contro il lavoro minorile, studiando e diventando il volto e la voce di tutti i bambini che come lui venivano sfruttati nell’industria dei tappeti. La sua storia ha ispirato numerosi libri, film e il commosso discorso di accettazione del premio Nobel per la pace di Kailash Satyarthi.

Il 16 aprile, anniversario della morte di Iqbal, è la giornata in cui ricordare che la lotta alla schiavitù infantile continua ad essere una necessità: sono 152 milioni i bambini vittime di sfruttamento del lavoro minorile, e di questi, 73 milioni sono impiegati in lavori pericolosi.

Il lavoro minorile è un fenomeno davvero mondiale: se infatti la metà circa di tutti i bambini vittime di sfruttamento si trova in Africa (72 milioni), nessuna regione del mondo ha completamente eradicato il fenomeno.

I settori in cui i bambini lavorano sono tutti, senza eccezioni: in primis l’agricoltura, sia di sussistenza che commerciale (come abbiamo rilevato recentemente anche in uno studio sulla filiera della canna da zucchero), la pesca, l’allevamento, l’edilizia, le cure domestiche, il terziario, le industrie estrattive e ad alta densità di manodopera, come l’industria tessile.

Il lavoro minorile è causa e conseguenza della povertà, e come tale Mani Tese lo affronta. Se infatti cambiano i modi in cui si manifesta, immutate rimangono invece le circostanze che lo caratterizzano, composte da fattori di spinta e fattori di attrazione. Indigenza estrema, mancanza di alternative economiche per i membri adulti della famiglia, necessità di integrare il reddito famigliare, mancato accesso al credito, sistemi scolastici inaccessibili sono tra i più comuni fattori di spinta. Ma tra i fattori di attrazione non si possono non annoverare le industrie che prediligono l’impiego di bambini in quanto manodopera più economica e docile rispetto agli adulti. Tra queste figura l’industria tessile in India meridionale, dove negli impianti di filatura del Tamil Nadu vengono impiegate illegalmente migliaia di bambine e adolescenti.

Il lungo lavoro sul campo in stretta collaborazione con le associazioni popolari e i movimenti di base ci ha insegnato che garantire l’autosufficienza dei nuclei familiari, a partire dal mondo rurale, è condizione indispensabile perché, fra l’altro, i bambini possano andare a scuola anziché dover lavorare.”. Così scrivevamo in occasione della Global March against Child Labour, una marcia che ha attraversato 90 paesi, per arrivare fino a Ginevra e contribuire all’adozione della Convenzione ILO 182 sulle peggiori forme di sfruttamento del lavoro minorile, e di cui Mani Tese è stato coordinatore europeo.

Oggi il lavoro minorile è uno dei focus della campagna i exist . say no to modern slavery contro le schiavitù moderne, e la lotta allo sfruttamento lavorativo dei bambini rimarrà il filo sottile che regge la multiforme trama del nostro impegno di giustizia.

iqbal_Schumi4ever_wikimedia
Immagine di Schumi4ever – Wikimedia (https://commons.wikimedia.org/wiki/File:Iqbal_Masih_placa_Almer%C3%ADa.JPG)

IL DRAMMA DELLA MUTILAZIONE GENITALE FEMMINILE IN GUINEA-BISSAU

Intervista a Fatumata Djau Balde, storica attivista del Paese.

Fatumata Djau Balde è la presidente del Comitato per l’abbandono delle pratiche nefaste per la salute delle donne e dell’infanzia della Guinea Bissau ed è uno degli esempi di attivismo femminista più importanti nel Paese. La incontro nell’ufficio di Mani Tese, poco prima della sua partenza per Lisbona, dove la attende una serie di seminari e conferenze sui diritti delle donne, per cui lotta da tutta la vita, fin da quando era un’adolescente a cui è stata praticata la Mutilazione Genitale Femminile (MGF)*, imposta dalla sua famiglia.

