La cerimonia, svoltasi a Gabu in Guinea-Bissau il 23 ottobre 2018, è stata aperta da un artista locale, Abdul Embalo, che ha presentato la sua ultima canzone, Diversidade Cultural,vincitrice del premio PLURAL+ (promosso da UNAOC e IOM).
Abdul è un migrante di ritorno, rientrato in Guinea-Bissau nel 2016 grazie all’appoggio dell’IOM in Niger. Oggi canta per sensibilizzare i giovani sui rischi della migrazione irregolare e per dar loro fiducia nelle opportunità economiche e produttive del loro Paese.
Il suo messaggio non avrebbe potuto essere più pertinente dal momento che la messa in luce di queste opportunità è proprio il focus del progetto “Ritorno alla terra”.
Come hanno spiegato, durante l’evento, Piero Meda di Mani Tese, il Coordinatore di progetto, e gli altri membri dell’equipe, gli obiettivi e le principali attività dell’ambizioso progetto sono la valorizzazione delle opportunità economico-produttive in campo agricolo e zootecnico del territorio, per agire sui fattori di spinta che inducono alla migrazione irregolare e per promuovere la reintegrazione socio-professionale dei migranti di ritorno e dei minori nelle comunità originarie.
È toccato poi ai partner di progetto (Asas de Socorro e AMIC) spiegare le attività di loro competenza ed esortare i giovani e le famiglie a partecipare in massa alle attività previste.
Il rappresentante di Asas de Socorro, Wilson Cá, ha aggiunto: “Investire il proprio tempo nell’allevamento dei polli e delle galline è come investire nel futuro della propria famiglia. Oggi hai un pulcino e domani un pollo, oggi hai un uovo e domani ne hai dieci. La nostra ONG si batte nella lotta contro l’insicurezza alimentare e per l’indipendenza della produzione alimentare in Guinea-Bissau. I sette pollai saranno un esempio per tante famiglie e per tante comunità. Lo abbiamo già sperimentato in molte regioni, e sappiamo che anche a Gabu e Bafata raggiungeremo ottimi risultati”.
Il rappresentante di AMIC, Fernando Cá, ha invece illustrato un altro aspetto del progetto, ovvero le attività con i bambini talibé. Fernando ha spiegato che Gabú è regione con il maggior numero di bambini vittime di tratta e traffico e che il fenomeno purtroppo continua.
Il progetto è stato infine inaugurato ufficialmente dalle autorità presenti, ovvero il Governatore della regione di Gabu, il Regulo centrale (la massima carica del potere tradizionale), la Presidente dell’Istituto Nazionale della Gioventù (del Ministero dell’Educazione, Cultura, Gioventù e Sport), i delegati regionali del Ministero dell’Agricoltura, Veterinaria e Educazione e il rappresentante IOM, oltre ai responsabili delle associazioni giovanili e femminili delle regioni di Gabu e Bafata. Le autorità hanno augurato buon lavoro a tutta l’equipe e si sono auspicate di poter contribuire al raggiungimento degli obiettivi prefissati.
La presidente dell’Istituto Nazionale della Gioventù, in particolare, ha invitato i giovani e i migranti di ritorno a partecipare al progetto da protagonisti e ad appropriarsi del Centro Multifunzionale della Gioventù, che verrà animato dal progetto attraverso l’apertura di un punto informazioni.
LE CONTRADDIZIONI DELL’ECUADOR: BIODIVERSITÀ, CACAO E SFRUTTAMENTO
Tra gli asset dell’Ecuador c’è il cacao, ma proprio chi lo coltiva è l’ultimo a riceverne benefici. Mani Tese opera perché le piccole filiere riescano ad accedere al mercato puntando sulla qualità.
di STEFANO LECHIARA, Ufficio Advocacy di Mani Tese, e CLAUDIA ZANINELLI, Ufficio Cooperazione Mani Tese
TRA GLI ASSET DEL PAESE C’È IL CACAO, MA PROPRIO CHI LO COLTIVA È L’ULTIMO A RICEVERNE BENEFICI. MANI TESE OPERA PERCHÉ LE PICCOLE FILIERE RIESCANO AD ACCEDERE AL MERCATO PUNTANDO SULLA QUALITÀ
Attraversato dall’Equatore e dalla cordigliera andina, l’Ecuador è il Paese più ricco di biodiversità al mondo. Malgrado un deciso sviluppo del settore terziario, che ha contribuito al considerevole incremento del PIL degli ultimi anni – non sempre omogeneo dal punto di vista della distribuzione sociale –, la sua economia è in larga misura ancora fortemente legata all’esportazione del petrolio e a un tipo di agricoltura che privilegia il modello di agri-business. La proliferazione di progetti estrattivi e la crescente estensione delle aree coltivabili a scapito delle foreste, minacciano la salute pubblica, i diritti dei popoli indigeni e mettono a rischio l’immenso patrimonio ambientale che impreziosisce il paese.
La nuova Costituzione
Nel 2008 è stata promulgata una nuova Costituzione ispirata al concetto del “sumak kawsay” o “buen vivir”, che consiste nella promozione di un nuovo assetto economico e politico improntato all’inclusione sociale e all’armonia tra comunità umane e natura. L’Ecuador vive dunque la contraddizione di un Paese attraversato da spinte culturalmente innovative a cui, però, fanno da contrappeso interessi economici apparentemente irrinunciabili.
