2. TEADORA, AGRICOLTRICE RESILIENTE

Per la seconda puntata del videoblog, Teadora ci presenta la sua famiglia e ci porta nei suoi campi

Siamo a Eduba, una comunità agricola nel distretto di Quelimane, per la seconda puntata del nostro videoblog sul progetto “Quelimane agricola”, cofinanziato dall’Agenzia Italiana per la Cooperazione allo Sviluppo. Qui, come nelle altre comunità del distretto, le condizioni di vita sono estremamente dure.

Ce ne ha parlato Teadora José che, come tante altre donne di Eduba, lavora con forza e dedizione per mantenere la sua numerosa famiglia. Teadora coltiva e vende prodotti agricoli, ma da ormai quattro anni le condizioni metereologiche avverse (con piogge concentrate in poche settimane e siccità prolungate da maggio a novembre) rendono il suo lavoro più difficoltoso. Teadora fatica a ottenere un raccolto sufficiente sia a sostenere la famiglia, sia ad avere un surplus da vendere per far fronte alle spese, come quelle per l’istruzione dei bambini.

 

Nel corso del progetto vedremo se le condizioni di vita di Teadora, così come quelle di altre donne e famiglie produttrici, miglioreranno con l’agroecologia e il lavoro comunitario.

Nel frattempo, buon lavoro Teadora…

CONTINUA A SEGUIRE IL VIDEOBLOG “LE STORIE DI QUELIMANE AGRICOLA”

The Fashion Experience: la verità su quello che indossi

Dal 21 al 30 giugno a Milano, un’esperienza interattiva unica, alla scoperta di ciò che si nasconde dietro gli indumenti che indossiamo tutti i giorni.

Mani Tese, Ong che da oltre 50 anni si batte per la giustizia nel mondo, offrirà al grande pubblico, dal 21 al 30 giugno a Milano, un’esperienza interattiva unica nel suo genere, alla scoperta di ciò che si nasconde dietro gli indumenti che indossiamo tutti i giorni.

“L’obiettivo di THE FASHION EXPERIENCE è quello di diffondere la consapevolezza sui rischi sociali e ambientali della cosiddetta Fast Fashion – dichiara Giosuè De Salvo, Responsabile Advocacy, Educazione e Campagne di Mani Tese – promuovendo modelli o processi d’impresa che siano in grado di assicurare, da una parte, il rispetto dei diritti delle persone che lavorano lungo la filiera globale dell’abbigliamento e, dall’altra, di proteggere risorse naturali fondamentali quali fiumi, mari e terre fertili”.

“Come Mani Tese – continua De Salvo – siamo da tempo impegnati nel superamento del business as usual attraverso il programma Made in Justice che mira a mettere i diritti umani e l’ambiente al centro della governance delle imprese e delle scelte dei consumatori”.

THE FASHION EXPERIENCE è un’iniziativa co-organizzata con il Comune di Milano e rientra nell’ambito del progetto “New Business 4 Good. Educare, informare e collaborare per un nuovo modo di fare impresa” promosso da Mani Tese in collaborazione con altri partner e cofinanziato dall’Agenzia Italiana per la Cooperazione allo Sviluppo.

L’INSTALLAZIONE

THE FASHION EXPERIENCE – La verità su quello che indossi sarà un’installazione multimediale a ingresso libero collocata a Milano, in Piazza XXIV Maggio, dal 21 al 30 giugno 2019 (dalle ore 10 alle 22). L’installazione sarà aperta a tutti e racconterà ai visitatori, attraverso un percorso ad alto impatto emotivo, le conseguenze sociali e ambientali legate alla filiera produttiva dell’abbigliamento.

I volontari e le volontarie di Mani Tese accompagneranno il pubblico all’interno di una struttura che si snoderà in tre differenti ambienti alla scoperta del mondo nascosto che spesso si cela dietro a un nostro paio di jeans o a una nostra maglietta.