Fatumata sostiene che la differenza tra lei e sua madre risieda nella possibilità di scolarizzazione e più in generale nell’empowerment femminile. Lei infatti ha avuto l’opportunità di studiare contabilità, di insegnare e di seguire un master in studi giuridici. Si dimentica di raccontarmi che è stata anche ministra del Turismo, Solidarietà e Affari Esteri per un breve periodo fino al colpo di stato del settembre 2003. E’ più concentrata a illustrare i dettagli della storia del Comitato, partendo dallo scenario internazionale: nel 1994, a Dakar, si costituisce il Comitato Interafricano per l’abbandono delle pratiche nefaste, ossia mutilazioni genitali femminili, matrimoni precoci, matrimoni forzati, la preferenza per i figli maschi e la pratica della dote. Vi aderiscono 19 paesi africani che creano i comitati nazionali e nel 1995 viene fondato quello della Guinea Bissau.

All’epoca il comitato rappresentava una direzione del ministero degli Affari Sociali che lavorava soprattutto sulla sensibilizzazione contro la mutilazione genitale, ma nel 1998 la guerra civile ne fa cessare le attività. Riprenderà dal 2009 con maggior forza, tanto che a oggi sono 20 le organizzazioni della società civile che lo compongono e, seppur tutelato dal Ministero della Donna, Famiglia e Solidarietà sociale, è un organismo indipendente, come sottolinea Fatumata, che rimarca l’importanza della sua autonomia dal governo.

Negli anni le tematiche affrontate dal comitato aumentano e includono violenza domestica, violenza di genere e scolarizzazione di bambine e ragazze. Tra tutti questi argomenti viene diviene noto in Guinea Bissau soprattutto per la lotta sul tema più difficile da affrontare, ossia la Mutilazione Genitale Femminile (MGF), sia perché insita nella cultura del Paese, sia per le conseguenze che accompagnano la vittima per il resto della sua vita, delle quali si fa fatica a parlare: conseguenze sociali, psicologiche e ovviamente fisiche dovute all’asportazione parziale o totale degli organi sessuali esterni femminili attraverso una lama da taglio e con le quali si stima conviva oggi il 50% delle donne guineensi con età compresa tra 15 e 49 anni.

Lo sa bene Fatumata, che ha subito personalmente questa pratica rituale nella comunità musulmana della città di Bula, da cui proviene. La religione musulmana non deve essere però usata come capro espiatorio: nel Corano infatti, l’argomento non viene neppure citato, ma la presidente mi dice che i leader religiosi seguono più la tradizione che hanno nella testa, che i precetti del profeta.

Queste pratiche tradizionali, esistenti da secoli, non cessano grazie all’esistenza di una legge, ma sicuramente questa può diventare uno strumento di persuasione. Così sta succedendo in Guinea Bissau, dove nel 2011 è stata adottata la legge che proibisce e penalizza la MGF. Fatumata, nel raccontare quel traguardo storico per lei e per il Paese, mi emoziona davvero, descrivendomi come i deputati si alzavano in piedi uno dopo l’altro per votare a favore. Un fatto assolutamente non scontato, visto che la comunità musulmana costituiva la maggioranza nel Parlamento.

Per sottolineare che l’Islam non impone questa pratica, inoltre, 200 Iman di tutto il Paese hanno approvato nel 2013 una fatwa (decreto islamico) che condanna la MGF in nome della religione. Non solo, oggi le testimonianze dirette per la sensibilizzazione avvengono anche all’interno delle moschee. Inoltre 400 comunità hanno dichiarato l’abbandono delle pratiche e la scuola nazionale di salute della Guinea Bissau ha incluso un modulo di studio sulla MGF nel suo programma formativo per assistere in maniera adeguata le donne che l’hanno subita al momento del parto.

Insomma, di traguardi se ne sono raggiunti moltissimi e i dati lo confermano: l’indice di MGF praticata su bambine tra 0 e 14 anni è calato dal 39 al 30% dal 2010 al 2016 e le donne che appoggiano la continuità della pratica sono passate dal 36 al 13%.