Il lavoro di Mani Tese
Mani Tese è presente in Ecuador da circa 20 anni. Attualmente è impegnata nel progetto “Cacao corretto: Rafforzamento delle filiere del cacao e del caffè per la sovranità alimentare dell’Ecuador” (AID-010577), cofinanziato dall’AICS e implementato da COSPE in collaborazione con Mani Tese, FIAN Ecuador e CEDERENA. L’obiettivo è quello di contribuire alla sovranità alimentare mediante il rafforzamento delle filiere del cacao e del caffè, attraverso la promozione di processi di agroecologia, economia sociale e pianificazione territoriale partecipativa nel nord e nella regione centrale costiera. In questo contesto, una delle attività a cura di Mani Tese prevede la sistematizzazione delle buone pratiche di sovranità alimentare sviluppate grazie al progetto, attraverso la divulgazione di un report specifico sulla filiera del cacao in Ecuador.
Cacao per vivere
L’Ecuador è tra i primi quattro Paesi al mondo per produzione di cacao, con un volume di circa 265.000 tonnellate annue. Le foreste ecuadoriane, caratterizzate da un clima mite e alberi ad alto fusto, offrono condizioni ambientali ottimali per la coltivazione di “Cacao Arriba Nacional”, che rappresenta il 63% della produzione mondiale di “Cacao Fino de Aroma”, la varietà più pregiata e rara al mondo. L’agricoltura familiare è alla base dell’intero settore, con oltre 100.000 piccoli produttori ecuadoriani che si occupano di coltivare, raccogliere, fermentare ed essiccare il cacao. Sebbene l’approvvigionamento di cacao dipenda quindi quasi interamente da piccole piantagioni a conduzione familiare, con un’estensione media inferiore ai cinque ettari per “finca”, i piccoli produttori rappresentano l’anello più debole dell’intera catena commerciale. Secondo le stime più recenti, infatti, la fetta di guadagno dei coltivatori diretti varia tra il 6 e l’8% del valore aggiunto totale generato dalla vendita dei prodotti a base di cacao.
Nelle province di Manabì, Esmeraldas, Pichincha, Imbabura e Carchi, situate nel Nord dell’Ecuador e nella regione costiera centrale, vivono 500.000 persone. Qui si concentrano le maggiori coltivazioni di cacao fine dell’Ecuador. La maggioranza della popolazione soprattutto in area rurale ha scarso accesso a sistemi di acqua potabile e fognature, e vive in case di legno e bambù. Oltre a cause che possiamo considerare strutturali, la povertà deriva dalla scarsissima redditività connessa al proprio lavoro di agricoltori. Un paradosso, se consideriamo il grosso peso del cacao nell’export ecuadoriano (705 milioni di dollari solo nel 2015), con il 6,5% della produzione mondiale che deriva proprio da questo paese.
L’incapacità di trarre un equo profitto dalla vendita del cacao dipende da una combinazione di fattori. Da un lato vi sono ragioni globali connesse al mercato e dall’altro, invece, vi sono questioni legate al contesto ecuadoriano: la maggior parte dei produttori non è legalmente proprietaria della terra che coltiva, con la conseguente difficoltà nell’accesso a servizi pubblici e finanziari; i processi produttivi si caratterizzano per una qualità scadente; la compravendita di cacao in grani è dominata da intermediari che, approfittando di una situazione di oligopolio e dell’isolamento dei produttori, pagano a questi ultimi un premio nettamente inferiore rispetto al valore di mercato.
Sostegno alle filiere di qualità
Il progetto “Cacao corretto” ha promosso un intervento di rafforzamento delle piccole filiere di alta qualità del cacao e del caffè con l’obiettivo di garantire un maggiore accesso al mercato e, di conseguenza, un miglioramento economico e sociale all’interno delle comunità rurali di riferimento. Grazie alla collaborazione con aziende italiane come Venchi, oltre duemila produttori di cacao hanno
beneficiato di assistenza tecnica di campo continuativa e di un percorso pluriennale di formazione sulla gestione delle piantagioni e sulle pratiche di post raccolta e processamento. Unite alla consegna di impianti produttivi, mezzi e strumenti di lavoro, queste attività hanno raggiunto il risultato di migliorare la qualità del cacao nonché la produttività stessa. Ogni ettaro coltivato a cacao nazionale, dopo il progetto, rende quasi il 50% in più.
Un secondo asse di intervento ha riguardato l’empowerment di 4 organizzazioni di produttori di cacao: COCPE, APROCANE, ASOPROAGRIPAIS e ASOPROAGRICACAO. Il progetto è riuscito in diversi intenti: aprire nuovi canali di vendita, sia indiretta che diretta e incrementare il commercio associativo; porre le basi per una micro-impresa in grado di sviluppare pasta di cacao; aumentare il potere di contrattazione; rafforzare la presenza dei produttori alle principali fiere nazionali (ruedas de negocios) e internazionali (come la partecipazione a “Terra Madre” nel 2018) aumentando concretamente la capacità di individuare nuovi potenziali acquirenti. Nello specifico, dotando di un fondo di capitale rotativo le organizzazioni e investendo nella formazione in relazioni commerciali, le associazioni sono adesso in grado di commerciare, complessivamente, il 24% in più di cacao. Una quantità considerevole di questo cacao si piazza ora nei segmenti più elevati di mercato ed il prezzo corrisposto dai buyers alle associazioni non solo è complessivamente maggiore rispetto a quello di borsa, ma è soprattutto più alto rispetto a quello che viene riconosciuto ai singoli produttori che da soli, invece, hanno scarso potere negoziale. Potendo pre-acquistare maggiori volumi di cacao e rivenderli a prezzi concorrenziali, le organizzazioni possono ora assicurare ai produttori un premio più equo: una media di 1.654 dollari per tonnellata contro i 1.372 dollari pagati dai traders locali. Le associazioni, quindi, possono finalmente reinvestire il surplus dei ricavi all’interno delle stesse comunità, ovviando al gap di partenza che impediva loro di offrire servizi adeguati ai soci e agli abitanti delle aree di intervento.
