GUINEA-BISSAU, IL DRAMMA DEI BAMBINI TALIBÈ

Intervista a Laudolino Carlos Medina, direttore di AMIC, associazione che si occupa della difesa dei diritti dei bambini in Guinea-Bissau.

Laudolino Carlos Medina è direttore di AMIC – Associaçào dos Amigos da Criança (Associazione amici dei bambini). AMIC opera in Guinea-Bissau dal 1984 in difesa dei diritti dei bambini, coinvolgendo le comunità di origine e la società in generale e contribuendo al reinserimento dei bambini in situazioni di vulnerabilità, come i bambini di strada, le vittime dello sfruttamento economico, della tratta e le ragazzine vittime di matrimonio forzato e precoce.

Dal 2018 AMIC è partner di Mani Tese in diversi progetti: RITORNO ALLA TERRA – processi di inclusione agricola, economica e sociale nel corridoio Gabu e Bafatàcofinanziato dall’Agenzia Italiana per la Cooperazione allo Sviluppo (AICS) ; “Sensibilizzazione sui rischi della migrazione irregolare” finanziato dall’Organizzazione Internazionale per le Migrazione – OIM e nella protezione di minori vittime o fuggite da matrimonio forzato precoce, nell’ambito del progetto “Libere dalla violenza” co-finanziato dalla Delegazione della UE in Guinea-Bissau.

Solo nel 2018 AMIC ha riscattato 164 bambini e dal 2005 una media di 100 a 200 minori l’anno. Nonostante la legge guineana sul traffico 12/2011, i trafficanti arrestati sono stati solo 4 in regime di carcere preventivo e nessuno caso è ancora stato giudicato.

In occasione del convegno NUOVI MURI, NUOVI SCHIAVI, a cui Laudolino interverrà come relatore, lo abbiamo intervistato sul fenomeno del traffico di minori in Guinea-Bissau, in particolare sul dramma ancora poco conosciuto dei bambini talibè.

Quali sono le dimensioni del traffico di minori in Guinea-Bissau?

“Si tratta di una realtà che coinvolge tutto il Paese, è un fenomeno nazionale/interno e transnazionale e la Guinea-Bissau è sia un Paese di origine, sia di transito e in minor misura di destino per le vittime di traffico”.

Quali sono le tipologie di traffico di minori più diffuse?

“Esistono differenti forme di traffico di bambini/adolescenti, ma la più visibile è quella di cui si occupa AMIC dal 2005 (i cosiddetti bambini talibè), ossia dei bambini inviati con l’intenzione di apprendere il Corano in altri Paesi, ma che quando arrivano a destinazione vedono cambiare totalmente il proposito del loro viaggio e vengono sfruttati e destinati alla mendicità, a cui si dedicano tutto il giorno perché devono portare una certa somma di denaro la sera al trafficante, altrimenti vengono severamente puniti.  Molti bambini/adolescenti riescono a fuggire e rimangono in strada, dove vengono intercettati dalla Rete dell’Africa Occidentale per la Protezione dell’infanzia (RAO) – che copre 15 paesi dell’Africa occidentale più la Mauritania – la quale informa AMIC (fondatrice della stessa) che si muove in Guinea-Bissau per localizzare la famiglia.

Anche il matrimonio forzato e precoce presenta caratteri di traffico, definito da due elementi essenziali: mobilità e schiavitù. Molte ragazzine vengono allontanate dalle proprie famiglie, che ricevono una dote, per essere sfruttate e abusate sessualmente da uomini anziani anche dall’altra parte del paese.

Vi sono anche casi nascosti di traffico interno di ragazze per prostituzione che non sono facili da identificare: ristoranti, motel, hotel sulle isole che organizzano feste e offrono ‘servizi’ a clienti locali e turisti”.

Qual è la forma più comune di “reclutamento”?

“Durante una particolare cerimonia religiosa che vede la partecipazione di molte persone, i cosiddetti ‘maestri coranici’, preparano un gruppo di bambini che cantano e recitano versi del Corano. Questa dimostrazione impressiona molto le persone, facendo loro credere che i bambini abbiano padronanza del testo sacro e ricevano un’educazione superiore alla media e facendo sì che le famiglie desiderino che anche i loro figli abbiano accesso allo studio.

Un’altra forma di reclutamento avviene attraverso bambini talibè che ritornano nei loro villaggi e fungono da intermediari, impressionando con elettrodomestici, attrezzature informatiche e altri beni di ‘lusso’ per convincere le famiglie che avranno gli stessi benefici se consegneranno i loro figli.”

Esiste una differenza di genere nel fenomeno del traffico di minori? Quali sono le forme più comuni di sfruttamento?

“Sicuramente il fenomeno riguarda i bambini maschi. Oltre all’elemosina, sono stati rilevati casi di bambini sfruttati anche nelle piantagioni di cotone del sud del Senegal.

Il fenomeno della mendicità riguarda i bambini maschi perché nella religione musulmana sono gli uomini a studiare il Corano. Per ciò che riguarda lo sfruttamento sessuale (matrimonio forzato e precoce) invece questa forma di traffico è specificamente femminile.

Uno studio sul fenomeno in Senegal promosso da UNICEF e Save the Children ha rilevato che su 6.600 bambini mendicanti nella regione di Dakar, il 30% era di origini della Guinea-Bissau. Ma anche la Guinea-Bissau è destinazione di bambini provenienti dalla Guinea Conakry, sfruttati nei campi di anacardi (prodotto più esportato dal Paese), come lustrascarpe o venditori di ricariche telefoniche”.

Anche i famigliari possono essere dei trafficanti?

“Sì, zii, cugini, persone della comunità sono coinvolti nel fenomeno.  In alcune comunità, quando il padre muore, la sposa e la famiglia ‘passano in eredità’ a cugini o zii, che vedono i bambini orfani di padre come pesi e li vendono ai trafficanti”.

Come fornite il vostro aiuto?

“Insieme al Servizio Sociale Internazionale dal 2005 Senegal, Mali e Guinea-Bissau (attraverso AMIC) è stato sviluppato un programma per identificare le vittime, effettuare la ricerca dei famigliari, spiegare loro il fenomeno e garantire un dignitoso rientro nei propri villaggi con un progetto di vita e un accompagnamento individualizzato. Nel 2010 si è costituita la Rete ed è stata così rafforzata la metodologia attraverso standard che sono stati in seguito adottati dalla CEDEAO (Comunità economica degli Stati dell’Africa occidentale) per la cura dell’infanzia vulnerabile in situazione di mobilità”.

Come reagisce la comunità d’origine al ritorno di un minore trafficato?

“Ogni caso è unico, alcune comunità li accolgono facilmente, altri genitori invece oppongono resistenza e per questo si cercano parenti prossimi che siano favorevoli al ritorno dei bambini e all’inserimento nelle loro famiglie”.

