L’ORTO COLLETTIVO: ALTERNATIVA “FRIENDLY” E SOSTENIBILE

Marlene Dattoli Negli ultimi anni si è diffusa l’accettazione del cambiamento climatico dovuto all’uomo come risultato globale che sta influenzando ogni aspetto della stessa vita umana. A questo proposito, il senso di responsabilità e di impegno per lo stato di salute della Terra si è rafforzato, portando ad una maggiore attenzione alle problematiche che la […]

Marlene Dattoli

Negli ultimi anni si è diffusa l’accettazione del cambiamento climatico dovuto all’uomo come risultato globale che sta influenzando ogni aspetto della stessa vita umana.

A questo proposito, il senso di responsabilità e di impegno per lo stato di salute della Terra si è rafforzato, portando ad una maggiore attenzione alle problematiche che la affliggono. Sono state così attuate misure di Prevenzione e Protezione dell’ambiente, grazie anche al generoso supporto da parte di diverse Organizzazioni, che lottano ogni giorno per un mondo migliore.

Preservare la biodiversità del Pianeta è un imperativo che ognuno dovrebbe acquisire nella propria vita, impegnandosi costantemente e concretamente nella tutela ambientale attraverso comportamenti virtuosi e sostenibili.

A questo proposito ho deciso di testimoniare un esempio di giustizia ambientale focalizzandomi sul tema della coltivazione collettiva come esempio di impegno sociale, con l’obbiettivo di favorire la crescita di prodotti eco-sostenibili e salutari con il lavoro comune. In questo modo la natura ci guadagna e il mondo dell’industria riceve un buon esempio.

In particolare, ho deciso di raccontare l’orto botanico all’interno della Cooperativa Sociale Gruppo Arco (un ambiente naturale ricreato artificialmente, che raccoglie una grande varietà di piante) con un’intervista di tipo qualitativo ad Eros, Responsabile dell’orto collettivo e Operatore dei servizi alla disabilità Cad l’Arco.

Come nasce l’idea di creare un orto botanico?

Eros: Dalle esperienze pregresse in ambito orticolo svolte in differenti altre realtà cooperative, sia a Tirono che in provincia, abbiamo maturato saperi nella coltivazione e nel mantenimento di un orto tali da poterli spendere anche all’interno della struttura della cooperativa Arco, dapprima attraverso un gemellaggio con la scuola media di Via Frejus, ed ora grazie alla disponibilità dello spazio sul tetto della struttura.

Quando è nato e quali sono le attività che si svolgono?

E: L’orto botanico sul terrazzo è nato circa due anni fa, da un movimento spontaneo nato in seno al servizio di social housing della Cooperativa Gruppo Arco. In seguito, nel secondo anno, si sono affacciate alcune realtà associative del territorio, che hanno iniziato a coinvolgersi sempre di più, e il Centro Diurno Cad L’Arco, che già aveva in essere alcune attività di giardinaggio e la cura degli orti delle scuole medie.

Pensi che la cura comunitaria dell’orto possa migliorare la relazione tra le persone?

E: Penso che la cura di un orto possa migliorare la relazione con se stessi prima di tutto.

Prendersi cura dell’orto può contribuire a migliorare stati di disagio psicofisico?

E: Assolutamente sì, prendersi cura di un organismo vivente, come una pianta, che ha bisogno di cura, che cresce, che cambia nel tempo, restituisce a chi la cura il senso del tempo, il senso del movimento, la capacità di restituire al mondo qualcosa creato da sé. Vi sono molti esempi anche in letteratura, da Emilia Hazelip a Howard Odum, su come la crescita e la trasformazione delle società passi da un approccio maggiormente condiviso con la terra.

La pratica dell’orto collettivo può creare un effetto positivo sull’ambiente? Se sì, come?

E: L’ambiente può essere inteso in vari modi. C’è un giovamento negli odori, nei colori che si percepiscono, c’è un effetto positivo per chi partecipa e per chi solo ci passa accanto e può approfittare di una pausa, di un po’ di colore, di un odore migliore rispetto allo smog cittadino. C’è un ritorno positivo sociale, se intendiamo l’ambiente sociale, forse non pienamente realizzato in questo caso, essendo l’orto posto in un luogo lontano dalla vista del pubblico.