Samuele Tini lavora da anni in Africa per Mani Tese. Dal 2014 è in Kenya, dove ha avviato un progetto di economia circolare per contrastare i cambiamenti climatici.
SAMUELE TINI LAVORA DA ANNI IN AFRICA PER MANI TESE. DAL 2014 È IN KENYA, DOVE HA AVVIATO UN PROGETTO DI ECONOMIA CIRCOLARE PER CONTRASTARE I CAMBIAMENTI CLIMATICI
Diciamolo, l’operato delle ONG non è mai stato così tanto, e spesso così male, sulla bocca di tutti. Quelle che oggi fanno notizia e sono nel mirino del dibattito pubblico sono soprattutto le attività di emergenza umanitaria delle ONG, ma ci sono anche altre azioni, come quelle delle ONG che creano sviluppo nel “Sud del Mondo”. “Noi non salviamo le persone in maniera diretta. Noi le salviamo costruendo sviluppo” mi racconta Samuele Tini, 38 anni, da più di 8 cooperante per Mani Tese “E in un’epoca di poco approfondimento e di molto sensazionalismo, chi fa un lavoro complesso come il nostro, che non si può spiegare in due parole, suscita poco interesse”.
Il tempo per capire
“Bisogna prendersi il tempo per capire” aggiunge. E io oggi voglio prendermi almeno un po’ di tempo per restituire il senso del lavoro di chi, come Samuele, rende possibile l’impossibile in Paesi spesso difficili.
Sono in diretta con lui dal Kenya ma l’intervista comincia in ritardo perché Samuele ha da fare. Ha sempre da fare. “Dovessi timbrare il cartellino credo che oggi avrei accumulato almeno tre mesi di recupero! – scherza Samuele – Io lavoro sempre, anche nei giorni di festa. Il mio lavoro comincia alle 6.30. Spesso vado sul campo per valutare i progressi delle attività di progetto. Altre volte resto in ufficio perché devo occuparmi della gestione amministrativa dei progetti…E poi studio”. Già, lo studio. Si pensa sempre al cooperante come a un lavoro “sul campo”. E in parte è così, in una continua gestione degli imprevisti. Ma per Samuele studiare è altrettanto importante. “Oggi al cooperante sono richieste capacità gestionali sempre più complesse” spiega “A questo si aggiunge la dimensione dello studio e della ricerca che per noi di Mani Tese è fondamentale per proporre idee innovative”.
Energia per il Kenya
Una delle idee apprezzate di Samuele è stata quella di contrastare i devastanti cambiamenti climatici e la deforestazione in Kenya attraverso l’economia circolare. Il progetto “IMARISHA! (termine swahili che significa “ENERGIA”)energie rurali per la lotta al cambiamento climatico e la salvaguardia ambientale“, cofinanziato dall’Agenzia Italiana per la Cooperazione allo Sviluppo, da lui scritto e implementato prevede una complessità di azioni innovative come la gestione partecipata della foresta Mau – la più vasta estensione forestale del Kenya – la costruzione di vivai per la riforestazione e l’uso dell’energia sostenibile per conservare l’ambiente e per migliorare le condizioni della popolazione locale, come quella degli Ogiek. Inizialmente cacciata dalla foresta, oggi la comunità indigena degli Ogiek, anche grazie all’aiuto di Mani Tese, è diventata la guardiana della foresta Mau e collabora con il servizio forestale kenyano per fermare i disboscatori illegali.
Nel mondo, per cambiarlo
Mentre parliamo l’intervista con Samuele viene interrotta. “Yes, yes” gli sento dire “Sema! (“dimmi” in italiano)”. Sorrido perché me lo immagino, adesso, Samuele. Sempre disponibile, sempre sorridente.
“La vita di un cooperante è così, piena di cose da fare”, si scusa, “da una parte la stretta programmazione delle attività, dall’altra gli imprevisti di chi ha che fare continuamente con diverse situazioni. Adesso per esempio dobbiamo portare i pannelli solari nelle scuole, ma piove (ndr: a causa dei cambiamenti climatici le continue precipitazioni in Kenya stanno creando notevoli disagi), l’auto ha dei problemi Insomma, devi essere sempre pronto a rispondere a ogni evenienza, ad avere una flessibilità elevata e una forte resistenza allo stress”.
E Samuele di stress, nella sua vita, ne ha vissuto parecchio. “Il mio interesse per la cooperazione è iniziato presto – mi racconta – quando ho intrapreso gli studi internazionali. La mia famiglia ha sempre avuto un’attenzione particolare per i diritti degli ultimi e di tutte le persone in difficoltà. Mio nonno era sindacalista, mio padre era impegnato nelle Acli”.
Dopo un primo incarico a Nairobi, Samuele ha lavorato in Tanzania per una compagnia locale facendo nel contempo volontariato per la Comunità Papa Giovanni XXIII, che gli ha permesso di capire il valore della cooperazione internazionale. Poi è partito per il Mozambico collaborando con le ACLI, dove si è occupato di un progetto di costruzione di una scuola che oggi conta più di 600 alunni.
In seguito l’esperienza, durissima, in Sud Sudan per realizzare con i Salesiani delle scuole rurali e un centro di supporto per le donne, dove Samuele ha contratto la malaria celebrale. “Eravamo alloggiati in stanzette grandi come piccolissime celle attorno all’ospedale, in compagnia di scorpioni e con i malati di tubercolosi che ci tossivano accanto per tutta la notte. Durante una di queste, la lamiera del soffitto della mia stanza ha preso fuoco per via del troppo calore”.