Conosce qualche storia di reintegrazione di un minore all’interno della propria famiglia/comunità avvenuta con successo?

“Amadou è un ex bambino trafficato si è impegnato nella sua reintegrazione personalmente. Ci telefona ancora dopo anni tenendoci informati sulla scuola e sulla sua vita. Amadou vuole essere un leader, un governante di questo Paese per migliorare la situazione dell’infanzia, evitare che altri bambini soffrano quello che lui ha vissuto e offrire loro quella seconda opportunità che lui stesso ha ricevuto.

Un altro ragazzino della Sierra Leone, identificato in Guinea-Bissau, a cui AMIC ha organizzato il reintegro con un progetto di vita sul piccolo commercio nel suo Paese di origine, dopo qualche anno insieme al padre è tornato a vivere in Guinea-Bissau. Oggi vende moto e ancora ci chiama per ringraziarci”.

 

SBARCHI, LETTERA APERTA DELLE ONG AL MINISTRO DELL’INTERNO SALVINI

Le Ong esprimono forte preoccupazione sulla situazione degli sbarchi e chiedono un’azione immediata per far fronte alla crisi nel Mediterraneo.

Con una lettera aperta inviata al Ministro dell’Interno Salvini e per conoscenza al Presidente del Consiglio Giuseppe Conte, al Ministro degli Affari Esteri Enzo Moavero e alla Vice Ministro degli Affari Esteri Emanuela Del Re, le Ong italiane e europee esprimono forte preoccupazione sulla situazione degli sbarchi e chiedono un’azione immediata per far fronte alla crisi nel Mar Mediterraneo.

Ecco il testo della lettera:

Oggetto: Disposizioni europee tempestive e affidabili in materia di sbarco dei migranti

Gentile Ministro,

Noi, organizzazioni, reti e piattaforme firmatarie, Le scriviamo per esprimere le nostre serie preoccupazioni sulla situazione degli sbarchi e La esortiamo ad agire per far fronte alla crisi nel Mar Mediterraneo. Questa lettera è inviata a Lei e contemporaneamente a diversi Ministri degli Interni di altri Paesi membri dell’Unione Europea perché la soluzione agli sbarchi dei migranti nel Mediterraneo non può che venire da un’assunzione di responsabilità comune. Da gennaio 2018, 2.275 (stima UNHCR) donne, bambini e uomini sono annegati nel Mediterraneo. Nel frattempo, i leader dell’Unione europea si sono resi complici della tragedia che si sta svolgendo davanti ai loro occhi.

Per oltre sei mesi, i governi europei hanno cercato – fallendo – di trovare un accordo su un sistema che consentisse ai sopravvissuti di sbarcare in sicurezza quando raggiungono la costa europea. Allo stato attuale, ogni volta che una nave cerca di portare le persone appena salvate in un porto europeo, i governi dell’UE si affannano in prolungati dibattiti su dove la nave può sbarcare e su quali paesi possono ospitare i sopravvissuti per esaminare le loro domande di asilo. Nel frattempo, donne, uomini e bambini, che spesso portano con loro le cicatrici fisiche e mentali del viaggio, e le torture dei centri di detenzione libici, vengono bloccati in mare, talvolta per quasi un mese. E la missione navale dell’UE nel Mediterraneo, l’operazione SOPHIA, rischia di essere interrotta perché i governi europei non riescono a trovare un accordo su dove sbarcare le persone salvate.

Inoltre, i governi europei esercitano un’indebita pressione sulle organizzazioni della società civile che conducono missioni di ricerca e salvataggio nel Mediterraneo. Piuttosto che sostenere queste attività nel tentativo di salvare vite umane, alcuni Stati membri (dell’UE) hanno reso più difficile la loro operatività hanno rivolto accuse infondate contro di loro, e hanno impedito ai mezzi di ricerca e salvataggio di lasciare i porti. Mentre l’anno scorso erano cinque le organizzazioni che stavano conducendo operazioni di ricerca e salvataggio nel Mediterraneo, oggi solo una è in grado di farlo.

Le azioni dei governi europei hanno reso estremamente difficile per le organizzazioni che si occupano di ricerca e salvataggio di continuare il loro lavoro e hanno dissuaso altre imbarcazioni dal rispettare gli obblighi di salvare le persone in difficoltà e di riportarle nel luogo sicuro più vicino. Di conseguenza, il Mediterraneo è diventato uno dei mari più letali del mondo. In gennaio, un elicottero della Marina Militare ha salvato tre persone, che hanno testimoniato di come la loro nave avesse lasciato la Libia con 120 donne, bambini e uomini a bordo. Tutti risultavano annegati. A ciò si aggiunga che le persone che vengono rimpatriate con la forza in Libia rischiano di essere poste in detenzione arbitraria, maltrattate, torturate o vendute come schiave. Secondo l’agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati, oltre 15mila persone sono state rimpatriate in Libia nel 2018.

In base al diritto internazionale, le persone soccorse in mare devono essere portate nel luogo di sicurezza più vicino, dove dovrebbero essere trattate con rispetto, offrendo loro protezione. L’Europa si è impegnata a salvare vite umane nel Mediterraneo e a condividere la responsabilità dell’accoglienza dei rifugiati. Il diritto di chiedere asilo e il principio di non respingimento sono ribaditi nei Trattati dell’Unione europea, che dichiarano inoltre che l’Unione si fonda sui valori del rispetto della dignità umana, della libertà, della democrazia, dell’uguaglianza, dello Stato di diritto e del rispetto dei diritti umani. Questi sono i valori in cui tutti noi crediamo e la legge a cui siamo vincolati. Dovrebbero essere sostenuti a prescindere dai disaccordi politici, perché sono le fondamenta del nostro vivere civile.

Le chiediamo, in occasione della prossima riunione informale del Consiglio Giustizia e Affari Interni dell’UE, di raggiungere un accordo su disposizioni tempestive per lo sbarco che salveranno vite umane e rispetteranno i diritti fondamentali delle persone, compreso il diritto di chiedere asilo. In particolare, chiediamo al Consiglio di:

1. Sostenere le operazioni di ricerca e salvataggio: I Paesi dovrebbero consentire a tutte le navi che svolgono attività di ricerca e salvataggio di attraccare nei loro porti, sbarcare le persone che sono state salvate e ritornare in mare in modo tempestivo. Il tentativo di impedire le operazioni di salvataggio delle ONG e delle navi commerciali è un approccio pericoloso che mette a rischio vite umane e mina la fiducia dei cittadini nei confronti dei governi per risolvere la situazione.