Pensa che questa pratica condivisa, che si sta diffondendo in diverse città, orienterà le persone ad intraprendere un percorso di coltivazione personale e più genuino?

E: Chi si avvicina, per curiosità o per noia, agli orti collettivi fa una scoperta straordinaria: i costi non sono alti come ci si immagina e gli spazi necessari per avere una piccola produzione di ortaggi casalinghi non sono poi così notevoli . Forse le persone sono, ancora oggi, più attratte dall’aspetto economico e produttivo che dagli effetti benefici, sia a livello fisico che psichico, della coltivazione. Questo, almeno nel nostro caso, non è un aspetto critico, ma anzi si inserisce in quella che vuole essere una nostra pratica: farsi del bene, risparmiando denaro e mangiando più sano!

L’orto è una buona proposta educativa che si propone di regolare il nostro rapporto con l’ambiente, indirizzando in modo oculato le risorse a nostra disposizione.

L’inizio del nuovo secolo ha segnato immense sfide nella nostra lotta, con la consapevolezza che le tematiche ambientaliste globali determineranno il destino di ogni settore dell’attività umana e del benessere. La tutela della natura è un’opportunità e un’occasione, oltre che un dovere.

 

Orti urbani nei cortili delle scuole

Reporter ambientale per un giorno: l’orto urbano della scuola elementare Boselli, frutto di un progetto di Urbanocultura del Comune di Collegno, avvicina i ragazzi alla terra e a uno stile di vita “green”.

di Erica Rebora

Sempre più spesso si sente parlare di orti urbani o di realtà simili che permettono il riavvicinamento alla terra anche all’interno delle città. E questo è il caso dell’orto urbano situato nel cortile della scuola elementare Boselli di Collegno (TO).

Il Comune di Collegno ha infatti lanciato nel 2014 un progetto di Urbanocultura nei cortili delle scuole primarie e secondarie di 1° grado, che ha coinvolto alcuni giovani nel corso degli anni. Tra di essi Riccardo, studente dell’università di agraria e appassionato nel lavorare il terreno, ha aderito all’iniziativa fin da subito.

Nel 2014 il progetto ha coinvolto due ragazzi, per poi estendersi a quattro giovani nell’anno successivo (durante il quale, oltre al cortile della scuola Boselli, è stato adattato ad orto urbano anche quello della scuola media Anna Frank), per poi tornare a due nel 2016. Per quanto riguarda l’anno scorso e quello corrente, è rimasto solamente Riccardo, ex allievo del maestro Paolo Macagno della Boselli, che sembra abbia incoraggiato la nascita del progetto.

Riccardo si occupa della semina, del raccolto estivo, di mettere la rete antigrandine d’inverno e di tutte le altre operazioni necessarie, compra le sementi e le attrezzature occorrenti e, quando arriva il momento, raccoglie i frutti della terra, condividendone una parte con i bambini, a cui ogni tanto tiene delle lezioni in modo volontario.

Nel cortile della Boselli trovano spazio diverse piante da frutto (come cachi o susini), condivisi con la scuola, oltre a numerose varietà di erbe aromatiche, insalata e molteplici altri prodotti (sedano, cipolle, aglio, tapinambur, carote, fragole, uva, carciofi, costine, pomodori, cavolfiori,…), tutti coltivati con l’utilizzo di concime stallatico (un ammendante) e di verderame (per prevenire l’incorrere della peronospora nei pomodori). Il ricorso agli insetticidi è invece limitato alle situazioni di stretta necessità, quando un’epidemia tra le piante minaccia gran parte del raccolto.

Quella dell’orto urbano è una realtà che coniuga vari aspetti positivi: dal riaccostamento alle attività agricole manuali al contatto con la natura, dalla riqualificazione di zone urbane alla possibilità di spiegare ai bambini nelle scuole varie cose sulle piante e di sensibilizzarli in questo modo verso un futuro stile di vita più “green”. Può inoltre far incontrare gruppi di persone e far condividere loro una bella esperienza.