In quel Paese percorso da conflitti armati, Samuele “ha imparato a cavarsela” apprendendo a gestire progetti complessi in condizioni dure e con mezzi scarsi.
“Dopo questa esperienza sono partito di nuovo per il Mozambico”. È lì che è avvenuto l’incontro con Mani Tese. “Ho conosciuto Elias e Giovanni di Mani Tese a Maputo. – racconta Samuele – Dopo il nostro incontro, abbiamo iniziato una prima collaborazione in Guinea-Bissau con un progetto sulla pesca. Da quel piccolo progetto, in pochi anni, siamo passati a realizzare progetti più complessi come quello sulla tutela dei diritti e il reinserimento dei detenuti finanziato dalla UE riuscendo inoltre a concludere la realizzazione del mercato di Bubaque”.
Dopo questa esperienza, Mani Tese decide di affidare proprio a Samuele l’incarico di aprire una sede in Kenya. Una presenza, quella nel Paese, molto fruttuosa ma sempre più difficile. “Da anni in Kenya le ONG non sono molto amate. – racconta – Il Paese sta crescendo e l’interesse del Governo è più nei confronti delle imprese. Le ONG sono viste un po’ come ‘rompiscatole’ perché spingono per la difesa dei diritti e per la democratizzazione. Inoltre i pregiudizi nei nostri confronti sono molto forti”.
Sì perché, spiega Samuele, l’odio verso gli stranieri non sta solo a casa nostra ma è generalizzato in tutto il mondo. Per questo motivo, mi dice, “il nostro obiettivo è quello di formare le comunità in modo che siano loro stesse a essere portatrici delle proprie istanze. Ci adoperiamo per formarle e dare loro un reddito e, grazie a questo, avere così il tempo di discutere dei loro problemi e di associarsi per farvi fronte”.
In Africa il futuro del pianeta
Quello del cooperante è un mestiere complesso, che non dà stabilità anzi precariato, che comporta una vita piena di sacrifici ed è difficilmente conciliabile con la famiglia. Samuele, tuttavia, ne ha una in Kenya. “Ho avuto la fortuna di incontrare una persona che ha fatto il mio stesso percorso e che ha accettato di seguirmi in Kenya dedicandosi al volontariato”. Con lei Samuele ha due bambine, di 3 anni e di 3 mesi. “Crescono in un ambiente aperto e multiculturale. La più grande va all’asilo ed è l’unica bambina bianca”.
La domanda, a questo punto, mi viene spontanea: “Samuele, ma chi te lo fa fare di fare il cooperante?”
“Io più che ‘cooperante’ preferisco definirmi un volontario internazionale – risponde – perché mi ricorda la dimensione umana del mio lavoro, quella di essere una persona fra le persone, che sente in ciò che fa un arricchimento reciproco e che fa molto più di ciò che gli è richiesto”.
“E poi è qui, in Africa, che oggi si gioca il futuro del pianeta. Nel 2050 metà della popolazione del mondo sarà in Africa e dobbiamo fare in modo che non vengano commessi gli stessi errori che abbiamo commesso noi occidentali nel nostro processo di crescita. È proprio qui, insomma, che possiamo creare un nuovo modello sostenibile di sviluppo”.
Consapevolezza dei propri diritti e partecipazione sono i passaggi obbligati per soddisfare i bisogni e costruire sviluppo. L’approccio di Mani Tese con le comunità destinatarie dei suoi progetti.
CONSAPEVOLEZZA DEI PROPRI DIRITTI E PARTECIPAZIONE SONO I PASSAGGI OBBLIGATI PER SODDISFARE I BISOGNI E COSTRUIRE SVILUPPO
“Grazie al guadagno che ricavo dalla vendita del Garì oggi posso pagare la scuola ai miei figli e garantirgli le cure mediche quando sono malati”. Sono diverse le donne che mi hanno ripetuto questa frase nel corso degli anni durante le mie missioni in Benin. Come anche: “Mio marito ora mi tratta diversamente, mi rispetta e supporta le attività di trasformazione della manioca che faccio con il mio gruppo”. Sono, questi, alcuni dei risultati, non previsti “ufficialmente”, dei progetti di cooperazione di Mani Tese degli ultimi anni, che hanno riguardato il rafforzamento dei gruppi di donne impegnate nelle filiere della manioca, arachidi e soia in due comuni del Dipartimento dell’Atacora.
In Kenya, invece, Mani Tese ha promosso, insieme al partner NECOFA, la formazione dei leader di villaggio sul diritto, in quanto cittadini, a presentare le esigenze delle loro comunità presso le istituzioni pubbliche e ad ottenerne risposta: le loro richieste hanno condotto a un finanziamento governativo per la costruzione di una scuola. Sempre nel Paese, Mani Tese ha promosso in quattro scuole secondarie un percorso di educazione civica sugli articoli principali della Costituzione e sull’importanza della partecipazione e del diritto a esprimere il proprio voto, al cui termine sono state realizzate, in ogni scuola, le elezioni dei rappresentati degli studenti secondo la modalità di quelle politiche ufficiali.
Rights based approach: i diritti contano
Si tratta di alcuni esempi di come le attività di cooperazione di Mani Tese impattino sulle comunità in cui opera anche al di là degli obiettivi dei singoli progetti, creando i presupposti per un cambiamento che deriva innanzitutto da un’assunzione di consapevolezza dei propri diritti e della possibilità di agirli.
