LA RESILIENZA DEI RIFUGIATI SENEGALESI IN GUINEA-BISSAU

L’impegno di Mani Tese per l’autonomia comunitaria dei rifugiati senegalesi inizia con i frutti della terra

di SARA GIANESINI, Coordinatrice progetto “Integrazione dei richiedenti asilo e dei rifugiati senegalesi”

Cacheu nord, confine con la Casamance, la regione del Senegal teatro dal 1982 di un conflitto tutt’oggi irrisolto.
Dagli avvenimenti del 6 Gennaio 2018, in cui sono state brutalmente uccise 13 persone, gli scontri tra esercito Senegalese e ribelli del gruppo indipendentista della Casamance sono ricominciati.

Noi di Mani Tese, presenti sul territorio dal 2017, non perdiamo la volontà di stare a fianco delle comunità di confine che ospitano i rifugiati senegalesi fuggiti nel corso degli anni da questo conflitto dimenticato e senza cronaca.

Lo staff di Mani Tese ha iniziato in questo territorio con non poche difficoltà e problematiche. Un’annata di conoscenza, di conquista giornaliera di confidenza e familiarità con le stesse comunità, ma oggi possiamo raccontare tanti risultati positivi e sorprendenti. Ortaggi, uova, pulcini, piccoli negozi e attività commerciali sono alcuni dei frutti positivi che il team di progetto ha fortemente e con tenacia portato avanti finora.

Il progetto ci vede tutt’oggi a fianco delle comunità per appoggiare la sussistenza e autonomia comunitaria come parte della strategia di Protezione delle comunità ospitanti rifugiati senegalesi.

Quando andiamo a Sougototo, Edjaten, Capal e Barraca Biro e vediamo 40 e più persone che sono operose e instancabili sotto il sole per dare irrigazione agli orti comunitari; quando vedi negli occhi delle persone la volontà che le cose migliorino; quando ti raccontano che le donne stanno anche la notte a dormire a fianco agli orti perché non vogliono perdere il raccolto, le parole non servono.

La campagna orticola è nel pieno e i frutti della terra sono la dimostrazione del lavoro di irrigazione, cura e fertilizzazione naturale per la promozione di una coltura bio come modello di sostenibilità. Noi tutti a São Domingos stiamo aspettando la maturazione dei raccolti per poter gioire con le comunità, vi terremo aggiornati!

NICARAGUA. SFATARE LE CREDENZE POPOLARI PER CURARE L’INSUFFICIENZA RENALE

Il nostro impegno nella prevenzione e cura dell’insufficienza renale cronica, una malattia frequente nei lavoratori della canna da zucchero

In Nicaragua siamo impegnati in un progetto per prevenire e curare l’insufficienza renale cronica, una grave malattia altamente invalidante, frequente nei lavoratori della canna da zucchero (per approfondire, leggi il nostro dossier sulle condizioni di lavoro in questa filiera).

Lo staff di progetto è al momento impegnato nella redazione di due manuali destinati a chi è già malato e alle persone a rischio, per informare sulla cura e sulla prevenzione della malattia.

Una delle testimonianze raccolte sul campo, che sarà inclusa nel manuale, è quella del signor Porfirio. Affetto da insufficienza renale cronica, Porfirio ha superato le credenze popolari secondo cui la dialisi peritoneale farebbe sì che i pazienti della malattia muoiano più velocemente, e si è sottoposto al trattamento per 12 anni riuscendo a vivere una vita abbastanza serena.

Ecco il suo racconto:

“Il dottore disse a mio figlio maggiore e a mia moglie e che sarei potuto sopravvivere solo iniziando la dialisi peritoneale, ma la mia famiglia ha avuto paura e così firmarono perché non lo facessi. Quando il dottore mi dimise, gli chiesi perché mi mandavano a casa se non stavo bene, e lui mi spiegò la situazione.
Pensai a mia figlia che aveva solo 9 anni e che avrei voluto vedere crescere.
Non ero ancora pronto a morire: volevo continuare a vivere. Così mi armai di buona volontà e chiesi al dottore di farmi la dialisi, visto che il malato ero io ed ero l’unico che doveva decidere della propria salute.
Il dottore rispettò la mia decisione e mi sottopose al trattamento.
Sono passati già 12 anni in cui, giorno per giorno, lotto con questa malattia. Mia figlia ora ha 20 anni e sta finendo il quarto anno di università in scienze naturali.
È stato difficile per me e per la mia famiglia, ma ho preso la decisione migliore. Il modo migliore per continuare a vivere è seguire le indicazioni dei dottori.”