Purtroppo, nonostante sia stata proibita e 40 casi siano stati denunciati ai tribunali, la MGF viene ancora praticata a causa soprattutto di una giustizia fragile e lentissima e rimangono ancora molte altre sfide come la maggiore informazione sulla legge contro la violenza domestica. Ma oltre a puntare su strumenti repressivi, serve anche e soprattutto utilizzare quelli educativi.

Il cambio più grande è dunque quello di mentalità e comportamento e ancora una volta la presidente insiste sull’importanza della sensibilizzazione alle ragazze, che hanno il diritto di andare a scuola e ricevere alfabetizzazione ed educazione per raggiungere autonomia ed emancipazione.

L’impegno di Fatumata e dei suoi colleghi è fortemente personale: non esistendo un servizio pubblico di accoglimento per le vittime, nel corso degli anni hanno ospitato a casa propria ragazzine che denunciano matrimonio forzato o scappano dalla MGF e dalla violenza per poi trovare in breve tempo una sistemazione di fortuna da altri parenti, assumendo tutti i rischi che questo comporta. In nome del comitato, la presidente si dichiara estremamente interessata a collaborare con Mani Tese per garantire il funzionamento di una casa rifugio e dei centri di accoglienza di breve permanenza, il cui obiettivo sarà guidare le ragazze verso un inserimento scolastico o la ricerca di un lavoro.

La sua convinzione sull’importanza della formazione è ancora fortissima tanto che, sulla soglia dei cinquanta, Fatuma vuole specializzarsi in diritti umani e insegnare all’università per diffondere le conoscenze e i diritti puntando sui giovani, soprattutto sulle giovani donne di questo Paese.

——————-

* La MGF continua a giustificarsi come preservazione della verginità prima del matrimonio, della purezza e della fedeltà, l’aumento del piacere maschile e soprattutto come tradizione religiosa (nel mondo comunità cristiane, musulmane, ebraiche ed animiste la praticano) e costituisce un rito di passaggio all’età adulta che permette alle bambine e alle donne di compiere adeguatamente il ruolo di sposa, madre e figlia, garantendo l’onore della famiglia. UNICEF stima che almeno 200 milioni di donne e bambine in 30 paesi hanno sofferto la MGF. (fonte UNAF, Union de asociaciones de familiares, www.stopmutilacion.org)

Fatumata_Mani Tese_2018
Fatumata nell’ufficio di Mani Tese a Bissau

LA FIERA DEI PRODOTTI ECO-BIO A LOUMBILA

Il 24-25 marzo si terrà in Burkina Faso una fiera agricola per promuovere il consumo locale e la produzione mediante tecniche agroecologiche.

Nell’ambito del progetto “PARTENARIATO PER UNO SVILUPPO SOSTENIBILE TRA ITALIA E BURKINA FASO” sostenuto da Fondazioni For Africa Burkina Faso, Mani Tese insieme agli altri partner di progetto e ai principali attori legati alla produzione agro ecologica in Burkina Faso, organizzerà il 24 e il 25 una fiera agricola che mira a promuovere il consumo locale e la produzione mediante tecniche agroecologiche a tutto vantaggio della conservazione di suoli e ambiente.

I consumatori avranno modo di conoscere i produttori agro ecologici e acquistare le loro prelibatezze, conoscere i terreni di produzione e le tecniche differenti di coltivazione.

Ecco il video dell’evento:

Di seguito la locandina:

Fiera_eco-bio_burkinafaso_manitese_2018

L’ACQUA E I SERVIZI IGIENICO-SANITARI SONO DIRITTI UMANI!

Le nostre richieste in occasione della Giornata Mondiale dell’Acqua 2018

L’acqua e i servizi igienico-sanitari sono diritti umani!