Il “Rights based approach” è un approccio promosso nell’ambito della cooperazione internazionale che pone al centro di ogni processo di sviluppo umano i diritti. I beneficiari diventano detentori di diritti mentre le istituzioni diventano titolari di doveri, chiamate a risolvere i problemi della popolazione su cui hanno responsabilità. L’intervento di cooperazione si concentra, da un lato, sul rafforzamento delle comunità rispetto al proprio ruolo, ai propri diritti e capacità e, dall’altro, sul rafforzamento delle istituzioni affinché siano in grado di rispondere in maniera adeguata ai bisogni della popolazione. Anche nel linguaggio, la modalità di cooperazione cambia: non si parla più, per fare un esempio, di fame e sete ma di garantire il diritto al cibo e il diritto all’acqua.
Mani Tese, pur non avendo mai abbracciato ufficialmente questo approccio, nei fatti ne assume molte delle caratteristiche. Da sempre, infatti, lavora a fianco della società civile concentrandosi più sulle comunità (i detentori dei diritti) che le istituzioni pubbliche, sebbene recentemente, in alcuni Paesi africani, si stiano avviando collaborazioni anche con il settore pubblico.
Nel lavoro con le comunità, due sono i principi che Mani Tese applica con un approccio basato sui diritti: la partecipazione e l’ownership. Le comunità sono sempre al centro del progetto, vengono consultate fin dalla fase di analisi dei problemi e dell’individuazione delle possibili soluzioni per poi partecipare, da protagoniste, all’esecuzione dell’intervento. Per questo motivo, una parte consistente dei progetti è costituita dalla formazione, per permettere alle persone coinvolte di acquisire le competenze e le capacità per poter poi realizzare esse stesse il progetto. Per dare ulteriormente valore al loro protagonismo, spesso alle comunità si richiede anche una partecipazione finanziaria o materiale.
Ogni progetto appartiene alla comunità
Il principio sui cui si basa questo approccio è che il progetto appartenga prima di tutto alle comunità che ne beneficiano perché, tramite esso, possano costruire il proprio futuro. Un aspetto tutt’altro che scontato poiché la cooperazione, negli anni, ha adottato un approccio cosiddetto caritatevole, dove l’importante era soddisfare i bisogni senza pensare al processo con cui si arrivava al risultato, senza promuovere ownership e sostenibilità e senza che l’intervento si traducesse in consapevolezza dei propri diritti da parte delle comunità coinvolte.
Una delle esperienze più significative di Mani Tese, in questo senso, è proprio nel settore storicamente più importante per l’ONG: quello del cibo e della sua produzione. Un ambito che veniva chiamato, negli anni ’60 e ’70, lotta alla fame e diventato, nei decenni successivi, sicurezza alimentare. Più di recente, Mani Tese ha scelto di fare proprio il concetto di sovranità alimentare. Nel passaggio tra sicurezza e sovranità alimentare è esemplificato quello da un approccio caritatevole a uno basato sui diritti: mentre per la sicurezza alimentare l’importante è che tutti abbiano sufficiente cibo per una vita dignitosa (non importa né da dove questo cibo provenga né di che tipo sia), nella sovranità alimentare il cibo diventa un diritto e sono le comunità a scegliere cosa produrre, come, quando e dove e di conseguenza come nutrirsi. Da questo, si sviluppano ulteriori diritti come quello alla terra, alla possibilità di prodursi e/o di scegliersi le sementi, alle modalità con cui associarsi, non solo per scegliere cosa produrre ma anche per rivendicare i propri diritti.
Il prezzo più alto lo pagano gli indigeni che combattono l’agribusiness, ma sono sempre di più i Paesi
dove gli attivisti vengono minacciati, intimiditi o vessati. La campagna “In difesa di”, di cui Mani Tese è partner,
lavora per un network internazionale che rafforzi queste battaglie e chi le conduce.
di FRANCESCO MARTONE, Portavoce “In difesa di”
IL PREZZO PIÙ ALTO LO PAGANO GLI INDIGENI CHE COMBATTONO L’AGRIBUSINESS, MA SONO SEMPRE DI PIÙ I PAESI DOVE GLI ATTIVISTI VENGONO MINACCIATI, INTIMIDITI O VESSATI. LA CAMPAGNA “IN DIFESA DI”, DI CUI MANI TESE È PARTNER, LAVORA PER UN NETWORK INTERNAZIONALE CHE RAFFORZI QUESTE BATTAGLIE E CHI LE CONDUCE.
Oltre 200 difensori e difensore dei diritti umani uccisi lo scorso anno principalmente per essersi opposti all’espansione delle attività di imprese del settore dell’agribusiness o dell’estrazione di risorse naturali. La maggior parte di loro erano leader indigeni e indigene, principalmente in quattro Paesi: Brasile, Colombia, Honduras e Filippine. Sono la punta dell’iceberg di una guerra nascosta, sotterranea, contro i difensori e le difensore dei diritti umani. Cifre allarmanti che nascondono una realtà assai più preoccupante e complessa, in cui a migliaia in ogni parte del mondo soffrono per la loro attività a protezione dei diritti umani. Vessati, criminalizzati, perseguitati, minacciati non solo dagli apparati statali e da governi conniventi, ma anche da formazioni paramilitari (si veda il caso della Colombia post accordi di pace), forze di sicurezza private al soldo di imprese multinazionali o dall’avanzata di formazioni politiche xenofobe, razziste e autoritarie. Una situazione che chiama a un rilancio delle iniziative per la difesa e la protezione dei difensori dei diritti umani, assieme a un riesame critico della cornice di riferimento, dei modelli di intervento e delle forme di solidarietà.