2. Adottare disposizioni tempestive e affidabili per lo sbarco: in attesa dell’adozione di una riforma positiva del sistema di Dublino, che includa un meccanismo permanente di ripartizione delle responsabilità, si dovrebbero attuare disposizioni per garantire lo sbarco e la distribuzione tempestiva tra gli Stati membri dell’UE delle persone soccorse. Le ONG hanno presentato proposte concrete per le disposizioni relative alla ricollocazione dopo lo sbarco. Data l’urgente necessità di misure sulla ripartizione delle responsabilità, gli accordi dovrebbero essere concordati immediatamente e gli Stati partecipanti dovrebbero essere identificati fin dall’inizio, e non in modo emergenziale “nave per nave”. Nessun accordo dovrebbe esonerare gli Stati membri dagli obblighi giuridici derivanti dal diritto dell’UE, dal diritto internazionale dei rifugiati o dal diritto marittimo.

3. Cessare i respingimenti in Libia: La Libia è un paese lacerato dalla guerra, dove rifugiati e migranti sono regolarmente detenuti in condizioni orribili che violano i loro diritti umani fondamentali. Le donne, i bambini e gli uomini che vengono rimpatriati in Libia dalla guardia costiera libica sostenuta dall’UE o su istruzione dei Centri di Coordinamento del Soccorso Marittimo, devono affrontare una detenzione automatica e arbitraria e il rischio reale di torture e altre gravi violazioni dei diritti umani. Fonti autorevoli, comprese alcune delle organizzazioni firmatarie, hanno documentato casi specifici in cui le persone intercettate o salvate sono state torturate e maltrattate al loro ritorno in Libia. L’Agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati, UNHCR, ha esortato gli Stati ad astenersi dal rimpatrio di cittadini di paesi terzi in Libia a causa del rischio per la loro sicurezza. I governi europei dovrebbero stabilire chiari parametri di riferimento, compresa la fine della detenzione arbitraria, ed essere pronti a sospendere la cooperazione e l’assistenza alla guardia costiera libica se i parametri non vengono rispettati.

La situazione sta diventando più che mai urgente e La invitiamo ad agire immediatamente.

Cordialmente,
Francesco Petrelli – Portavoce Concord Italia

A nome di:

AOI (Associazione delle organizzazioni italiane di cooperazione e solidarietà internazionale
Concord Italia (Piattaforma nazionale della confederazione delle ONG Europee)
GCAP Italia (Coalizione italiana di lotta contro la povertà)
Focsiv (Federazione delle organizzazioni cristiane di servizio volontario internazionale)
MSF – Medici Senza Frontiere Italia
Link2007
Marche Solidali
Consorzio Ong Piemontesi

ACRA, Action Aid, AIDOS – Associazione Italiana Donne per lo Sviluppo, Amici dei Popoli, Amref Health Africa, Arcs, Associazione Volontari Dokita Onlus, CEFA Onlus, CIES Onlus, CISV, COMI, COSPE Onlus, IPSIA-ACLI, Legambiente, LVIA, Mani Tese, Movimento Shalom, Osservatorio Aids – Aids Diritti Salute, Oxfam Italia, Progetto Sud-UIL, Sonia per un mondo nuovo e giusto, Terra Nuova Centro per il Volontariato, We World – GVC

E a livello europeo:
Médecins Sans Frontières (MSF)
SOS Méditerranée
ACT Alliance EU
Action Against Hunger
Caritas Europa
Churches´ Commission for Migrants in Europe (CCME)
Danish Refugee Council
The European Council on Refugees and Exiles
European Evangelical Alliance
Human Rights Watch
The International Catholic Migration Commission (ICMC)
Missing Children Europe
Mixed Migration Centre
Oxfam
The Platform for International Cooperation on Undocumented Migrants (PICUM)

EX ILVA: MANI TESE SOSTIENE LA RACCOLTA FIRME CONTRO ARCELOR MITTAL

Mani Tese ha aderito all’iniziativa dell’ambientalista Manna, che chiama i cittadini di Taranto a sottoscrivere un esposto nei confronti di Arcelor-Mittal

Con la firma della sua presidente, Sara de Simone, Mani Tese ha ufficialmente aderito all’iniziativa dell’ambientalista Luciano Manna, che chiama i cittadini di Taranto, e di altre città di Italia, a sottoscrivere un esposto nei confronti di Arcelor-Mittal, a seguito delle “emissioni non convogliate che si verificano durante il giorno e la notte dagli impianti del siderurgico tarantino”.

“Le emissioni nocive e cancerogene” – si sottolinea nell’appello di Manna, un vero e proprio ‘human rights defender – “provengono dalle cokerie, dagli altoforni, dalle acciaierie e da altri impianti già sequestrati dalla Magistratura nel 2012” e “farebbero prefigurare la violazione dell’articolo 674 del codice penale: getto pericoloso di cose”.

Per Sara de Simone, “L’ex ILVA è il più grande caso di ingiustizia ambientale in Europa. Da oltre cinquant’anni, ai cittadini viene sistematicamente negata ogni possibilità di partecipare alle scelte di sfruttamento delle proprie risorse naturali. E’ tempo di cambiare il paradigma industriale che Taranto rappresenta e pianificare, proprio partendo da Taranto, la transizione italiana verso un nuovo sistema industriale che sia in grado di coniugare la libertà di impresa con il rispetto dei diritti umani e l’ambiente”.

“Per questa ragione – conclude de Simone – ho firmato l’esposto collettivo alla procura locale e invito gli amici, i sostenitori e i simpatizzanti di Mani Tese a fare altrettanto andando sul sito www.tarantolibera.it. Perché non c’è giustizia senza partecipazione”.

Domenica 3 febbraio dalle 10 alle 13 in Piazza della Vittoria a Taranto proseguirà la raccolta firme per sottoscrivere l’esposto.

Per approfondire:

La Summer School di Mani Tese sulla giustizia ambientale a Taranto
L’inchiesta “I bambini di Taranto vogliono vivere”
Taranto, la voce dei cittadini oltre i ricatti dell’Ilva
Il diritto al futuro di Taranto

RITORNO ALLA TERRA: UN NUOVO PROGETTO DI INCLUSIONE IN GUINEA-BISSAU

Al via il progetto che promuove processi di inclusione agricola, economica e sociale nel corridoio Gabu e Bafata, in Guinea-Bissau.

Si è svolta all’insegna della musica l’inaugurazione del progetto “RITORNO ALLA TERRA – processi di inclusione agricola, economica e sociale nel corridoio Gabu e Bafata” finanziato dall’Agenzia Italiana per la Cooperazione allo Sviluppo – sede di Dakar nell’ambito dell’Iniziativa di emergenza AID 11274, e implementato da Mani Tese in partenariato con Asas de Socorro e AMIC (Amici dei bambini).