Per questo motivo, come Mani Tese, dopo esserci spesi per il referendum italiano del 2011 e l’iniziativa dei cittadini europei del 2013, in occasione della Giornata Mondiale dell’Acqua 2018, continuiamo a chiedere che:

1. le istituzioni dell’Unione Europea e gli Stati Membri assicurino a tutti i cittadini il diritto all’acqua potabile e ai servizi igienico-sanitari così come sancito dall’Assemblea ONU nel 2010;

2. l’approvvigionamento in acqua potabile e la gestione delle risorse idriche non siano soggetti alle “logiche del mercato unico” e che i servizi idrici siano esclusi da qualsiasi forma di liberalizzazione;

3. ci sia, a livello nazionale e internazionale, un riconoscimento dell’acqua, delle foreste e dei fiumi come beni titolari di diritti universali che vanno difesi con l’adozione di trattati internazionali che obblighino gli Stati ad agire.

REPORTER AMBIENTALE PER UN GIORNO: AL VIA L’EDIZIONE 2018!

Inviaci il tuo contributo: i più originali saranno pubblicati su Giustiziambientale.org durante la Giornata Mondiale della Terra

Sei a conoscenza di casi di ingiustizia ambientale nella tua area geografica? Pensi che i danni ecologici, oltre a impattare negativamente sull’ambiente, siano anche espressione di più ampie ingiustizie sociali? Lo sfruttamento irresponsabile o illecito delle risorse naturali ha causato impoverimento, incremento delle patologie e della mortalità o altre conseguenze negative sulla tua comunità?

Partecipa alla seconda edizione di “Reporter ambientale per un giorno” e raccontacelo! Inviaci il tuo contributo (secondo le modalità indicate di seguito) entro e non oltre il 20 aprile 2018: i più originali saranno pubblicati il 22 aprile 2018, in occasione della Giornata Mondiale della Terra, su Giustiziambientale.org, il portale che dà voce agli attivisti ambientali.

Reporter ambientale per un giornoè un’iniziativa di Citizen Journalism rivolta a blogger, attivisti, volontari e a tutti i cittadini interessati a diffondere il tema della giustizia ambientale a partire dalla descrizione di ciò che accade nel proprio territorio (quartiere, città, regione). I “reporter per un giorno” potranno segnalare e documentare casi di ingiustizia, così come offrire testimonianza di quelle realtà virtuose che, al contrario, promuovono e diffondono buone pratiche coniugando sostenibilità ambientale, sviluppo e diritti. Giustizia ambientale, infatti, non significa soltanto denunciare le violazioni ecologiche e sociali, ma soprattutto agire in modo da rendere i processi industriali e i nostri stessi stili di vita compatibili con la conservazione degli ambienti naturali e la loro capacità di offrire servizi essenziali per la vita dell’uomo e delle altre specie animali.

Come partecipare

I “reporter per un giorno” potranno realizzare video-inchieste, reportage, o semplici articoli corredati da immagini, estratti video e file audio su casi di ingiustizia/giustizia ambientale. Se l’argomento prescelto ricade nel proprio territorio, infatti, i reporter potranno scegliere di recarsi nei luoghi interessati per documentare i fatti, realizzare interviste e scattare foto.
Il contenuto può avere una struttura variabile a seconda della modalità adottata. La parte testuale (formato word) non dovrà superare le 6.500 battute (spazi inclusi). Ogni contributo dovrà essere corredato da un minimo di 3 a un massimo di 15 immagini, che potranno essere inserite nel corpo del testo oppure allegate via mail al momento dell’invio massivo. Immagini, foto e video dovranno riportare i relativi credits o, nel caso, la fonte da cui sono stati tratti. I contributi dovranno avere un titolo e, possibilmente, un sottotitolo.

Invio dei contributi

Una volta realizzato il contributo, bisognerà registrarsi al sito http://www.giustiziambientale.org/registrati/ e inviare tutto il materiale allegato all’indirizzo news@giustiziambientale.org indicando nell’oggetto: “ReporterPerUnGiorno – parola chiave contributo – autore- nickname di registrazione sul sito”.
Il termine ultimo è il 20 aprile 2018.
Per l’invio dei video vi sono due possibilità: caricare i file su youtube (indicando parallelamente nella parte testuale il link di riferimento), oppure inviarli tramite wetransfer, servizio semplice e gratuito, sempre all’indirizzo news@giustiziambientale.org.