LA CAMPAGNA

Tre i soggetti della campagna di lancio di THE FASHION EXPERIENCE, che gioca sul contrasto fra il claim (un hashtag legato al mondo della moda) e un’immagine tutt’altro che fashion, che rimanda a una situazione di sfruttamento lavorativo nell’ambito della produzione tessile.

Previsto a breve il rilascio dello spot video.

La campagna e la realizzazione dell’installazione sono affidati all’agenzia Starchestnut di Milano.

La pianificazione prevede affissioni esterne tramite manifesti sul circuito cittadino di Milano e una campagna advertising sui social network.

LA RICERCA DI VOLONTARI

Mani Tese offre a chi vuole vivere un’esperienza di volontariato diversa e formativa, la possibilità di far parte del team di volontari e volontarie che accompagneranno il pubblico durante l’installazione.

Per partecipare attivamente come volontaria/o nell’accogliere e guidare i visitatori è sufficiente lasciare le proprie disponibilità di orari iscrivendosi sul sito di Mani Tese alla pagina https://manitese.it/partecipa-fashion-experience

SCARICA E DIFFONDI LA CAMPAGNA

PROGETTO FORESTE: POLLAI, STALLE E NUOVE ENERGIE DOPO IL CICLONE IDAI

Nonostante il passaggio del ciclone Idai procedono la costruzione dei pollai e le altre attività zootecniche del progetto Foreste in Mozambico.

Negli ultimi mesi il progetto FORESTE in Mozambico, cofinanziato dall’Agenzia Italiana per la Cooperazione allo Sviluppo, ha purtroppo sofferto a causa degli eventi metereologici avversi: prima le precipitazioni monsoniche, frequenti nei mesi di febbraio, marzo e aprile e in seguito il ciclone Idai, che si è abbattuto anche nel distretto di Mocubela danneggiando le già carenti infrastrutture, fra cui le strade. Di conseguenza le nostre attività, tutte legate all’agricoltura e alla realizzazione di costruzioni rurali, hanno sofferto di ritardi che ci hanno portarti ad abbandonare la pianificazione stabilita a inizio febbraio.

Ma, già a partire dall’ultima settimana di marzo, Mani Tese si è impegnata a riguadagnare il tempo perduto con nuove forze fra cui Daniel, uno stagista entrato da poco nella nostra squadra a Mocubela. Daniel è stato opportunamente formato e, per i prossimi tre mesi, supporterà Celestino Cebola, il nostro tecnico agro-zootecnico in loco. Potrà così carpirne segreti e conoscenze e diventare a sua volta un buon tecnico di campo!

Al momento siamo impegnati nell’attività zootecnica: lavoriamo per costruire un pollaio e una stalla comunitaria per caprini in ognuna delle dieci comunità di intervento. Questa attività è suddivisa in tre fasi. La prima fase consiste nella costruzione delle strutture. Stalle e pollai sono realizzati all’80% con materiale locale facilmente reperibile, per facilitare la manutenzione.

Contemporaneamente alla prima, stiamo svolgendo anche la seconda fase dell’attività, con il supporto del tecnico del Servizio Distrettuale delle Attività Economiche (SDAE) e il presidente dell’Unione Distrettuale degli Agricoltori (UDC). Questa fase riguarda la sensibilizzazione delle comunità sull’importanza delle cure veterinarie per gli animali allevati e la formazione dei beneficiari sulle responsabilità da assumere per far progredire l’attività zootecnica.

vaccinazione capre cure veterinarie mozambico mani tese 2019
Cure veterinarie

 

Tutte queste attività sono state spiegate alle comunità attraverso dieci incontri con i beneficiari per renderli consapevoli dei loro doveri e diritti e scrivere insieme uno statuto comunitario partecipativo. Questo statuto regolerà l’uso delle strutture zootecniche e le responsabilità dei beneficiari. Sarà comunitario, in quanto si riferirà all’intera comunità, e partecipativo, perché saranno gli stessi membri della comunità a decidere quali clausole includere.

incontro comunitario statuto mozambico mani tese 2019
Incontro comunitario a Maneia per redigere lo statuto

 

Infine, a metà maggio è iniziata la terza fase, che ha visto il team di Mani Tese impegnato a distribuire gli animali in tutte e dieci le comunità e a consegnare a ogni gruppo di beneficiari 10 capre e 50 fra galline e papere. Da questo momento in avanti il successo delle attività zootecniche ènelle mani dei beneficiari. Anche se saranno accompagnati dall’assistenza tecnica di Mani Tese e dalle cure veterinarie fornite dallo SDAE, saranno loro i fautori del proprio futuro.