(Nella foto, un momento di lavoro dello staff di progetto)

NO A MATRIMONI FORZATI E VIOLENZA DI GENERE: UN NUOVO PROGETTO IN GUINEA-BISSAU

Il 7 marzo, in occasione della Giornata Internazionale della Donna, si terrà l’evento di lancio guineense del progetto “LIBERE DALLA VIOLENZA”

Si terrà mercoledì 7 marzo, in occasione della Giornata Internazionale della Donna, l’evento di lancio guineense del progetto “LIBERE DALLA VIOLENZA: DIRITTI ED EMANCIPAZIONE PER LE DONNE IN GUINEA-BISSAU” (titolo originale: No na cuida de no vida, mindjer – Emancipazione e diritti per ragazze e donne in Guinea Bissau – progetto pilota) promosso dall’ONG Mani Tese, capofila, in collaborazione con ENGIM (Ente Nazionale Giuseppini del Murialdo), FEC (Fundaçao Fé e Cooperaçao), GEIOJ (Gabinete Estudos Informaçao e Orientaçao Juridica) e RA (Rede Ajuda), cofinanziato dall’Unione Europea.

“In tutto il mondo, la violenza contro le donne lascia trasparire l’eredità storica di una società marcata dalla discriminazione di genere – dichiara Paola Toncich, Coordinatrice del progetto di Mani Tese – ma in Guinea-Bissau assume forme diverse e ancora più atroci rispetto a quelle conosciute in Europa, come il matrimonio forzato, il matrimonio precoce e la mutilazione genitale femminile”.

La violenza di genere in Guinea-Bissau

Secondo uno studio* realizzato nel 2011 da organizzazioni di difesa e promozione dell’uguaglianza di genere, l’85% della violenza contro le donne guineensi si manifesta nell’ambiente familiare e nel 67% dei casi gli aggressori sono i coniugi, mentre nel 33% altri membri della famiglia.

Nonostante nel 2014 in Guinea-Bissau sia stata promulgata la “Legge sulla criminalizzazione di tutti gli atti di violenza praticati nell’ambito delle relazioni domestiche e familiari”, non esistono a oggi casi giudicati.

Lo stesso studio indica che nel Paese, tra il 2006 e il 2010 sono stati registrati dalle autorità giudiziarie e di sicurezza 23.193 casi di violenza domestica ma il 71% delle vittime intervistate non ha mai sporto denuncia. In media, solo 5 casi di violenza domestica vengono denunciati al giorno in tutto il Paese. (*“Quadro legal dos direitos humanos”, Liga guineense dos direitos humanos, settembre 2015).

Tre i fattori che dissuadono le donne dal denunciare: la mancanza di conoscenza delle legge e dei diritti legali delle donne; la carenza di competenza di strutture statali e in particolare della polizia; l’assenza di capacità dello stato e delle organizzazioni tradizionali di proteggere le vittime.

I matrimoni forzati

La situazione di incertezza sui dati si acuisce maggiormente quando si analizza il fenomeno del matrimonio forzato, ossia l’unione tra persone senza consenso o contro la volontà dei coniugi o di uno dei coniugi, che in Guinea-Bissau non è ancora stato normato in violazione agli obblighi nazionali e internazionali, in particolare quelli della Costituzione della Repubblica (che proibisce la violenza fisica e morale) e della Convenzione sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione della donna (CEDAW), adottata nel 1979 dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, che la Guinea Bissau ha ratificato nel 1985.