Il futuro dei diritti (e di chi li difende)
Temi che sono stati al centro della tre giorni di lavoro per i 150 difensori e difensore dei diritti umani e le centinaia di partecipanti alla Conferenza Globale sui Difensori Dei Diritti Umani, tenutasi a Parigi a fine ottobre. Accanto alle testimonianze dirette di difensori e difensore da ogni parte del mondo, ci si è interrogati sulle sfide future a vent’anni dall’adozione alle Nazioni Unite della Dichiarazione sui Difensori dei Diritti Umani. Un’occasione quindi per un bilancio e per rilanciare le vertenze e le alleanze globali, tra donne difensore, tra organizzazioni indigene, per la difesa dei diritti civili e LGBTI in primis. Si è parlato molto di come contestualizzare il lavoro di protezione nella cornice più ampia di creazione di reti e modelli di cooperazione trasversale, superando la logica della ripartizione di vertenze su base tematica. E soprattutto di dotare le reti che lavorano in sostegno ai difensori dei diritti umani di una serie di strumenti di analisi politica del contesto attuale, necessari per creare connessioni e relazioni tra le varie iniziative in corso. Tutte considerazioni che sono state sin dall’inizio parte dell’approccio che sta caratterizzando il lavoro in Italia della rete In Difesa di – per i diritti umani e chi li difende, di cui Mani Tese è parte integrante, sia a livello nazionale che partecipando al lavoro del “nodo” locale della rete a Milano, attivo verso l’amministrazione comunale per la promozione della proposta di creazione di un programma di accoglienza temporanea per difensori dei diritti umani a rischio. Proprio quest’anno, in concomitanza con il ventesimo anniversario della Dichiarazione ONU sui Difensori dei Diritti Umani, la presidenza italiana dell’OSCE (che terrà il suo vertice ministeriale a Milano ai primi di dicembre) e la candidatura italiana al seggio triennale del Consiglio ONU sui Diritti Umani, la rete ha intensificato le sue iniziative di informazione e advocacy. Da una parte ci si è concentrati sulla Farnesina, ossia sulla leva “diplomatica”, attraverso incontri con difensori dei diritti umani, e scambio di informazioni e proposte su buone pratiche per la protezione dei difensori. Un percorso che ha portato all’assunzione del tema dei difensori dei diritti umani come uno degli impegni presi per corroborare la candidatura dell’Italia al Consiglio ONU. Candidatura cui è seguita poi l’elezione a metà ottobre.
Le città rifugio
Oggi quindi il tema della protezione dei difensori dei diritti umani, del dialogo con la società civile e del supporto alle iniziative e attività del Relatore Speciale ONU sui Difensori dei Diritti Umani (attualmente Michel Forst) sono parte del pacchetto programmatico con il quale l’Italia è presente al Consiglio dei Diritti Umani delle Nazioni Unite. Al momento la rete ha una serie di canali di lavoro con l’ufficio diritti umani della Farnesina e con la Direzione Generale per l’America Latina e il Comitato Interministeriale per i Diritti Umani, e ci proponiamo di aprire un tavolo su Medio Oriente e Mediterraneo. Al contempo abbiamo rivolto la nostra attenzione al lavoro del Comitato Interministeriale per i Diritti Umani e in particolare al Piano di Azione Nazionale su Imprese e Diritti Umani. In occasione della revisione del Piano, sono state formulate proposte, in buona parte accolte, sulle responsabilità delle imprese nel riconoscere e tutelare il ruolo dei difensori dei diritti umani in linea con quanto raccomandato nei rapporti sul tema prodotti dal Relatore Speciale ONU Michel Forst. L’ambito nel quale la rete ha conseguito obiettivi più concreti riguarda il lancio di un piano pilota di “shelter cities” che possano accogliere temporaneamente, se necessario, e comunque accompagnare il lavoro di difensori e difensore, e delle loro comunità ed associazioni. Trento e Padova a vario livello sono incamminate verso la formalizzazione di un programma di accompagnamento e, se necessario, di accoglienza temporanea di difensori e difensore, mentre Milano e altre amministrazioni stanno prendendo in considerazione la possibilità di seguire l’esempio. Impegni a livello ONU, canali di dialogo con il MAECI, programmi di “shelter cities” e linee guida per le imprese sono parte di una “cassetta degli attrezzi” che la rete utilizzerà e metterà a disposizione delle organizzazioni della società civile e dei movimenti sociali in Italia e a livello internazionale dal prossimo anno. Parallelamente continueremo a dare sostegno a chi difende i diritti umani nel nostro Paese, in primis i difensori dei diritti dei migranti e chi viene accusato di crimini di solidarietà. Temi sui quali la rete ha lavorato, ad esempio partecipando al lancio e diffusione in Italia, al Festival SABIR di Palermo, del recente rapporto del Transnational Institute e informando costantemente i relatori speciali ONU sui migranti e i difensori dei diritti umani in merito alla situazione nel nostro Paese.
Anche Mani Tese aderisce alla campagna Riace premio Nobel per la Pace. Restano ancora poche ore per firmare: la raccolta di firme di persone, personalità, istituzioni ed associazioni per proporre la candidatura di Riace e del suo modello di accoglienza a Premio Nobel per la Pace 2019 si concluderà infatti il 30 gennaio…Firma anche tu attraverso uno […]
Restano ancora poche ore per firmare: la raccolta di firme di persone, personalità, istituzioni ed associazioni per proporre la candidatura di Riace e del suo modello di accoglienza a Premio Nobel per la Pace 2019 si concluderà infatti il 30 gennaio…Firma anche tu attraverso uno dei moduli che trovi sotto le descrizione della campagna!