La filiera del cacao in Ecuador: il dossier di Mani Tese

Il dossier di Mani Tese sull’esperienza ecuadoriana di un modello produttivo e commerciale basato sulla gestione associativa del cacao.

Il mercato del cioccolato è in costante ascesa in tutto il mondo. Da diverso tempo, l’aumento della domanda si attesta attorno al 3% annuo. Eppure i piccoli coltivatori, che producono oltre il 90% del cacao in commercio e rappresentano dunque la spina dorsale della filiera, risentono di una crisi senza precedenti: il prezzo di acquisto della materia prima, le fave di cacao, decresce in modo costante da trent’anni.

In particolare, tra dicembre 2016 e febbraio 2017, il prezzo del cacao battuto nelle principali borse merci internazionali crollò mediamente da 3.000 a 1.900 dollari per tonnellata. In virtù di ciò, le più influenti multinazionali del cioccolato si aggiudicarono per tutto il 2017 forniture di cacao a un prezzo inferiore del 30% rispetto all’anno precedente, risparmiando oltre 4 miliardi di dollari. Di tale risparmio, però, non beneficiarono né i consumatori finali, né i circa 5,5 milioni di piccoli produttori che videro i loro già risibili introiti ridursi ulteriormente.

prezzo cacao mani tese 2019

Questo episodio è solo l’ultimo caso di ingiustizia in un mercato caratterizzato da gravi squilibri tra i piccoli produttori e i grandi attori del commercio, dell’industria e della finanza, dominato dalla speculazione finanziaria, che definisce i prezzi secondo criteri poco ragionevoli e trasparenti.

distribuzione valore aggiunto cacao Mani Tese 2019

Secondo le stime ufficiali dell’UNCTAD (la Conferenza delle Nazioni Unite sul Commercio e lo Sviluppo), i produttori sono arrivati a percepire redditi nettamente inferiori alla soglia di povertà, oggi fissata a 1.90 dollari al giorno per persona.

Come si può giustificare un settore il cui mercato è sempre più fiorente ma che, allo stesso tempo, non riesce a redistribuire i guadagni in modo da assicurare la sopravvivenza della sua base produttiva, costituita da milioni di persone?

IL CASO DELL’ECUADOR

In questo senso, il caso dell’Ecuador è particolarmente emblematico. I piccoli produttori ecuadoriani continuano a fare i conti con innumerevoli difficoltà: la volatilità dei prezzi a livello globale, un mercato nazionale in cui i buyer fanno “cartello” e impongono i propri prezzi, la scarsità di risorse, conoscenze e mezzi adeguati alle attività dei produttori, l’interruzione drastica del ricambio generazionale all’interno delle piantagioni. Il risultato è che i produttori ecuadoriani, che coltivano il miglior cacao al mondo, percepiscono ricavi miseri, nettamente al di sotto di un reddito dignitoso.

Le entità contadine sono destrutturate e precarie: non forniscono assistenza idonea ai soci produttori né sono in grado di reggere la concorrenza con i trader nazionali e internazionali. Le comunità in cui vivono i contadini, di conseguenza, patiscono drammatiche carenze alimentari, abitative, infrastrutturali. La scolarizzazione media è scarsa, i villaggi sono spesso compromessi dal punto di vista ambientale e della coesione sociale.