La cerimonia, svoltasi a Gabu in Guinea-Bissau il 23 ottobre 2018, è stata aperta da un artista locale, Abdul Embalo, che ha presentato la sua ultima canzone, Diversidade Cultural, vincitrice del premio PLURAL+ (promosso da UNAOC e IOM).

Abdul è un migrante di ritorno, rientrato in Guinea-Bissau nel 2016 grazie all’appoggio dell’IOM in Niger. Oggi canta per sensibilizzare i giovani sui rischi della migrazione irregolare e per dar loro fiducia nelle opportunità economiche e produttive del loro Paese.

Il suo messaggio non avrebbe potuto essere più pertinente dal momento che la messa in luce di queste opportunità è proprio il focus del progetto “Ritorno alla terra”.

Come hanno spiegato, durante l’evento, Piero Meda di Mani Tese, il Coordinatore di progetto, e gli altri membri dell’equipe, gli obiettivi e le principali attività dell’ambizioso progetto sono la valorizzazione delle opportunità economico-produttive in campo agricolo e zootecnico del territorio, per agire sui fattori di spinta che inducono alla migrazione irregolare e per promuovere la reintegrazione socio-professionale dei migranti di ritorno e dei minori nelle comunità originarie.

È toccato poi ai partner di progetto (Asas de Socorro e AMIC) spiegare le attività di loro competenza ed esortare i giovani e le famiglie a partecipare in massa alle attività previste.

Il rappresentante di Asas de Socorro, Wilson Cá, ha aggiunto: “Investire il proprio tempo nell’allevamento dei polli e delle galline è come investire nel futuro della propria famiglia. Oggi hai un pulcino e domani un pollo, oggi hai un uovo e domani ne hai dieci. La nostra ONG si batte nella lotta contro l’insicurezza alimentare e per l’indipendenza della produzione alimentare in Guinea-Bissau. I sette pollai saranno un esempio per tante famiglie e per tante comunità. Lo abbiamo già sperimentato in molte regioni, e sappiamo che anche a Gabu e Bafata raggiungeremo ottimi risultati”.

Il rappresentante di AMIC, Fernando Cá, ha invece illustrato un altro aspetto del progetto, ovvero le attività con i bambini talibé. Fernando ha spiegato che Gabú è regione con il maggior numero di bambini vittime di tratta e traffico e che il fenomeno purtroppo continua.

Il progetto è stato infine inaugurato ufficialmente dalle autorità presenti, ovvero il Governatore della regione di Gabu, il Regulo centrale (la massima carica del potere tradizionale), la Presidente dell’Istituto Nazionale della Gioventù (del Ministero dell’Educazione, Cultura, Gioventù e Sport), i delegati regionali del Ministero dell’Agricoltura, Veterinaria e Educazione e il rappresentante IOM, oltre ai responsabili delle associazioni giovanili e femminili delle regioni di Gabu e Bafata. Le autorità hanno augurato buon lavoro a tutta l’equipe e si sono auspicate di poter contribuire al raggiungimento degli obiettivi prefissati.

La presidente dell’Istituto Nazionale della Gioventù, in particolare, ha invitato i giovani e i migranti di ritorno a partecipare al progetto da protagonisti e ad appropriarsi del Centro Multifunzionale della Gioventù, che verrà animato dal progetto attraverso l’apertura di un punto informazioni.

lancio progetto ritorno alla terra Guinea Bissau Mani Tese 2018
Il lancio del progetto RITORNO ALLA TERRA
presidente istituto nazionale gioventù Guinea Bissau Mani Tese 2018
La presidente dell’Istituto Nazionale della Gioventù

LE CONTRADDIZIONI DELL’ECUADOR: BIODIVERSITÀ, CACAO E SFRUTTAMENTO

Tra gli asset dell’Ecuador c’è il cacao, ma proprio chi lo coltiva è l’ultimo a riceverne benefici. Mani Tese opera perché le piccole filiere riescano ad accedere al mercato puntando sulla qualità.

di STEFANO LECHIARA, Ufficio Advocacy di Mani Tese, e CLAUDIA ZANINELLI, Ufficio Cooperazione Mani Tese

TRA GLI ASSET DEL PAESE C’È IL CACAO, MA PROPRIO CHI LO COLTIVA È L’ULTIMO A RICEVERNE BENEFICI. MANI TESE OPERA PERCHÉ LE PICCOLE FILIERE RIESCANO AD ACCEDERE AL MERCATO PUNTANDO SULLA QUALITÀ

Attraversato dall’Equatore e dalla cordigliera andina, l’Ecuador è il Paese più ricco di biodiversità al mondo. Malgrado un deciso sviluppo del settore terziario, che ha contribuito al considerevole incremento del PIL degli ultimi anni – non sempre omogeneo dal punto di vista della distribuzione sociale –, la sua economia è in larga misura ancora fortemente legata all’esportazione del petrolio e a un tipo di agricoltura che privilegia il modello di agri-business. La proliferazione di progetti estrattivi e la crescente estensione delle aree coltivabili a scapito delle foreste, minacciano la salute pubblica, i diritti dei popoli indigeni e mettono a rischio l’immenso patrimonio ambientale che impreziosisce il paese.

La nuova Costituzione

Nel 2008 è stata promulgata una nuova Costituzione ispirata al concetto del “sumak kawsay” o “buen vivir”, che consiste nella promozione di un nuovo assetto economico e politico improntato all’inclusione sociale e all’armonia tra comunità umane e natura. L’Ecuador vive dunque la contraddizione di un Paese attraversato da spinte culturalmente innovative a cui, però, fanno da contrappeso interessi economici apparentemente irrinunciabili.

Il lavoro di Mani Tese

Mani Tese è presente in Ecuador da circa 20 anni. Attualmente è impegnata nel progetto “Cacao corretto: Rafforzamento delle filiere del cacao e del caffè per la sovranità alimentare dell’Ecuador” (AID-010577), cofinanziato dall’AICS e implementato da COSPE in collaborazione con Mani Tese, FIAN Ecuador e CEDERENA. L’obiettivo è quello di contribuire alla sovranità alimentare mediante il rafforzamento delle filiere del cacao e del caffè, attraverso la promozione di processi di agroecologia, economia sociale e pianificazione territoriale partecipativa nel nord e nella regione centrale costiera. In questo contesto, una delle attività a cura di Mani Tese prevede la sistematizzazione delle buone pratiche di sovranità alimentare sviluppate grazie al progetto, attraverso la divulgazione di un report specifico sulla filiera del cacao in Ecuador.