In Guinea-Bissau la pratica del matrimonio forzato è comune a quasi tutte le etnie, che sono più di una decina: il 41% delle donne intervistate in uno studio del 2011 (“Un ritratto di violenza contro le donne in Guinea-Bissau”) ha dichiarato di non aver partecipato alla scelta del marito. In mancanza di una norma di diritto positivo, è infatti quello consuetudinario a essere implementato che determina 14 anni come età minima del matrimonio per le donne.

“Il matrimonio forzato – prosegue Paola Toncich – oltre a influenzare il principio di libertà e di auto-determinazione delle donne, mette in pericolo la loro integrità fisica e morale e rende la situazione ancora più allarmante quando associato al matrimonio precoce, con conseguenze come abusi sessuali, gravidanze precoci, abbandoni scolastici e mortalità materna”.

Il progetto LIBERE DALLA VIOLENZA

È in questo contesto che prende il via il progetto finanziato dall’Unione Europea “LIBERE DALLA VIOLENZA”, il cui nome originale è ‘No na cuida de no vida, mindjer – Emancipazione e diritti per ragazze e donne in Guinea Bissau – progetto pilota’ che in creolo, la lingua locale, significa ‘Noi ci prendiamo cura della nostra vita’.

L’impossibilità di accesso delle donne al sistema giudiziario formale è una delle sfide da affrontare per assicurare alle vittime sia la protezione giudiziaria che della polizia, insieme a quella di garantire i servizi sociali di emergenza per facilitare il recupero e il reinserimento sociale delle donne vittime di violenza e delle ragazzine che scappano dal matrimonio forzato.

Il ruolo di Mani Tese all’interno del progetto sarà proprio quello di rafforzare, in collaborazione con GEIOJ (Gabinete Estudos Informaçao e Orientaçao Juridica), i centri di accesso alla giustizia e la polizia locale attraverso una formazione specifica sull’argomento e costruendo una rete integrata di accompagnamento e servizi specifici per le vittime, in cui saranno coinvolti anche i responsabili dei servizi psicosociali.

“Nel Paese si creeranno ed equipaggeranno tre centri regionali di servizio di attenzione alla vittima e una casa rifugio, che si occuperanno di fornire assistenza educativa, psicosociale e legale – conclude Paola Toncich – Inoltre si selezioneranno alcuni spazi informali, costituiti da un certo numero di famiglie che, in modo autonomo e indipendente, accolgono le donne. L’obiettivo è dotare questi differenti spazi d’accoglienza di una metodologia comune, da costruire attraverso la partecipazione dei partner, delle organizzazioni della società civile e dei ministeri competenti”.

Le attività si svolgeranno in collaborazione con la ONG portoghese Fundaçao Fe E Cooperaçao (FEC) e l’associazione italiana Ente Nazionale Giuseppini del Murialdo (ENGIM). La prima si occuperà di educazione parentale e coniugale in 46 comunità di 4 regioni del Paese (Quinara, Tombali, Bafatá e Gabu) attraverso il partner locale Rede Ajuda (RA), che formerà agenti socio-comunitari. Oltre alla formazione, FEC promuoverà anche campagne di sensibilizzazione nelle comunità selezionate sui diritti delle donne e delle ragazze e rafforzerà i centri regionali per il sostegno alle vittime e la linea telefonica esistente per le denunce.

ENGIM si concentrerà principalmente sulla prevenzione della violenza di genere e sull’empowerment delle donne guineensi attraverso l’attivazione di un corso di formazione professionale in hoteleria e gestione domestica rivolto alle ragazze dai 12 ai 14 anni residenti nel settore autonomo di Bissau per favorire l’acquisizione di competenze professionali e garantire nel contempo una celere segnalazione dei casi sospetti di violenza. Inoltre promuoverà il sostegno di 4 microimprese di donne e la creazione della prima agenzia di occupazione per le donne.

I diversi attori coinvolti si riuniranno periodicamente intorno a un tavolo tematico che avrà, come obiettivo, quello di lavorare alla costruzione di un Piano nazionale di prevenzione e lotta contro la violenza domestica e di genere per diffondere una cultura di pace e uguaglianza di genere.