Il 30 gennaio 2019 alle ore 12.00 si terrà la conferenza stampa di chiusura della campagna presso la sede del settimanale Left a Roma, in via Ludovico di Savoia 2/b, nella quale sarà presente Mimmo Lucano.
Di seguito la descrizione della campagna:
NOBEL PER LA PACE A RIACE
Siamo una rete di organizzazioni della società civile, NGO e Comuni che vogliono promuovere una Campagna a favore dell’assegnazione del premio Nobel per la Pace 2019 a Riace, il piccolo Comune calabrese che invece di rinchiudere i rifugiati in campi profughi li ha integrati nella sua vita di tutti i giorni.
Riace è conosciuta in tutta Europa per il suo modello innovativo di accoglienza e di inclusione dei rifugiati che ha ridato vita ad un territorio quasi spopolato a causa dell’emigrazione e della endemica mancanza di lavoro. Le case abbandonate sono state restaurate utilizzando fondi regionali, sono stati aperti numerosi laboratori artigianali e sono state avviate molte altre attività che hanno creato lavoro sia per i rifugiati che per i residenti.
Nel 2018 il Sindaco di Riace, Domenico Lucano, è stato arrestato, poi rilasciato, sospeso dalla carica e infine esiliato dal Comune con un provvedimento di divieto di dimora per “impedire la reiterazione del reato di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina”. Un provvedimento che rappresenta un gesto politico preceduto dal blocco nel 2016 dell’erogazione dei fondi destinati al programma di accoglienza e inserimento degli immigrati, che lasciò Riace in condizioni precarie.
Gli atti giudiziari intrapresi nei confronti del Sindaco Lucano appaiono essere un chiaro tentativo di porre fine ad una esperienza che contrasta chiaramente con le attività dei Governi che si oppongono all’accoglienza e all’inclusione dei rifugiati e mostrano tolleranza in casi di attività fraudolente messe in atto nei centri di accoglienza di tutta Italia e in una Regione dove il crimine organizzato – non di rado – opera impunemente.
Supportare la nomina del Comune di Riace per il Nobel della pace è un atto di impegno civile e un orizzonte di convivenza per la stessa Europa.
La candidatura può essere proposta sottoscrivendo l’apposito modulo da:
– da professori universitari con cattedra in storia, scienze sociali, giurisprudenza, filosofia, teologia; da rettori universitari e direttori di istituti di ricerca sulla pace o sulla politica estera: https://goo.gl/forms/FUPzMH7okIvcOzkm1
Re.Co.Sol – Rete dei Comuni Solidali; Municipio Roma VIII, Forum Italo-Tunisino per la Cittadinanza Mediterranea, Consiglio Italiano del Movimento Europeo, Comunità di base San Paolo, Left, Arci Nazionale – Arci Roma, Comuni Virtuosi, CISDA – Coordinamento Italiano a Sostegno delle Donne in Afghanistan, Noi siamo Chiesa, ISDEE, AIEA Onlus- Associazione Italiana Esposti Amianto, Medicina Democratica Onlus, Tavola della Pace, CBC-Costituzione Beni Comuni, Festival Villa Ada Roma Incontra Il Mondo, Scup Sport e Cultura Popolare, Fondazione Lelio Basso, Associazione per la pace Milano.
“Jacky Può”, il sito per imparare l’economia divertendosi!
Un sito interattivo dedicato ai ragazzi per diventare cittadini senza paura dell’economia superando l’analfabetismo economico
È on line il portale educativo interattivo “Jacky Può” (E chi non può è il suo sottotitolo) dedicato ai ragazzi dai 14 ai 19 anni, ideato da Mani Tese in collaborazione con ActionAid, Fondazione Finanza Etica, Oxfam e WWF e con il contributo dell’Agenzia Italiana per la Cooperazione allo Sviluppo.
Ragazzi a rischio di analfabetismo economico
Gli studenti nella fascia 14-19 anni sono a rischio di analfabetismo economico, dal momento che la loro alfabetizzazione economica avviene (se avviene) fuori dalla scuola, nei contesti educativi informali.
Secondo una ricerca internazionale di ING Direct realizzata da TNS Nipo, il 46% degli italiani non ha una formazione specifica in ambito economico, nonostante l’economia sia al centro della vita quotidiana di tutti.
Tra i cittadini che sostengono di avere ricevuto una preparazione in ambito economico e finanziario, solamente nel 18% dei casi ciò è avvenuto nell’ambito della scuola secondaria, l’11% ha intrapreso degli studi universitari economici, mentre ben il 25% è completamente autodidatta: ha acquisito conoscenze leggendo libri (16%) e informandosi attraverso internet, quotidiani o riviste e programmi televisivi (9%).
Solo una persona su cinque, in sostanza, dichiara di aver sentito parlare di economia a scuola, esclusa l’università.
Una preparazione parziale e insufficiente
“Le fonti di apprendimento non scolastiche offrono in maniera pressoché univoca lo stesso punto di vista, basato sulla concezione di homo economicus, contribuendo a convincere che può esistere un solo tipo di economia” dichiara Giacomo Petitti, Responsabile Educazione e Formazione di Mani Tese.
Definito per la prima volta da Adam Smith e ulteriormente sviluppato da John Stuart Mill, l’uomo economico razionale è uno degli assunti su cui si basano i modelli che hanno dato vita al sistema economico dominante.