 

NICARAGUA, ANCHE L’ISTRUZIONE SI MOBILITA PER LA PREVENZIONE DELL’INSUFFICIENZA RENALE

Prosegue il nostro impegno in Nicaragua per prevenire e curare l’insufficienza renale cronica, la malattia frequente nei lavoratori della canna da zucchero.

Prosegue il nostro impegno in Nicaragua per prevenire e curare l’insufficienza renale cronica (IRC), la malattia altamente invalidante frequente nei lavoratori della canna da zucchero.

Lo staff di progetto è al momento coinvolto in un’intesa attività di informazione e formazione sul tema rivolta a medici, assistenti sociali, rappresentanti delle istituzioni, docenti e persone appartenenti al mondo dell’istruzione.

Durante queste sessioni viene presentato il nostro progetto, nell’ambito del quale stiamo redigendo un manuale sulla cura e la prevenzione della malattia, vengono diffuse informazioni e ricerche sul tema e raccolto materiale da inserire nello stesso manuale.

Molto partecipata, in particolare, è stata la giornata di formazione e informazione dedicata ai dirigenti e ai tecnici del Ministero dell’Istruzione, che hanno mostrato molto interesse per il progetto e si sono impegnati a diffonderlo nei propri contesti scolastici.

Luisa Amanda Palma, ad esempio, vicedirettrice di una scuola del comune di Chichigalpa, è rimasta molto colpita dalle informazioni fornite sulla IRC e metterà in pratica quanto appreso durante la formazione condividendolo con gli alunni e i genitori, oltre che con i suoi famigliari purtroppo vittime della malattia.

David Moreno, dell’Università Martín Lutero, pensa di replicare la nostra formazione sull’insufficienza renale cronica a vari livelli: con gli studenti, con i docenti del centro scolastico, i genitori e i giovani della comunità.

Leggi il nostro progetto in Nicaragua

UNA PICCOLA RIVOLUZIONE AGROECOLOGICA NEI VILLAGGI DEL BULKIEMDÉ

Conclusa la 2a formazione in agroecologia con i contadini di Sorgou in Burkina Faso: un altro passo verso una piccola rivoluzione socio-cultural-produttiva!

In Burkina Faso si è appena conclusa la seconda formazione in agroecologia con i contadini del comune di Sorgou, impegnati nella produzione orticola e cerealicola (mais, riso, miglio e sorgo fra tutti).

Tre giorni molto intensi di progettazione agroforestale, produzione di compost, bokashi, fertilizzanti fogliari e prodotti fitosanitari, per una agricoltura sostenibile, più attenta alla fertilità dei suoli e alle conoscenze tradizionali.

Foglie di papaya, moringa, neem, letame e cenere sono i protagonisti indiscussi di questa piccola rivoluzione socio-cultural-produttiva che Mani Tese, insieme ad ACRA e agli altri partner di progetto sta portando nei villaggi del Bulkiemdé.

Vivai di piante forestali e leguminose garantiranno nel tempo un aumento della biodiversità in campo e consentiranno ai produttori di avere a portata di mano tutte le risorse per preparare i loro prodotti, senza cercali in natura, rendendoli liberi dall’acquisto di altri input e migliorando la qualità della loro produzione.

L’agroecologia è la strada da seguire: porta all’indipendenza, alla sovranità alimentare e alla riscoperta e valorizzazione di saperi ancestrali che rischiano di essere perduti. Le buone pratiche agricole insomma.

16 APRILE: PER IQBAL E PER TUTTI I BAMBINI VITTIME DI SCHIAVITÙ

Oggi è la Giornata mondiale contro la schiavitù infantile e l’anniversario della morte del piccolo Iqbal Masih. Lo ricordiamo in questo articolo.

Iqbal Masih è stato un operaio tessile, attivista e simbolo della lotta contro il lavoro minorile. Per sempre bambino, ucciso a 12 anni in circostanze tuttora oscure.

Nato nel 1983 in una famiglia pakistana poverissima, iniziò a lavorare a sei anni presso un piccolo imprenditore tessile per estinguere un debito contratto dalla famiglia. Incatenato al telaio, malnutrito, lavorava per 12 ore al giorno, 7 giorni alla settimana. I miseri guadagni, però, non riuscivano mai a estinguere il debito originario di 6 dollari.