UN MODELLO ALTERNATIVO

Un modello alternativo, tuttavia, è possibile. Mani Tese, nell’ambito del progetto Cacao Corretto: Rafforzamento delle filiere del cacao e del caffè per la sovranità alimentare dell’Ecuador, realizzato da Mani Tese e COSPE, in collaborazione con FIAN Ecuador e CEDERENA, e cofinanziato dall’Agenzia Italiana per la Cooperazione allo Sviluppo ha realizzato un dossier sull’esperienza ecuadoriana di un modello produttivo e commerciale basato sulla gestione associativa del cacao prodotto attraverso l’empowerment di quattro associazioni di produttori locali che raggruppano oltre duemila famiglie.

Nel report si è cercato di dimostrare come la promozione di un modello produttivo e commerciale farmer-based consenta di spostare gli equilibri di potere all’interno della supply chain producendo un considerevole aumento della capacità negoziale degli agricoltori e, di conseguenza, una significativa riduzione della loro dipendenza e subalternità rispetto agli intermediari. Si tratta di una valida alternativa al modello attuale di mercato, grazie alla quale i contadini sono finalmente in grado di trattenere un margine di guadagno più alto da usare all’interno delle proprie comunità.

Il rafforzamento delle associazioni contadine procura vantaggi che vanno ben al di là della sfera meramente produttiva e commerciale. L’empowerment delle organizzazioni di base assicura benefici a più livelli: sociale, ambientale, politico. Il vantaggio più importante scaturente da questo tipo di filiera, in particolare, consiste nella possibilità di reinvestire i maggiori guadagni in piani di sviluppo comunitario. La matrice farmer-based, quindi, risulta essere la strategia più efficacie nel lungo periodo sia al fine di risollevare le sorti di un settore in condizioni critiche, sia per affermare la crescita di uomini e donne sul piano sociale ed economico.

L’approccio mira allo sviluppo di valori e diritti. Equità, parità di genere, giustizia ambientale, emancipazione, riduzione della povertà e sovranità alimentare rappresentano il valore aggiunto che solo questo modello riesce a garantire in modo strutturale.

LEGGI IL DOSSIER

modello farmer based cacao Ecuador Mani Tese 2019

 

Con le mani nella terra

Dalla Puglia all’Africa passando per il Sud America: l’attività in prima linea contro i cambiamenti climatici per uno sviluppo sostenibile nel sud del mondo.

DALLA PUGLIA ALL’AFRICA PASSANDO PER IL SUD AMERICA: L’ATTIVITÀ’  “IN PRIMA LINEA” CONTRO I CAMBIAMENTI CLIMATICI PER UNO SVILUPPO SOSTENIBILE NEL SUD DEL MONDO.

 

In trent’anni compiuti da poco, Matteo Anaclerio, agronomo, dal paese di Valenzano, in provincia di Bari, di strada (in senso letterale) negli ultimi anni ne ha fatta parecchia.

In questi giorni ci sentiamo spesso per via della situazione di emergenza in Mozambico, dove Matteo lavora come cooperante per Mani Tese. Nel Paese il ciclone Idai e le incessanti piogge hanno messo in ginocchio l’attività agricola e lo staff di Mani Tese sta lavorando per scongiurare la crisi alimentare. “Vedere molti dei nostri beneficiari perdere la propria abitazione o i propri pochi beni è stata una delle esperienze più dure della mia vita” racconta Matteo. Eppure quando parla del suo lavoro, non ha perso il suo entusiasmo: “Lavorare nel campo dello sviluppo agricolo nei Paesi del Sud del mondo, insieme ai tecnici locali, è un’esperienza unica e fantastica”, dice. Ed è proprio dal suo lavoro che inizia la nostra intervista.

Matteo, quando hai deciso di diventare un cooperante?

“Non ho mai voluto fare il cooperante in quanto tale, diciamo che ho sempre avuto una forte passione per la natura e l’ambiente e sono sempre stato curioso di vivere esperienze diverse per arricchirmi. Molte delle scelte che ho compiuto sono frutto della mia esperienza con gli scout, dai quali ho imparato che il nostro impegno quotidiano è quello di ‘lasciare il mondo migliore di come l’abbiamo trovato’.