Revisione e pubblicazione

Alla redazione di Giustiziambientale.org spetterà poi il compito di revisionare i contributi ricevuti, impaginarli, pubblicarli e, infine, promuoverli sui social network. L’editing avrà come obiettivo quello di adattare i contributi alle esigenze comunicative imposte dalla rete. Le eventuali modifiche saranno quindi dettate dalla necessità di rendere più chiaro e fruibile il testo e non certo dall’intenzione di alterarne o censurarne il contenuto.

Promozione

I contributi più originali saranno pubblicati sul sito www.giustiziambientale.org a partire dal 22 aprile 2018, in occasione della Giornata Mondiale della Terra e, parallelamente, verranno promossi sui canali social dell’associazione Mani Tese (Twitter e Facebook). Gli stessi “reporter per un giorno” sono invitati a condividere gli articoli pubblicati attraverso i propri account social. Si potranno, ad esempio, realizzare delle instagram stories, postando una o più immagini chiave tratte dai propri contributi oppure brevi estratti video e inserendo quindi nella didascalia del post: “#ReporterPerUnGiorno, #EarthDay, link dell’articolo, @Mani_Tese”.

Clicca qui per leggere i contributi della prima edizione di “Reporter ambientale per un giorno”

Per ulteriori informazioni relative alla campagna scrivere all’indirizzo news@giustiziambientale.org

UN ABBRACCIO TRA FRATELLI DOPO 42 ANNI GRAZIE A UN NOSTRO POST!

Braima, l’autista e logista di Mani Tese in Guinea Bissau, incontra suo fratello dopo 42 anni grazie a un post sulla pagina Facebook di Mani Tese.

Vi ricordate di Braima? E’ l’autista e logista di Mani Tese in Guinea-Bissau, al quale avevamo fatto gli auguri di buon compleanno a settembre dell’anno scorso. Anche grazie a quel post, Braima ha potuto rivedere suo fratello, dopo ben 42 anni!

E’ una storia che ha dell’incredibile.

Djibril, il fratello di Braima, era un adolescente durante la guerra di liberazione. Scappò prima a Capo Verde, poi in Europa, e presto perse i contatti con la sua famiglia in Guinea-Bissau. Braima, sua sorella e i suoi genitori lo davano ormai per disperso.

Grazie alla foto di Braima pubblicata sulla pagina Facebook di Mani Tese, il figlio di Djibril è riuscito a rintracciare Braima. Dopo qualche mese di telefonate, Djibril ha deciso di partire per la Guinea-Bissau per tornare a trovare la sua famiglia.

Djibril ci racconta: “E’ stato strano rientrare in Guinea. All’aeroporto ho dovuto dire, con imbarazzo, che non avevo più documenti guineensi con me, mi hanno fatto pagare il visto turistico. Riabbracciare mio fratello è stata un’emozione forte. Vedo che in tutti questi anni la Guinea-Bissau non è cambiata molto. Mi aspettavo di trovare più sviluppo, ma grazie a Braima ho visitato i vostri progetti e mi è tornata la fiducia nel mio Paese. Grazie, Mani Tese.”

Braima ha portato suo fratello in giro per la città, e come se fosse la cosa più naturale al mondo, gli ha fatto visitare i nostri progetti, tra cui il CEDAVES.

Essere stati testimoni di questo ricongiungimento ci ha fatti un po’ emozionare, ma ci ha anche fatto riflettere su quanto ancora bisogna fare in questo Paese.

LA RESILIENZA DEI RIFUGIATI SENEGALESI IN GUINEA-BISSAU

L’impegno di Mani Tese per l’autonomia comunitaria dei rifugiati senegalesi inizia con i frutti della terra

di SARA GIANESINI, Coordinatrice progetto “Integrazione dei richiedenti asilo e dei rifugiati senegalesi”

Cacheu nord, confine con la Casamance, la regione del Senegal teatro dal 1982 di un conflitto tutt’oggi irrisolto.
Dagli avvenimenti del 6 Gennaio 2018, in cui sono state brutalmente uccise 13 persone, gli scontri tra esercito Senegalese e ribelli del gruppo indipendentista della Casamance sono ricominciati.