TRAFFICKING: PROSEGUE IL NOSTRO IMPEGNO A POIPET

Lo staff di Damnok Toek nostro partner in Cambogia, visita regolarmente le comunità di Poipet e assiste migliaia di bambini e adolescenti

La Cambogia continua ad essere uno dei Paesi più poveri al mondo: l’ultimo indice di sviluppo umano dell’UNDP lo posiziona infatti al 143esimo posto su un totale di 188 paesi.

In queste foto vediamo la triste realtà di alcune aree di Poipet, città al confine con la Tailandia da cui ogni giorno partono e rientrano decine di migranti cambogiani.

Lo staff di Damnok Toek, nostro partner dal 2008, visita regolarmente le comunità di Poipet e assiste migliaia di bambini e adolescenti. Alcuni di questi, vittime di trafficking e/o abusi, vengono accolti nel Centro di accoglienza. Grazie al progetto “Bambini al sicuro” possono vivere all’interno di un luogo protetto in cui crescere, frequentare la scuola e corsi di inglese, sport, informatica e arte-terapia, ricevere cure mediche e assistenza psicologica e, se le condizioni lo permettono, essere reinseriti nelle proprie famiglie d’origine.

Sostieni il progetto “Bambini al sicuro” partecipando alla Milano Marathon.

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Foto di Damnok Toek
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Foto di Damnok Toek
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Foto di Damnok Toek

 

PER L’8 MARZO RENDI UNA DONNA LIBERA E INDIPENDENTE

Per la Giornata Internazionale della Donna non limitarti a una mimosa: scegli un dono solidale a sostegno delle donne in Kenya, Guinea Bissau o Cambogia.

Sono tante, nel mondo, le donne vittime di abusi o costrette a vivere in condizioni di povertà. Per la Giornata Internazionale della Donna non limitarti a una mimosa: sostieni l’indipendenza economica delle donne coinvolte dai nostri progetti di sviluppo in Kenya e in Guinea Bissau, o libera le bambine dal trafficking in Cambogia con un dono speciale.

SCEGLI I NOSTRI REGALI SOLIDALI

COMPILA SUBITO IL MODULO D’ORDINE

GUINEA-BISSAU, AL MERCATO CON LA VIDEOCAMERA

Un video girato dai ragazzi del progetto “Antula è giovane!” presso il mercato di Antula durante un corso di riprese

Stefano e Daniele di Narvaloo Routes sono due videomaker toscani che hanno cercato di raccontare attraverso le immagini la Guinea-Bissau e il Senegal.
Li abbiamo incontrati a luglio a Bissau, dove hanno organizzato un corso di riprese video per i giovani del progetto “Antula è giovane!”, che abbiamo recentemente realizzato nel Paese. Una delle attività è stata quella di lasciare girare i ragazzi per il proprio quartiere armati di videocamere.

Ecco il risultato di un video girato al mercato di Antula!

Tamil Nadu, la sofferenza delle adolescenti che lavorano nel tessile

India. I risultati di uno studio comparato sulle condizioni di salute di tre gruppi di adolescenti nei distretti di Coimbatore, Tirupur ed Erode.

L’industria tessile ha vissuto una crescita esponenziale negli ultimi vent’anni. Se nel 2000, infatti, erano venti milioni le persone che impiegava direttamente, oggi si stima siano fra i 60 e i 75 milioni i lavoratori del settore tessile, manifatturiero e calzaturificio. Circa tre quarti di questa forza lavoro è costituita da donne, il che lo rende uno dei principali settori di impiego di manodopera femminile nel mondo.

La crescita dell’industria tessile ha seguito un modello di sviluppo pressoché unico, nei principali paesi europei e nel nord America. Le industrie nazionali hanno progressivamente spostato in paesi in via di sviluppo la produzione delle materie prime e gran parte delle successive fasi di lavorazione. Pur non disponendo, spesso, delle materie prime necessarie, questi paesi possedevano due elementi fondamentali per questo nuovo modello industriale: manodopera a basso costo e in abbondanza, e impianti legislativi fragili.
Lo sviluppo globale dei trasporti e della logistica ha consentito alle merci di viaggiare sempre più velocemente e a costi sempre più contenuti, e questo, unitamente a politiche commerciali favorevoli, ha contribuito a creare e mantenere nel tempo le condizioni necessarie all’espansione dell’industria tessile.