Ricordo un’escursione in Molise, in cui un anziano mi disse che il giorno in cui l’uomo avrebbe abbandonato la terra e la montagna per trasferirsi in città, avremmo perso la bellezza della natura e non avremmo dato più peso a quello che mangiamo. Mi misi in testa che avrei accettato la sua sfida, molto simile a quella di mio nonno, che mi ha insegnato l’importanza della terra e la necessità di ridarle il suo valore, più volte calpestato”.

Come è iniziato il tuo lavoro a contatto con la terra?

“Dopo il liceo, mi sono iscritto ad agraria. Mentre ero ancora studente ho iniziato a lavorare nell’ambito dell’agricoltura sociale producendo, prima, erbe aromatiche con pazienti psichiatrici e gestendo poi un terreno confiscato. Attirato dalla sacralità della Terra del Sud America, ho preso il volo per svolgere il servizio civile in Bolivia, dove mi sono occupato di coltivazione agro ecologica. Quest’esperienza mi ha fatto capire che il mio ruolo di tecnico poteva essere importante anche all’interno di progetti di sviluppo rurale nel Sud del Mondo. Con Mani Tese ho avuto la fortuna di diventare un agronomo cooperante in Guinea Bissau, in Burkina Faso e ora in Mozambico”.

Nella tua esperienza, avrai di certo avuto modo di vivere sulla tua pelle gli effetti dei cambiamenti climatici…

“I cambiamenti climatici sono evidenti in tutto il mondo. In Puglia, la mia terra, alcuni ciliegi iniziano ad avere due fioriture, di cui una precoce e rischiosa a novembre. I mandorli anche a gennaio. Le gelate sono sempre più frequenti e dannose, compromettendo intere campagne agricole.

In Mozambico e nei climi tropicali, ma anche in quelli sub-tropicali e desertici in cui ho avuto modo di lavorare, i fenomeni piovosi sono sempre più intensi. Magari la quantità di pioggia annua non muta, ma la sua intensità fa sì che in pochi giorni cada quello che dovrebbe cadere in un anno. Succede così che la quantità di acqua eccessiva non venga assorbita dal terreno e non diventi disponibile per la crescita delle piante. Anzi, in molti casi crei ristagni idrici e morte delle piante stesse.

Per non parlare dei disastri legati all’innalzamento dei livelli dei fiumi, esondazioni, alluvioni, erosione dei suoli…Questa alterata frequenza di piogge è inoltre dannosa per i cicli delle piante. Ti faccio un esempio: saremmo capaci di bere i famosi 2 litri di acqua necessari in un giorno in 10 minuti e non berne per le restanti 23 ore e 50 minuti?

Questa estremizzazione dei climi fa sì che le piogge si concentrino in poco tempo aumentando la siccità nel resto dell’anno. A Maquival (località nel di stretto di Quelimane, in Mozambico), da quattro anni non riescono a produrre riso. Ci sono riusciti quest’anno paradossalmente grazie all’alluvione legata al Ciclone Idai (anche se con scarsa produzione perché le piogge sono iniziate tardi) ma il mais è marcito del tutto.

Del resto basta parlare con un anziano, in qualsiasi parte del mondo, e ti dirà che i tempi di semina sono cambiati e che la produzione agricola è sempre più rischiosa. Nei paesi del Sud del Mondo, dove l’agricoltura di sussistenza e familiare garantisce cibo per buona parte della popolazione, possiamo solo immaginare i danni per la sicurezza alimentare di migliaia di famiglie”.

 

Quelimane Agricola mani tese 2019 (1)

 

Quali sono le azioni che con Mani Tese stai intraprendendo per contrastare i cambiamenti climatici?

“La nostra organizzazione in tutti i Paesi in cui opera cerca sempre di attuare politiche di sostenibilità ambientale, a cominciare da quelle di sviluppo agricolo. I nostri progetti prevedono produzioni agricole sostenibili con l’uso di tecniche agro-ecologiche. Inoltre lavoriamo con le comunità locali per rafforzare alcune tecniche tradizionali integrate con le nostre tecnologie. Qui in Mozambico, per esempio, promuoviamo tecniche di agricoltura sintropica, che prevede un’altissima concentrazione di piante forestali, da frutto, leguminose, cereali e ortaggi in un ettaro. Un modello che garantisce non solo di ottimizzare lo spazio ma anche di aumentare la fertilità dei suoli e la biodiversità per diminuire i trattamenti per la difesa delle colture e aumentare la quantità di prodotti per ettaro, producendo anche una diversificazione della dieta nelle famiglie”.