Una volta sfuggito a questa schiavitù, iniziò a battersi contro il lavoro minorile, studiando e diventando il volto e la voce di tutti i bambini che come lui venivano sfruttati nell’industria dei tappeti. La sua storia ha ispirato numerosi libri, film e il commosso discorso di accettazione del premio Nobel per la pace di Kailash Satyarthi.

Il 16 aprile, anniversario della morte di Iqbal, è la giornata in cui ricordare che la lotta alla schiavitù infantile continua ad essere una necessità: sono 152 milioni i bambini vittime di sfruttamento del lavoro minorile, e di questi, 73 milioni sono impiegati in lavori pericolosi.

Il lavoro minorile è un fenomeno davvero mondiale: se infatti la metà circa di tutti i bambini vittime di sfruttamento si trova in Africa (72 milioni), nessuna regione del mondo ha completamente eradicato il fenomeno.

I settori in cui i bambini lavorano sono tutti, senza eccezioni: in primis l’agricoltura, sia di sussistenza che commerciale (come abbiamo rilevato recentemente anche in uno studio sulla filiera della canna da zucchero), la pesca, l’allevamento, l’edilizia, le cure domestiche, il terziario, le industrie estrattive e ad alta densità di manodopera, come l’industria tessile.

Il lavoro minorile è causa e conseguenza della povertà, e come tale Mani Tese lo affronta. Se infatti cambiano i modi in cui si manifesta, immutate rimangono invece le circostanze che lo caratterizzano, composte da fattori di spinta e fattori di attrazione. Indigenza estrema, mancanza di alternative economiche per i membri adulti della famiglia, necessità di integrare il reddito famigliare, mancato accesso al credito, sistemi scolastici inaccessibili sono tra i più comuni fattori di spinta. Ma tra i fattori di attrazione non si possono non annoverare le industrie che prediligono l’impiego di bambini in quanto manodopera più economica e docile rispetto agli adulti. Tra queste figura l’industria tessile in India meridionale, dove negli impianti di filatura del Tamil Nadu vengono impiegate illegalmente migliaia di bambine e adolescenti.

Il lungo lavoro sul campo in stretta collaborazione con le associazioni popolari e i movimenti di base ci ha insegnato che garantire l’autosufficienza dei nuclei familiari, a partire dal mondo rurale, è condizione indispensabile perché, fra l’altro, i bambini possano andare a scuola anziché dover lavorare.”. Così scrivevamo in occasione della Global March against Child Labour, una marcia che ha attraversato 90 paesi, per arrivare fino a Ginevra e contribuire all’adozione della Convenzione ILO 182 sulle peggiori forme di sfruttamento del lavoro minorile, e di cui Mani Tese è stato coordinatore europeo.

Oggi il lavoro minorile è uno dei focus della campagna i exist . say no to modern slavery contro le schiavitù moderne, e la lotta allo sfruttamento lavorativo dei bambini rimarrà il filo sottile che regge la multiforme trama del nostro impegno di giustizia.

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Immagine di Schumi4ever – Wikimedia (https://commons.wikimedia.org/wiki/File:Iqbal_Masih_placa_Almer%C3%ADa.JPG)

IL DRAMMA DELLA MUTILAZIONE GENITALE FEMMINILE IN GUINEA-BISSAU

Intervista a Fatumata Djau Balde, storica attivista del Paese.

Fatumata Djau Balde è la presidente del Comitato per l’abbandono delle pratiche nefaste per la salute delle donne e dell’infanzia della Guinea Bissau ed è uno degli esempi di attivismo femminista più importanti nel Paese. La incontro nell’ufficio di Mani Tese, poco prima della sua partenza per Lisbona, dove la attende una serie di seminari e conferenze sui diritti delle donne, per cui lotta da tutta la vita, fin da quando era un’adolescente a cui è stata praticata la Mutilazione Genitale Femminile (MGF)*, imposta dalla sua famiglia.