In questa crescita non sono stati solo i numeri, i volumi e i fatturati a lievitare; si sono moltiplicati anche gli attori coinvolti attivamente nei processi di lavorazione, e la filiera è passata da una catena di produzione tendenzialmente lineare e geograficamente contenuta, a un’intricata ragnatela che connette tutto il mondo.
Oltre il 70% delle importazioni tessili verso l’Unione Europea proviene da paesi asiatici; l’India è un paese importante non solo per la produzione di indumenti, ma in larga parte anche per la produzione di filato.

In India l’industria tessile contribuisce al 4% del prodotto interno lordo, e rappresenta l’11% delle esportazioni nazionali. E’ il secondo settore di impiego più grande del paese, con oltre 45 milioni di lavoratori, in larga parte lavoratrici.

In India possiamo osservare il lato oscuro di un modello di produzione e sviluppo basato sulla precarizzazione non solo delle relazioni tra committenti (inter/nazionali) e produttori, ma anche del rapporto tra lavoratore e azienda.

Se abbondano infatti i produttori locali di tutte le dimensioni e capacità, sono le grandi multinazionali a dettare le leggi, i tempi e i margini di guadagno del mercato, col rischio che per abbattere i costi e rimanere competitivi, siano gli ultimi, i più piccoli e i più vulnerabili a pagare i costi reali della produzione.

La mancanza di una normativa internazionale cogente, che imponga la trasparenza della filiera tessile in tutti i fornitori che la compongono, contribuisce ulteriormente al mantenimento dello status quo. Il gruppo di lavoro all’interno del Consiglio ONU per i diritti umani per un trattato vincolante delle Nazioni Unite in materia di imprese e diritti umani è impegnato per colmare questa lacuna normativa, ma nel frattempo il prezzo più alto delle violazioni dei diritti da parte delle imprese continua a essere pagato dai soggetti più deboli.

In India, nello stato meridionale del Tamil Nadu, a pagare questo prezzo sono giovani, giovanissime donne e adolescenti impiegate nelle migliaia di impianti di filatura che punteggiano la brulla campagna. Le fabbriche sorgono ai lati dell’unica strada che collega le principali cittadine, da nord a sud – alti cancelli che nascondono allo sguardo e interminabili mura che respingono il visitatore curioso con cocci di vetro e filo spinato.

Entrano donne, ragazze, adolescenti; escono camion carichi di bobine di filato.

Cosa succeda dietro quei cancelli e quelle mura, in alcuni casi lo sappiamo solo grazie ai racconti delle ragazze e ai segni che portano sul corpo. Lo sappiamo perché una delle attività che svolgiamo in India, in collaborazione col nostro storico partner locale SAVE, è proprio il monitoraggio delle violazioni dei diritti del lavoro.
Tali violazioni riguardano ovviamente, in primis, le lavoratrici impiegate nell’industria – ma emerge con sempre maggiore chiarezza uno scenario le cui conseguenze hanno un impatto inter-generazionale.

Il St. John’s Medical College di Bangalore, in Karnataka, ha recentemente effettuato uno studio comparato sulle condizioni di salute di tre gruppi di adolescenti nei distretti di Coimbatore, Tirupur ed Erode: lavoratrici attualmente impiegate (e impiegate da almeno un anno) nell’industria tessile; adolescenti impiegate in passato nello stesso settore, e infine adolescenti che non sono mai state impiegate.

Dal punto di vista fisico, le adolescenti lavoratrici presentano uno status nutrizionale deficitario e sono generalmente sottopeso, rispetto agli altri due campioni esaminati. Presentano una diffusa anemia, irregolarità nel ciclo mestruale e sintomi di stress fisico e mentale.