“L’homo economicus, tuttavia, ha limiti notevoli – prosegue Petitti – perseguendo come obiettivo la massimizzazione del proprio benessere, non prende in considerazione la complessità delle relazioni e dell’ambiente nel quale è immerso. Agisce in modo individualistico secondo ciò che più gli conviene, senza considerare che il proprio benessere è determinato anche dal buon funzionamento della comunità di cui fa parte e dalla salute dell’ambiente che lo circonda”.
Il portale Jackypuò
Il portale Jacky Può (www.jackypuo.it) è un sito educativo e interattivo pensato per i ragazzi dai 14 ai 19 anni, che parte proprio dall’analisi e dalla decostruzione dell’homo economicus.
Valigetta, carte di credito e macchina sportiva, circondato da banconote e vestito in modo impeccabile: Jackypuò è la caricatura dell’uomo economico razionale, né così vera da incoraggiare l’identificazione, né così lontana dalla realtà da metterla in ridicolo con troppa leggerezza.
Il percorso didattico, pensato soprattutto per le classi con l’accompagnamento dell’insegnante o dell’educatore (a cui il portale dedica una guida specifica), permette ai ragazzi di prendere consapevolezza del modello che Jacky può rappresenta per poi smontarlo e provare a ricostruirlo.
“Il portale Jackypuò – racconta Giosuè De Salvo, Responsabile Advocacy, Educazione e Campagne di Mani Tese – è un’iniziativa che rientra nel progetto ‘New Business for Good. Educare, informare e collaborare per un nuovo modo di fare impresa’ co-finanziato dall’Agenzia Italiana per la Cooperazione allo Sviluppo, che intende favorire la consapevolezza, soprattutto da parte dei giovani, sui vizi del ‘business as usual’ nella costruzione di un futuro sostenibile e sulle virtù dei nuovi modelli d’impresa fondati sull’etica, l’ecologia e l’inclusività”.
“Se la società è multidimensionale, per comprenderla bisogna imparare a pensare in modo sistemico costruendo ponti e collegamenti tra i saperi – aggiunge Giacomo Petitti, Responsabile Educazione e Formazione di Mani Tese – Solo così sarà possibile insegnare agli studenti a sapersi relazionare con gli altri, a riconoscere i propri limiti, a rispettare e saper mettere in discussione le regole, ma soprattutto a immaginarsi nel futuro. Altrimenti a vincere sarà la paura di quello che non capiamo, di ciò che è diverso da noi, delle cose troppo difficili. E invece di una società globale che immagina nuove soluzioni per vivere senza distruggere il pianeta, avremo cresciuto una generazione di cittadini spaventati e frustrati, incapaci di formulare un’opinione superiore ai 160 caratteri”.
IL FRANCO CFA E LE MIGRAZIONI DALL’AFRICA: FACCIAMO UN PO’ DI CHIAREZZA!
La Presidente di Mani Tese: “I Paesi di maggiore provenienza dei migranti in Europa non sono quelli in cui è in vigore il Franco CFA”.
di Sara de Simone, Presidente di Mani Tese
In teoria dovremmo rallegrarci: due personaggi di spicco della politica italiana hanno identificato nelle politiche coloniali di alcuni Paesi europei le cause delle migrazioni. Potrebbe sembrare che sia un primo passo per uscire da un’ottica emergenziale e guardare alle cause più strutturali e profonde del fenomeno, un modo per non parlare più solo di soluzioni securitarie ma di guardare al quadro complessivo.
Purtroppo, però, non lo è: il colonialismo e il neocolonialismo possono sicuramente essere una delle spiegazioni delle cause delle migrazioni, ma il Franco CFA ha ben poco a che vedere con la questione. Come spiega bene un articolo pubblicato da il Post, Il Franco della Communauté Financière Africaine (CFA) è la moneta unica introdotta nel 1945 nelle colonie francesi dell’Africa occidentale e gestita dalla Banca centrale francese che assicura un cambio fisso con l’euro. Se è vero che rappresenta uno strumento di forte limitazione della sovranità dei 14 Paesi che lo utilizzano e che i suoi benefici ricadono principalmente sulle élite, il suo utilizzo ha ben poco a che vedere con l’emigrazione: basti pensare che i Paesi di maggiore provenienza dei migranti in Europa non sono affatto quelli in cui è in vigore il Franco CFA.
Le cause delle migrazioni sono molteplici e complesse: riguardano ad esempio la pressione demografica esercitata da popolazioni molto giovani in Paesi in cui la disoccupazione giovanile raggiunge livelli molto elevati (ad esempio la Tunisia o la Nigeria). Anche in paesi in cui la disoccupazione non è così alta, i livelli salariali sono spesso molto bassi e insufficienti a garantire un tenore di vita decente (ma utili alle multinazionali che scelgono di produrre in Bangladesh o Pakistan, ad esempio, abbattendo il costo del lavoro). Oppure riguardano situazioni di instabilità politica o di conflitto, in cui regimi autoritari riescono a mantenere il potere attraverso politiche repressive e predatorie, spesso col sostegno della comunità internazionale che li considera i custodi della stabilità internazionale o regionale (è il caso, ad esempio, dell’Egitto o del Sudan).
Il (neo)colonialismo insomma c’entra, ma in modo molto diverso e più complesso che per le questioni di politica monetaria. Come abbiamo spiegato nel nostro documento di posizionamento sulle migrazioni, il problema sta nelle modalità predatorie con cui le risorse di molti Paesi africani sono state, e continuano a essere, sfruttate da parte di attori pubblici e privati europei (e non), e nel modo in cui oggi si affronta la questione migratoria con un approccio unicamente securitario e repressivo.