Cacao per vivere

L’Ecuador è tra i primi quattro Paesi al mondo per produzione di cacao, con un volume di circa 265.000 tonnellate annue. Le foreste ecuadoriane, caratterizzate da un clima mite e alberi ad alto fusto, offrono condizioni ambientali ottimali per la coltivazione di “Cacao Arriba Nacional”, che rappresenta il 63% della produzione mondiale di “Cacao Fino de Aroma”, la varietà più pregiata e rara al mondo. L’agricoltura familiare è alla base dell’intero settore, con oltre 100.000 piccoli produttori ecuadoriani che si occupano di coltivare, raccogliere, fermentare ed essiccare il cacao. Sebbene l’approvvigionamento di cacao dipenda quindi quasi interamente da piccole piantagioni a conduzione familiare, con un’estensione media inferiore ai cinque ettari per “finca”, i piccoli produttori rappresentano l’anello più debole dell’intera catena commerciale. Secondo le stime più recenti, infatti, la fetta di guadagno dei coltivatori diretti varia tra il 6 e l’8% del valore aggiunto totale generato dalla vendita dei prodotti a base di cacao.

Nelle province di Manabì, Esmeraldas, Pichincha, Imbabura e Carchi, situate nel Nord dell’Ecuador e nella regione costiera centrale, vivono 500.000 persone. Qui si concentrano le maggiori coltivazioni di cacao fine dell’Ecuador. La maggioranza della popolazione soprattutto in area rurale ha scarso accesso a sistemi di acqua potabile e fognature, e vive in case di legno e bambù. Oltre a cause che possiamo considerare strutturali, la povertà deriva dalla scarsissima redditività connessa al proprio lavoro di agricoltori. Un paradosso, se consideriamo il grosso peso del cacao nell’export ecuadoriano (705 milioni di dollari solo nel 2015), con il 6,5% della produzione mondiale che deriva proprio da questo paese.

L’incapacità di trarre un equo profitto dalla vendita del cacao dipende da una combinazione di fattori. Da un lato vi sono ragioni globali connesse al mercato e dall’altro, invece, vi sono questioni legate al contesto ecuadoriano: la maggior parte dei produttori non è legalmente proprietaria della terra che coltiva, con la conseguente difficoltà nell’accesso a servizi pubblici e finanziari; i processi produttivi si caratterizzano per una qualità scadente; la compravendita di cacao in grani è dominata da intermediari che, approfittando di una situazione di oligopolio e dell’isolamento dei produttori, pagano a questi ultimi un premio nettamente inferiore rispetto al valore di mercato.

Sostegno alle filiere di qualità

Il progetto “Cacao corretto” ha promosso un intervento di rafforzamento delle piccole filiere di alta qualità del cacao e del caffè con l’obiettivo di garantire un maggiore accesso al mercato e, di conseguenza, un miglioramento economico e sociale all’interno delle comunità rurali di riferimento. Grazie alla collaborazione con aziende italiane come Venchi, oltre duemila produttori di cacao hanno
beneficiato di assistenza tecnica di campo continuativa e di un percorso pluriennale di formazione sulla gestione delle piantagioni e sulle pratiche di post raccolta e processamento. Unite alla consegna di impianti produttivi, mezzi e strumenti di lavoro, queste attività hanno raggiunto il risultato di migliorare la qualità del cacao nonché la produttività stessa. Ogni ettaro coltivato a cacao nazionale, dopo il progetto, rende quasi il 50% in più.

Un secondo asse di intervento ha riguardato l’empowerment di 4 organizzazioni di produttori di cacao: COCPE, APROCANE, ASOPROAGRIPAIS e ASOPROAGRICACAO. Il progetto è riuscito in diversi intenti: aprire nuovi canali di vendita, sia indiretta che diretta e incrementare il commercio associativo; porre le basi per una micro-impresa in grado di sviluppare pasta di cacao; aumentare il potere di contrattazione; rafforzare la presenza dei produttori alle principali fiere nazionali (ruedas de negocios) e internazionali (come la partecipazione a “Terra Madre” nel 2018) aumentando concretamente la capacità di individuare nuovi potenziali acquirenti. Nello specifico, dotando di un fondo di capitale rotativo le organizzazioni e investendo nella formazione in relazioni commerciali, le associazioni sono adesso in grado di commerciare, complessivamente, il 24% in più di cacao. Una quantità considerevole di questo cacao si piazza ora nei segmenti più elevati di mercato ed il prezzo corrisposto dai buyers alle associazioni non solo è complessivamente maggiore rispetto a quello di borsa, ma è soprattutto più alto rispetto a quello che viene riconosciuto ai singoli produttori che da soli, invece, hanno scarso potere negoziale. Potendo pre-acquistare maggiori volumi di cacao e rivenderli a prezzi concorrenziali, le organizzazioni possono ora assicurare ai produttori un premio più equo: una media di 1.654 dollari per tonnellata contro i 1.372 dollari pagati dai traders locali. Le associazioni, quindi, possono finalmente reinvestire il surplus dei ricavi all’interno delle stesse comunità, ovviando al gap di partenza che impediva loro di offrire servizi adeguati ai soci e agli abitanti delle aree di intervento.

Articolo pubblicato sul numero di Dicembre 2018 del Giornale di Mani Tese

NON CHIAMATEMI COOPERANTE

Samuele Tini lavora da anni in Africa per Mani Tese. Dal 2014 è in Kenya, dove ha avviato un progetto di economia circolare per contrastare i cambiamenti climatici.

SAMUELE TINI LAVORA DA ANNI IN AFRICA PER MANI TESE. DAL 2014 È IN KENYA, DOVE HA AVVIATO UN PROGETTO DI ECONOMIA CIRCOLARE PER CONTRASTARE I CAMBIAMENTI CLIMATICI

Diciamolo, l’operato delle ONG non è mai stato così tanto, e spesso così male, sulla bocca di tutti. Quelle che oggi fanno notizia e sono nel mirino del dibattito pubblico sono soprattutto le attività di emergenza umanitaria delle ONG, ma ci sono anche altre azioni, come quelle delle ONG che creano sviluppo nel “Sud del Mondo”. “Noi non salviamo le persone in maniera diretta. Noi le salviamo costruendo sviluppo” mi racconta Samuele Tini, 38 anni, da più di 8 cooperante per Mani Tese “E in un’epoca di poco approfondimento e di molto sensazionalismo, chi fa un lavoro complesso come il nostro, che non si può spiegare in due parole, suscita poco interesse”.

Il tempo per capire

“Bisogna prendersi il tempo per capire” aggiunge. E io oggi voglio prendermi almeno un po’ di tempo per restituire il senso del lavoro di chi, come Samuele, rende possibile l’impossibile in Paesi spesso difficili.