Noi di Mani Tese, presenti sul territorio dal 2017, non perdiamo la volontà di stare a fianco delle comunità di confine che ospitano i rifugiati senegalesi fuggiti nel corso degli anni da questo conflitto dimenticato e senza cronaca.

Lo staff di Mani Tese ha iniziato in questo territorio con non poche difficoltà e problematiche. Un’annata di conoscenza, di conquista giornaliera di confidenza e familiarità con le stesse comunità, ma oggi possiamo raccontare tanti risultati positivi e sorprendenti. Ortaggi, uova, pulcini, piccoli negozi e attività commerciali sono alcuni dei frutti positivi che il team di progetto ha fortemente e con tenacia portato avanti finora.

Il progetto ci vede tutt’oggi a fianco delle comunità per appoggiare la sussistenza e autonomia comunitaria come parte della strategia di Protezione delle comunità ospitanti rifugiati senegalesi.

Quando andiamo a Sougototo, Edjaten, Capal e Barraca Biro e vediamo 40 e più persone che sono operose e instancabili sotto il sole per dare irrigazione agli orti comunitari; quando vedi negli occhi delle persone la volontà che le cose migliorino; quando ti raccontano che le donne stanno anche la notte a dormire a fianco agli orti perché non vogliono perdere il raccolto, le parole non servono.

La campagna orticola è nel pieno e i frutti della terra sono la dimostrazione del lavoro di irrigazione, cura e fertilizzazione naturale per la promozione di una coltura bio come modello di sostenibilità. Noi tutti a São Domingos stiamo aspettando la maturazione dei raccolti per poter gioire con le comunità, vi terremo aggiornati!

NICARAGUA. SFATARE LE CREDENZE POPOLARI PER CURARE L’INSUFFICIENZA RENALE

Il nostro impegno nella prevenzione e cura dell’insufficienza renale cronica, una malattia frequente nei lavoratori della canna da zucchero

In Nicaragua siamo impegnati in un progetto per prevenire e curare l’insufficienza renale cronica, una grave malattia altamente invalidante, frequente nei lavoratori della canna da zucchero (per approfondire, leggi il nostro dossier sulle condizioni di lavoro in questa filiera).

Lo staff di progetto è al momento impegnato nella redazione di due manuali destinati a chi è già malato e alle persone a rischio, per informare sulla cura e sulla prevenzione della malattia.

Una delle testimonianze raccolte sul campo, che sarà inclusa nel manuale, è quella del signor Porfirio. Affetto da insufficienza renale cronica, Porfirio ha superato le credenze popolari secondo cui la dialisi peritoneale farebbe sì che i pazienti della malattia muoiano più velocemente, e si è sottoposto al trattamento per 12 anni riuscendo a vivere una vita abbastanza serena.

Ecco il suo racconto:

“Il dottore disse a mio figlio maggiore e a mia moglie e che sarei potuto sopravvivere solo iniziando la dialisi peritoneale, ma la mia famiglia ha avuto paura e così firmarono perché non lo facessi. Quando il dottore mi dimise, gli chiesi perché mi mandavano a casa se non stavo bene, e lui mi spiegò la situazione.
Pensai a mia figlia che aveva solo 9 anni e che avrei voluto vedere crescere.
Non ero ancora pronto a morire: volevo continuare a vivere. Così mi armai di buona volontà e chiesi al dottore di farmi la dialisi, visto che il malato ero io ed ero l’unico che doveva decidere della propria salute.
Il dottore rispettò la mia decisione e mi sottopose al trattamento.
Sono passati già 12 anni in cui, giorno per giorno, lotto con questa malattia. Mia figlia ora ha 20 anni e sta finendo il quarto anno di università in scienze naturali.
È stato difficile per me e per la mia famiglia, ma ho preso la decisione migliore. Il modo migliore per continuare a vivere è seguire le indicazioni dei dottori.”

(Nella foto, un momento di lavoro dello staff di progetto)