Fatumata sostiene che la differenza tra lei e sua madre risieda nella possibilità di scolarizzazione e più in generale nell’empowerment femminile. Lei infatti ha avuto l’opportunità di studiare contabilità, di insegnare e di seguire un master in studi giuridici. Si dimentica di raccontarmi che è stata anche ministra del Turismo, Solidarietà e Affari Esteri per un breve periodo fino al colpo di stato del settembre 2003. E’ più concentrata a illustrare i dettagli della storia del Comitato, partendo dallo scenario internazionale: nel 1994, a Dakar, si costituisce il Comitato Interafricano per l’abbandono delle pratiche nefaste, ossia mutilazioni genitali femminili, matrimoni precoci, matrimoni forzati, la preferenza per i figli maschi e la pratica della dote. Vi aderiscono 19 paesi africani che creano i comitati nazionali e nel 1995 viene fondato quello della Guinea Bissau.

All’epoca il comitato rappresentava una direzione del ministero degli Affari Sociali che lavorava soprattutto sulla sensibilizzazione contro la mutilazione genitale, ma nel 1998 la guerra civile ne fa cessare le attività. Riprenderà dal 2009 con maggior forza, tanto che a oggi sono 20 le organizzazioni della società civile che lo compongono e, seppur tutelato dal Ministero della Donna, Famiglia e Solidarietà sociale, è un organismo indipendente, come sottolinea Fatumata, che rimarca l’importanza della sua autonomia dal governo.

Negli anni le tematiche affrontate dal comitato aumentano e includono violenza domestica, violenza di genere e scolarizzazione di bambine e ragazze. Tra tutti questi argomenti viene diviene noto in Guinea Bissau soprattutto per la lotta sul tema più difficile da affrontare, ossia la Mutilazione Genitale Femminile (MGF), sia perché insita nella cultura del Paese, sia per le conseguenze che accompagnano la vittima per il resto della sua vita, delle quali si fa fatica a parlare: conseguenze sociali, psicologiche e ovviamente fisiche dovute all’asportazione parziale o totale degli organi sessuali esterni femminili attraverso una lama da taglio e con le quali si stima conviva oggi il 50% delle donne guineensi con età compresa tra 15 e 49 anni.

Lo sa bene Fatumata, che ha subito personalmente questa pratica rituale nella comunità musulmana della città di Bula, da cui proviene. La religione musulmana non deve essere però usata come capro espiatorio: nel Corano infatti, l’argomento non viene neppure citato, ma la presidente mi dice che i leader religiosi seguono più la tradizione che hanno nella testa, che i precetti del profeta.

Queste pratiche tradizionali, esistenti da secoli, non cessano grazie all’esistenza di una legge, ma sicuramente questa può diventare uno strumento di persuasione. Così sta succedendo in Guinea Bissau, dove nel 2011 è stata adottata la legge che proibisce e penalizza la MGF. Fatumata, nel raccontare quel traguardo storico per lei e per il Paese, mi emoziona davvero, descrivendomi come i deputati si alzavano in piedi uno dopo l’altro per votare a favore. Un fatto assolutamente non scontato, visto che la comunità musulmana costituiva la maggioranza nel Parlamento.

Per sottolineare che l’Islam non impone questa pratica, inoltre, 200 Iman di tutto il Paese hanno approvato nel 2013 una fatwa (decreto islamico) che condanna la MGF in nome della religione. Non solo, oggi le testimonianze dirette per la sensibilizzazione avvengono anche all’interno delle moschee. Inoltre 400 comunità hanno dichiarato l’abbandono delle pratiche e la scuola nazionale di salute della Guinea Bissau ha incluso un modulo di studio sulla MGF nel suo programma formativo per assistere in maniera adeguata le donne che l’hanno subita al momento del parto.

Insomma, di traguardi se ne sono raggiunti moltissimi e i dati lo confermano: l’indice di MGF praticata su bambine tra 0 e 14 anni è calato dal 39 al 30% dal 2010 al 2016 e le donne che appoggiano la continuità della pratica sono passate dal 36 al 13%.

Purtroppo, nonostante sia stata proibita e 40 casi siano stati denunciati ai tribunali, la MGF viene ancora praticata a causa soprattutto di una giustizia fragile e lentissima e rimangono ancora molte altre sfide come la maggiore informazione sulla legge contro la violenza domestica. Ma oltre a puntare su strumenti repressivi, serve anche e soprattutto utilizzare quelli educativi.