Sono in diretta con lui dal Kenya ma l’intervista comincia in ritardo perché Samuele ha da fare. Ha sempre da fare. “Dovessi timbrare il cartellino credo che oggi avrei accumulato almeno tre mesi di recupero! – scherza Samuele – Io lavoro sempre, anche nei giorni di festa. Il mio lavoro comincia alle 6.30. Spesso vado sul campo per valutare i progressi delle attività di progetto. Altre volte resto in ufficio perché devo occuparmi della gestione amministrativa dei progetti…E poi studio”. Già, lo studio. Si pensa sempre al cooperante come a un lavoro “sul campo”. E in parte è così, in una continua gestione degli imprevisti. Ma per Samuele studiare è altrettanto importante. “Oggi al cooperante sono richieste capacità gestionali sempre più complesse” spiega “A questo si aggiunge la dimensione dello studio e della ricerca che per noi di Mani Tese è fondamentale per proporre idee innovative”.

Energia per il Kenya

Una delle idee apprezzate di Samuele è stata quella di contrastare i devastanti cambiamenti climatici e la deforestazione in Kenya attraverso l’economia circolare. Il progetto IMARISHA! (termine swahili che significa “ENERGIA”) energie rurali per la lotta al cambiamento climatico e la salvaguardia ambientale, cofinanziato dall’Agenzia Italiana per la Cooperazione allo Sviluppo, da lui scritto e implementato prevede una complessità di azioni innovative come la gestione partecipata della foresta Mau – la più vasta estensione forestale del Kenya – la costruzione di vivai per la riforestazione e l’uso dell’energia sostenibile per conservare l’ambiente e per migliorare le condizioni della popolazione locale, come quella degli Ogiek. Inizialmente cacciata dalla foresta, oggi la comunità indigena degli Ogiek, anche grazie all’aiuto di Mani Tese, è diventata la guardiana della foresta Mau e collabora con il servizio forestale kenyano per fermare i disboscatori illegali.

Nel mondo, per cambiarlo

Mentre parliamo l’intervista con Samuele viene interrotta. “Yes, yes” gli sento dire “Sema! (“dimmi” in italiano)”. Sorrido perché me lo immagino, adesso, Samuele. Sempre disponibile, sempre sorridente.

“La vita di un cooperante è così, piena di cose da fare”, si scusa, “da una parte la stretta programmazione delle attività, dall’altra gli imprevisti di chi ha che fare continuamente con diverse situazioni. Adesso per esempio dobbiamo portare i pannelli solari nelle scuole, ma piove (ndr: a causa dei cambiamenti climatici le continue precipitazioni in Kenya stanno creando notevoli disagi), l’auto ha dei problemi Insomma, devi essere sempre pronto a rispondere a ogni evenienza, ad avere una flessibilità elevata e una forte resistenza allo stress”.

E Samuele di stress, nella sua vita, ne ha vissuto parecchio. “Il mio interesse per la cooperazione è iniziato presto – mi racconta – quando ho intrapreso gli studi internazionali. La mia famiglia ha sempre avuto un’attenzione particolare per i diritti degli ultimi e di tutte le persone in difficoltà. Mio nonno era sindacalista, mio padre era impegnato nelle Acli”.

Dopo un primo incarico a Nairobi, Samuele ha lavorato in Tanzania per una compagnia locale facendo nel contempo volontariato per la Comunità Papa Giovanni XXIII, che gli ha permesso di capire il valore della cooperazione internazionale. Poi è partito per il Mozambico collaborando con le ACLI, dove si è occupato di un progetto di costruzione di una scuola che oggi conta più di 600 alunni.

In seguito l’esperienza, durissima, in Sud Sudan per realizzare con i Salesiani delle scuole rurali e un centro di supporto per le donne, dove Samuele ha contratto la malaria celebrale. “Eravamo alloggiati in stanzette grandi come piccolissime celle attorno all’ospedale, in compagnia di scorpioni e con i malati di tubercolosi che ci tossivano accanto per tutta la notte. Durante una di queste, la lamiera del soffitto della mia stanza ha preso fuoco per via del troppo calore”.

In quel Paese percorso da conflitti armati, Samuele “ha imparato a cavarsela” apprendendo a gestire progetti complessi in condizioni dure e con mezzi scarsi.

“Dopo questa esperienza sono partito di nuovo per il Mozambico”. È lì che è avvenuto l’incontro con Mani Tese. “Ho conosciuto Elias e Giovanni di Mani Tese a Maputo. – racconta Samuele – Dopo il nostro incontro, abbiamo iniziato una prima collaborazione in Guinea-Bissau con un progetto sulla pesca. Da quel piccolo progetto, in pochi anni, siamo passati a realizzare progetti più complessi come quello sulla tutela dei diritti e il reinserimento dei detenuti finanziato dalla UE riuscendo inoltre a concludere la realizzazione del mercato di Bubaque”.

Dopo questa esperienza, Mani Tese decide di affidare proprio a Samuele l’incarico di aprire una sede in Kenya. Una presenza, quella nel Paese, molto fruttuosa ma sempre più difficile. “Da anni in Kenya le ONG non sono molto amate. – racconta – Il Paese sta crescendo e l’interesse del Governo è più nei confronti delle imprese. Le ONG sono viste un po’ come ‘rompiscatole’ perché spingono per la difesa dei diritti e per la democratizzazione. Inoltre i pregiudizi nei nostri confronti sono molto forti”.

Sì perché, spiega Samuele, l’odio verso gli stranieri non sta solo a casa nostra ma è generalizzato in tutto il mondo. Per questo motivo, mi dice, “il nostro obiettivo è quello di formare le comunità in modo che siano loro stesse a essere portatrici delle proprie istanze. Ci adoperiamo per formarle e dare loro un reddito e, grazie a questo, avere così il tempo di discutere dei loro problemi e di associarsi per farvi fronte”.

In Africa il futuro del pianeta

Quello del cooperante è un mestiere complesso, che non dà stabilità anzi precariato, che comporta una vita piena di sacrifici ed è difficilmente conciliabile con la famiglia. Samuele, tuttavia, ne ha una in Kenya. “Ho avuto la fortuna di incontrare una persona che ha fatto il mio stesso percorso e che ha accettato di seguirmi in Kenya dedicandosi al volontariato”. Con lei Samuele ha due bambine, di 3 anni e di 3 mesi. “Crescono in un ambiente aperto e multiculturale. La più grande va all’asilo ed è l’unica bambina bianca”.

La domanda, a questo punto, mi viene spontanea: “Samuele, ma chi te lo fa fare di fare il cooperante?”

“Io più che ‘cooperante’ preferisco definirmi un volontario internazionale – risponde – perché mi ricorda la dimensione umana del mio lavoro, quella di essere una persona fra le persone, che sente in ciò che fa un arricchimento reciproco e che fa molto più di ciò che gli è richiesto”.