Che cosa bisognerebbe fare, secondo te, per contrastare i cambiamenti climatici?

“Contrastare i cambiamenti climatici significa prenderne conoscenza e fare coscienza ciascuno facendo la propria parte. Occorre cambiare stile di vita. Ora. Totalmente. Come piccolo produttore e agronomo, è importante sostenere prodotti ed economie locali e prendere coscienza che tutto ciò che mangiamo ha un impatto e il tipo di agricoltura che lo produce anche. Pensiamo all’Africa. Dovremmo passare dal miliardo e 194 milioni di persone del 2015 ai 4 miliardi e 467 milioni del 2100. Una crescita che costringe a fare una riflessione globale e offrire soluzioni alternative ai nostri modelli, che si sono rivelati totalmente inadatti e insostenibili”.

Offrire soluzioni alternative è proprio quello che stai facendo tu come cooperante di Mani Tese…

“Esatto. Penso che davvero non si possa capire la bellezza di questo mestiere, sempre più complesso e esigente, ma che consente di unire la passione per il lavoro con l’impegno civile. La parola cooperazione mi piace molto perché intrinsecamente ha un valore legato allo scambio, e scambio è sinonimo di ricchezza e di miglioramento vicendevole”.

 

Articolo pubblicato sul numero di Giugno 2019 del Giornale di Mani Tese.

Una generazione che chiede futuro

I giovani senza ideologia e con molto pragmatismo sono i protagonisti di una battaglia che richiama con urgenza i governi al rispetto degli impegni assunti.

GLI ADULTI DI DOMANI CHIEDONO RISPOSTE AGLI ADULTI DI OGGI. SENZA IDEOLOGIA E CON MOLTO PRAGMATISMO, I GIOVANI SONO I NUOVI PROTAGONISTI DI UNA BATTAGLIA CHE RICHIAMA CON URGENZA I GOVERNI AL RISPETTO DEGLI IMPEGNI ASSUNTI.

“Ci siamo rotti i polmoni!”, gridano i ragazzi arrampicati sul monumento di Piazza Cairoli, a Milano. È il 15 marzo, il giorno del primo Sciopero Mondiale per il Clima, e solo a Milano sono almeno in centomila. Un venerdì, perché è questo il giorno in cui è iniziata la protesta dei Fridays for Future. È bastato un gesto tutto sommato semplice e apparentemente isolato per scatenare una reazione a catena di portata internazionale. Lo scorso agosto una ragazza svedese ha deciso che ne aveva abbastanza della retorica sui cambiamenti climatici. “Che senso ha andare a scuola se tanto i politici non ascoltano gli scienziati?”, ha pensato, e così ha cominciato a stare a casa da scuola, ogni venerdì, per protestare davanti al parlamento, da sola. Questa ragazza si chiama Greta Thunberg, ha 16 anni, e in pochi mesi è diventata così famosa da essere ricevuta dal Papa e proposta per il premio Nobel per la pace.  La sua fotografia, sotto la pioggia con un impermeabile giallo, le trecce e un cartello, ha fatto il giro del mondo ed è presto diventata un’icona. Nel giro di qualche settimana Greta è stata imitata da migliaia di adolescenti in Europa e non solo, un’onda cresciuta rapidamente fino a interessare, il 15 marzo, più di duemila piazze. A quel punto il movimento di protesta è entrato nei radar delle redazioni di mezzo mondo, che hanno portato alla ribalta un tema fino a ieri considerato di scarsa importanza dalla maggior parte delle persone.