Il cambio più grande è dunque quello di mentalità e comportamento e ancora una volta la presidente insiste sull’importanza della sensibilizzazione alle ragazze, che hanno il diritto di andare a scuola e ricevere alfabetizzazione ed educazione per raggiungere autonomia ed emancipazione.

L’impegno di Fatumata e dei suoi colleghi è fortemente personale: non esistendo un servizio pubblico di accoglimento per le vittime, nel corso degli anni hanno ospitato a casa propria ragazzine che denunciano matrimonio forzato o scappano dalla MGF e dalla violenza per poi trovare in breve tempo una sistemazione di fortuna da altri parenti, assumendo tutti i rischi che questo comporta. In nome del comitato, la presidente si dichiara estremamente interessata a collaborare con Mani Tese per garantire il funzionamento di una casa rifugio e dei centri di accoglienza di breve permanenza, il cui obiettivo sarà guidare le ragazze verso un inserimento scolastico o la ricerca di un lavoro.

La sua convinzione sull’importanza della formazione è ancora fortissima tanto che, sulla soglia dei cinquanta, Fatuma vuole specializzarsi in diritti umani e insegnare all’università per diffondere le conoscenze e i diritti puntando sui giovani, soprattutto sulle giovani donne di questo Paese.

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* La MGF continua a giustificarsi come preservazione della verginità prima del matrimonio, della purezza e della fedeltà, l’aumento del piacere maschile e soprattutto come tradizione religiosa (nel mondo comunità cristiane, musulmane, ebraiche ed animiste la praticano) e costituisce un rito di passaggio all’età adulta che permette alle bambine e alle donne di compiere adeguatamente il ruolo di sposa, madre e figlia, garantendo l’onore della famiglia. UNICEF stima che almeno 200 milioni di donne e bambine in 30 paesi hanno sofferto la MGF. (fonte UNAF, Union de asociaciones de familiares, www.stopmutilacion.org)

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Fatumata nell’ufficio di Mani Tese a Bissau

LA FIERA DEI PRODOTTI ECO-BIO A LOUMBILA

Il 24-25 marzo si terrà in Burkina Faso una fiera agricola per promuovere il consumo locale e la produzione mediante tecniche agroecologiche.

Nell’ambito del progetto “PARTENARIATO PER UNO SVILUPPO SOSTENIBILE TRA ITALIA E BURKINA FASO” sostenuto da Fondazioni For Africa Burkina Faso, Mani Tese insieme agli altri partner di progetto e ai principali attori legati alla produzione agro ecologica in Burkina Faso, organizzerà il 24 e il 25 una fiera agricola che mira a promuovere il consumo locale e la produzione mediante tecniche agroecologiche a tutto vantaggio della conservazione di suoli e ambiente.

I consumatori avranno modo di conoscere i produttori agro ecologici e acquistare le loro prelibatezze, conoscere i terreni di produzione e le tecniche differenti di coltivazione.

Ecco il video dell’evento:

Di seguito la locandina:

Fiera_eco-bio_burkinafaso_manitese_2018

L’ACQUA E I SERVIZI IGIENICO-SANITARI SONO DIRITTI UMANI!

Le nostre richieste in occasione della Giornata Mondiale dell’Acqua 2018

L’acqua e i servizi igienico-sanitari sono diritti umani!

Per questo motivo, come Mani Tese, dopo esserci spesi per il referendum italiano del 2011 e l’iniziativa dei cittadini europei del 2013, in occasione della Giornata Mondiale dell’Acqua 2018, continuiamo a chiedere che:

1. le istituzioni dell’Unione Europea e gli Stati Membri assicurino a tutti i cittadini il diritto all’acqua potabile e ai servizi igienico-sanitari così come sancito dall’Assemblea ONU nel 2010;

2. l’approvvigionamento in acqua potabile e la gestione delle risorse idriche non siano soggetti alle “logiche del mercato unico” e che i servizi idrici siano esclusi da qualsiasi forma di liberalizzazione;

3. ci sia, a livello nazionale e internazionale, un riconoscimento dell’acqua, delle foreste e dei fiumi come beni titolari di diritti universali che vanno difesi con l’adozione di trattati internazionali che obblighino gli Stati ad agire.