“E poi è qui, in Africa, che oggi si gioca il futuro del pianeta. Nel 2050 metà della popolazione del mondo sarà in Africa e dobbiamo fare in modo che non vengano commessi gli stessi errori che abbiamo commesso noi occidentali nel nostro processo di crescita. È proprio qui, insomma, che possiamo creare un nuovo modello sostenibile di sviluppo”.

Articolo pubblicato sul numero di Dicembre 2018 del Giornale di Mani Tese

Foto di Matteo de Mayda

LA COOPERAZIONE GENERA DIRITTI

Consapevolezza dei propri diritti e partecipazione sono i passaggi obbligati per soddisfare i bisogni e costruire sviluppo. L’approccio di Mani Tese con le comunità destinatarie dei suoi progetti.

CONSAPEVOLEZZA DEI PROPRI DIRITTI E PARTECIPAZIONE SONO I PASSAGGI OBBLIGATI PER SODDISFARE I BISOGNI E COSTRUIRE SVILUPPO

“Grazie al guadagno che ricavo dalla vendita del Garì oggi posso pagare la scuola ai miei figli e garantirgli le cure mediche quando sono malati”. Sono diverse le donne che mi hanno ripetuto questa frase nel corso degli anni durante le mie missioni in Benin. Come anche: “Mio marito ora mi tratta diversamente, mi rispetta e supporta le attività di trasformazione della manioca che faccio con il mio gruppo”. Sono, questi, alcuni dei risultati, non previsti “ufficialmente”, dei progetti di cooperazione di Mani Tese degli ultimi anni, che hanno riguardato il rafforzamento dei gruppi di donne impegnate nelle filiere della manioca, arachidi e soia in due comuni del Dipartimento dell’Atacora.

In Kenya, invece, Mani Tese ha promosso, insieme al partner NECOFA, la formazione dei leader di villaggio sul diritto, in quanto cittadini, a presentare le esigenze delle loro comunità presso le istituzioni pubbliche e ad ottenerne risposta: le loro richieste hanno condotto a un finanziamento governativo per la costruzione di una scuola. Sempre nel Paese, Mani Tese ha promosso in quattro scuole secondarie un percorso di educazione civica sugli articoli principali della Costituzione e sull’importanza della partecipazione e del diritto a esprimere il proprio voto, al cui termine sono state realizzate, in ogni scuola, le elezioni dei rappresentati degli studenti secondo la modalità di quelle politiche ufficiali.

Rights based approach: i diritti contano

Si tratta di alcuni esempi di come le attività di cooperazione di Mani Tese impattino sulle comunità in cui opera anche al di là degli obiettivi dei singoli progetti, creando i presupposti per un cambiamento che deriva innanzitutto da un’assunzione di consapevolezza dei propri diritti e della possibilità di agirli.

Il “Rights based approach” è un approccio promosso nell’ambito della cooperazione internazionale che pone al centro di ogni processo di sviluppo umano i diritti. I beneficiari diventano detentori di diritti mentre le istituzioni diventano titolari di doveri, chiamate a risolvere i problemi della popolazione su cui hanno responsabilità. L’intervento di cooperazione si concentra, da un lato, sul rafforzamento delle comunità rispetto al proprio ruolo, ai propri diritti e capacità e, dall’altro, sul rafforzamento delle istituzioni affinché siano in grado di rispondere in maniera adeguata ai bisogni della popolazione. Anche nel linguaggio, la modalità di cooperazione cambia: non si parla più, per fare un esempio, di fame e sete ma di garantire il diritto al cibo e il diritto all’acqua.

Mani Tese, pur non avendo mai abbracciato ufficialmente questo approccio, nei fatti ne assume molte delle caratteristiche. Da sempre, infatti, lavora a fianco della società civile concentrandosi più sulle comunità (i detentori dei diritti) che le istituzioni pubbliche, sebbene recentemente, in alcuni Paesi africani, si stiano avviando collaborazioni anche con il settore pubblico.

Nel lavoro con le comunità, due sono i principi che Mani Tese applica con un approccio basato sui diritti: la partecipazione e l’ownership. Le comunità sono sempre al centro del progetto, vengono consultate fin dalla fase di analisi dei problemi e dell’individuazione delle possibili soluzioni per poi partecipare, da protagoniste, all’esecuzione dell’intervento. Per questo motivo, una parte consistente dei progetti è costituita dalla formazione, per permettere alle persone coinvolte di acquisire le competenze e le capacità per poter poi realizzare esse stesse il progetto. Per dare ulteriormente valore al loro protagonismo, spesso alle comunità si richiede anche una partecipazione finanziaria o materiale.

Ogni progetto appartiene alla comunità

Il principio sui cui si basa questo approccio è che il progetto appartenga prima di tutto alle comunità che ne beneficiano perché, tramite esso, possano costruire il proprio futuro. Un aspetto tutt’altro che scontato poiché la cooperazione, negli anni, ha adottato un approccio cosiddetto caritatevole, dove l’importante era soddisfare i bisogni senza pensare al processo con cui si arrivava al risultato, senza promuovere ownership e sostenibilità e senza che l’intervento si traducesse in consapevolezza dei propri diritti da parte delle comunità coinvolte.

Una delle esperienze più significative di Mani Tese, in questo senso, è proprio nel settore storicamente più importante per l’ONG: quello del cibo e della sua produzione. Un ambito che veniva chiamato, negli anni ’60 e ’70, lotta alla fame e diventato, nei decenni successivi, sicurezza alimentare. Più di recente, Mani Tese ha scelto di fare proprio il concetto di sovranità alimentare. Nel passaggio tra sicurezza e sovranità alimentare è esemplificato quello da un approccio caritatevole a uno basato sui diritti: mentre per la sicurezza alimentare l’importante è che tutti abbiano sufficiente cibo per una vita dignitosa (non importa né da dove questo cibo provenga né di che tipo sia), nella sovranità alimentare il cibo diventa un diritto e sono le comunità a scegliere cosa produrre, come, quando e dove e di conseguenza come nutrirsi. Da questo, si sviluppano ulteriori diritti come quello alla terra, alla possibilità di prodursi e/o di scegliersi le sementi, alle modalità con cui associarsi, non solo per scegliere cosa produrre ma anche per rivendicare i propri diritti.

Articolo pubblicato sul numero di Dicembre 2018 del Giornale di Mani Tese

 

200 VOLTE UCCISI IN DIFESA DEI DIRITTI

Il prezzo più alto lo pagano gli indigeni che combattono l’agribusiness, ma sono sempre di più i Paesi
dove gli attivisti vengono minacciati, intimiditi o vessati. La campagna “In difesa di”, di cui Mani Tese è partner,
lavora per un network internazionale che rafforzi queste battaglie e chi le conduce.

di FRANCESCO MARTONE, Portavoce “In difesa di”

IL PREZZO PIÙ ALTO LO PAGANO GLI INDIGENI CHE COMBATTONO L’AGRIBUSINESS, MA SONO SEMPRE DI PIÙ I PAESI DOVE GLI ATTIVISTI VENGONO MINACCIATI, INTIMIDITI O VESSATI. LA CAMPAGNA “IN DIFESA DI”, DI CUI MANI TESE È PARTNER, LAVORA PER UN NETWORK INTERNAZIONALE CHE RAFFORZI QUESTE BATTAGLIE E CHI LE CONDUCE.