Sia le adolescenti attualmente impiegate sia le ex lavoratrici lamentano dolori muscoloscheletrici, specialmente al collo e alle spalle a causa dei movimenti ripetitivi, dei turni di lavoro eccessivamente lunghi e della mancanza di periodi di riposo adeguati. I dolori sono così forti da impedire, in alcuni casi, un impiego normale per circa un anno.
Lo stress psicologico è dovuto anche alla limitata libertà di movimento, per le ragazze che oltre a lavorare risiedono anche all’interno delle fabbriche stesse, dove non hanno accesso spazi e momenti ludici e ricreativi. Ma è proprio in questo ambito che i risultati della ricerca sono più sconvolgenti. Rispetto al campione di adolescenti che non sono mai state impiegate, tra le lavoratrici e le ex lavoratrici si registra un’elevatissima ricorrenza di pensieri suicidi, di tentativi di suicidio e di disturbi comportamentali dovuti ad abusi fisici e verbali subiti durante il lavoro.

L’impiego delle adolescenti negli impianti di filatura della zona è spesso l’unica opportunità economica per famiglie che non riescono più a sopravvivere – come hanno tradizionalmente fatto – grazie all’agricoltura; il lavoro delle ragazze è attivamente promosso anche perché possano mettere da parte i soldi necessari per pagarsi una dote e ambire a un buon matrimonio.

Il loro impiego, tuttavia, non apporta benefici duraturi, e non si rilevano significativi miglioramenti delle condizioni socioeconomiche delle famiglie di origine e delle nuove famiglie che vengono a crearsi. Al contrario, le conseguenze a lungo termine sulla salute psicofisica delle adolescenti impiegate nell’industria tessile rischiano di metterne in pericolo il futuro.
I loro diritti, come i diritti di tutte le persone che subiscono violazioni a causa dell’operato del mondo del business, devono diventare una priorità nell’agenda politica nazionale, europea ed internazionale. La ragnatela delle filiere produttive globali deve diventare sempre più una filiera trasparente di diritti e opportunità condivisi.

Per approfondire:

Il nostro progetto in India

IN MOZAMBICO L’AGRICOLTURA DI CONSERVAZIONE INIZIA A DARE FRUTTI!

Obiettivo, tramite il Progetto Foreste, è contrastare gli effetti dei cambiamenti climatici e ridurre l’impatto delle attività umane sulle risorse naturali

Grazie al progetto FORESTE, finanziato dall’Agenzia Italiana per la Cooperazione allo Sviluppo, in Mozambico promuoviamo l’adozione di tecniche agroecologiche, ed in particolare di agricoltura di conservazione, per contrastare gli effetti dei cambiamenti climatici e ridurre l’impatto delle attività umane sulle risorse naturali.

L’agricoltura di conservazione è un insieme di buone pratiche di gestione integrata del suolo, dell’acqua e delle coltivazioni che si basa su 4 tecniche principali:

  • Movimentazione/lavorazione minima o nulla del suolo
  • Copertura del suolo con scarti agricoli/foglie tagliate
  • Rotazione e consociazione delle colture
  • Divieto di utilizzo di prodotti chimici (fertilizzanti, pesticidi, erbicidi)

In queste foto vediamo le machambas, o campi, delle 10 comunità della Provincia della Zambézia in cui interveniamo.

Saranno 300 gli agricoltori che miglioreranno le modalità di coltivazione grazie a queste tecniche di conservazione del suolo che, oltre ad arricchire e proteggere i terreni, produrranno alimenti diversificati e piante medicinali anche durante la stagione secca.

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La fase di trapianto degli ananas
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Consociazione di ananas (abacaxi), arachidi e sesbania (specie arborea leguminosa)

 

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La machamba, il campo, si prepara a dare i suoi frutti
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Pacciamatura ovvero la copertura del suolo
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Tutto pronto per il trapianto delle barbatelle di anacardio
mozambico_machamba_mani tese_2018
Una machamba che produce arachidi, fagioli, ananas, banane e, un giorno, pure gli anacardi