Oltre 200 difensori e difensore dei diritti umani uccisi lo scorso anno principalmente per essersi opposti all’espansione delle attività di imprese del settore dell’agribusiness o dell’estrazione di risorse naturali. La maggior parte di loro erano leader indigeni e indigene, principalmente in quattro Paesi: Brasile, Colombia, Honduras e Filippine. Sono la punta dell’iceberg di una guerra nascosta, sotterranea, contro i difensori e le difensore dei diritti umani. Cifre allarmanti che nascondono una realtà assai più preoccupante e complessa, in cui a migliaia in ogni parte del mondo soffrono per la loro attività a protezione dei diritti umani. Vessati, criminalizzati, perseguitati, minacciati non solo dagli apparati statali e da governi conniventi, ma anche da formazioni paramilitari (si veda il caso della Colombia post accordi di pace), forze di sicurezza private al soldo di imprese multinazionali o dall’avanzata di formazioni politiche xenofobe, razziste e autoritarie. Una situazione che chiama a un rilancio delle iniziative per la difesa e la protezione dei difensori dei diritti umani, assieme a un riesame critico della cornice di riferimento, dei modelli di intervento e delle forme di solidarietà.

Il futuro dei diritti (e di chi li difende)

Temi che sono stati al centro della tre giorni di lavoro per i 150 difensori e difensore dei diritti umani e le centinaia di partecipanti alla Conferenza Globale sui Difensori Dei Diritti Umani, tenutasi a Parigi a fine ottobre. Accanto alle testimonianze dirette di difensori e difensore da ogni parte del mondo, ci si è interrogati sulle sfide future a vent’anni dall’adozione alle Nazioni Unite della Dichiarazione sui Difensori dei Diritti Umani. Un’occasione quindi per un bilancio e per rilanciare le vertenze e le alleanze globali, tra donne difensore, tra organizzazioni indigene, per la difesa dei diritti civili e LGBTI in primis. Si è parlato molto di come contestualizzare il lavoro di protezione nella cornice più ampia di creazione di reti e modelli di cooperazione trasversale, superando la logica della ripartizione di vertenze su base tematica. E soprattutto di dotare le reti che lavorano in sostegno ai difensori dei diritti umani di una serie di strumenti di analisi politica del contesto attuale, necessari per creare connessioni e relazioni tra le varie iniziative in corso. Tutte considerazioni che sono state sin dall’inizio parte dell’approccio che sta caratterizzando il lavoro in Italia della rete In Difesa di – per i diritti umani e chi li difende, di cui Mani Tese è parte integrante, sia a livello nazionale che partecipando al lavoro del “nodo” locale della rete a Milano, attivo verso l’amministrazione comunale per la promozione della proposta di creazione di un programma di accoglienza temporanea per difensori dei diritti umani a rischio. Proprio quest’anno, in concomitanza con il ventesimo anniversario della Dichiarazione ONU sui Difensori dei Diritti Umani, la presidenza italiana dell’OSCE (che terrà il suo vertice ministeriale a Milano ai primi di dicembre) e la candidatura italiana al seggio triennale del Consiglio ONU sui Diritti Umani, la rete ha intensificato le sue iniziative di informazione e advocacy. Da una parte ci si è concentrati sulla Farnesina, ossia sulla leva “diplomatica”, attraverso incontri con difensori dei diritti umani, e scambio di informazioni e proposte su buone pratiche per la protezione dei difensori. Un percorso che ha portato all’assunzione del tema dei difensori dei diritti umani come uno degli impegni presi per corroborare la candidatura dell’Italia al Consiglio ONU. Candidatura cui è seguita poi l’elezione a metà ottobre.

Le città rifugio

Oggi quindi il tema della protezione dei difensori dei diritti umani, del dialogo con la società civile e del supporto alle iniziative e attività del Relatore Speciale ONU sui Difensori dei Diritti Umani (attualmente Michel Forst) sono parte del pacchetto programmatico con il quale l’Italia è presente al Consiglio dei Diritti Umani delle Nazioni Unite. Al momento la rete ha una serie di canali di lavoro con l’ufficio diritti umani della Farnesina e con la Direzione Generale per l’America Latina e il Comitato Interministeriale per i Diritti Umani, e ci proponiamo di aprire un tavolo su Medio Oriente e Mediterraneo. Al contempo abbiamo rivolto la nostra attenzione al lavoro del Comitato Interministeriale per i Diritti Umani e in particolare al Piano di Azione Nazionale su Imprese e Diritti Umani. In occasione della revisione del  Piano, sono state formulate proposte, in buona parte accolte, sulle responsabilità delle imprese nel riconoscere e tutelare il ruolo dei difensori dei diritti umani in linea con quanto raccomandato nei rapporti sul tema prodotti dal Relatore Speciale ONU Michel Forst. L’ambito nel quale la rete ha conseguito obiettivi più concreti riguarda il lancio di un piano pilota di “shelter cities” che possano accogliere temporaneamente, se necessario, e comunque accompagnare il lavoro di difensori e difensore, e delle loro comunità ed associazioni. Trento e Padova a vario livello sono incamminate verso la formalizzazione di un programma di accompagnamento e, se necessario, di accoglienza temporanea di difensori e difensore, mentre Milano e altre amministrazioni stanno prendendo in considerazione la possibilità di seguire l’esempio. Impegni a livello ONU, canali di dialogo con il MAECI, programmi di “shelter cities” e linee guida per le imprese sono parte di una “cassetta degli attrezzi” che la rete utilizzerà e metterà a disposizione delle organizzazioni della società civile e dei movimenti sociali in Italia e a livello internazionale dal prossimo anno. Parallelamente continueremo a dare sostegno a chi difende i diritti umani nel nostro Paese, in primis i difensori dei diritti dei migranti e chi viene accusato di crimini di solidarietà. Temi sui quali la rete ha lavorato, ad esempio partecipando al lancio e diffusione in Italia, al Festival SABIR di Palermo, del recente rapporto del Transnational Institute e informando costantemente i relatori speciali ONU sui migranti e i difensori dei diritti umani in merito alla situazione nel nostro Paese.

Articolo pubblicato sul numero di Dicembre 2018 del Giornale di Mani Tese