Le parole dirette di Greta

Ma cosa c’è di nuovo nelle proteste dei ragazzi sul clima? Per capirlo bisogna riascoltare con attenzione i tre minuti e mezzo del discorso fatto da Greta alla COP24 di Katowice in Polonia, di fronte ai leader mondiali che la ascoltavano tra indifferenza e finti sorrisi imbarazzati. Per prima cosa la richiesta è inattaccabile: semplice, inequivocabile, e supportata dal consenso pressoché unanime della comunità scientifica. È molto difficile dare torto a qualcuno che ti guarda dritto negli occhi e dice: “Avete interrogato i migliori scienziati del mondo, che sono d’accordo nell’affermare la necessità urgente di adottare misure drastiche per evitare che il riscaldamento globale provochi danni incontrollabili. Perché non state facendo niente?” I ragazzi chiedono di rispettare l’impegno di ridurre le emissioni di CO2 della metà entro il 2030 e di azzerarle entro il 2050, mentre secondo i dati del Climate Change Performance Index (CCPI) elaborato da Germanwatch, NewClimate Institute e Climate Action Network, nessuno tra i 56 Paesi responsabili del 90% delle emissioni globali risulta essere su una traiettoria compatibile con l’impegno di mantenere l’aumento della temperatura al di sotto dei 2°. Non c’è nulla di ideologico in questo. Semmai, e questo è un secondo punto di forza, la battaglia è sul piano generazionale.

Greta racconta una breve storiella: “Nel 2078 avrò 75 anni”, dice. “Se avrò dei figli festeggerò il mio compleanno con loro, e probabilmente mi chiederanno perché non avete fatto nulla quando c’era ancora tempo per agire”. E aggiunge: “Dite di amare i vostri figli più di ogni altra cosa e invece gli state rubando il futuro davanti ai loro occhi”. Il problema dei cambiamenti climatici va affrontato oggi per evitare che produca danni irreparabili tra 30 anni.  Per la politica si tratta di un tempo molto lontano, ma i ragazzi che scendono in piazza saranno la prima generazione toccata direttamente dagli effetti del riscaldamento globale. Per loro non si tratta di un lontano problema globale ma di un tema che li riguarda in prima persona. Invece i governanti oggi al potere tra pochi decenni saranno già morti. In questa differenza di vedute si gioca il tema della giustizia intergenerazionale, che è uno dei pilastri della definizione di sostenibilità, nel suo: “…assicurare il soddisfacimento dei bisogni della generazione presente senza compromettere la possibilità delle generazioni future di realizzare i propri”. Abbiamo sempre guardato a questo concetto in senso astratto, mentre oggi per la prima volta assume contorni concreti. Cosa succederebbe se un tribunale decidesse di dare ragione a una richiesta di giustizia intergenerazionale, cioè se valesse il principio di violazione del diritto a vivere in un ambiente sano? Probabilmente cambierebbero molte cose sul piano economico e sociale. I nati dopo il 2000 si sentono saccheggiati del proprio futuro e sono persone in carne ed ossa che possono rivendicare fisicamente i propri diritti. Ma c’è ancora dell’altro.

il futuro è nelle nostre mani mani tese 2019

 

Ambiente chiama giustizia

Prima di essere tra vecchi e giovani, la battaglia è tra (pochi) ricchi e (tanti) poveri. Greta a Katowice è stata molto chiara su questo punto: “La nostra civiltà viene sacrificata per il privilegio di un numero molto piccolo di persone che continuano ad aumentare la loro enorme ricchezza. Sono le sofferenze di molti che pagano per il lusso dei pochi”. La parabola dell’industria del carbone ne è una rappresentazione plastica. Con gli accordi di Parigi del 2015 sembrava che il suo tempo fosse finito, eppure a tre anni di distanza il combustibile fossile più inquinante in assoluto continua a essere estratto a beneficio di un pugno di società minerarie e a danno soprattutto dei più poveri, che sono i primi a subire gli effetti del degrado dell’ecosistema. Per i ragazzi di Fridays for Future, la cui sezione italiana si è da poco incontrata nella prima Assemblea Nazionale costituente, quella sul clima non è una battaglia ambientale, ma di equità sociale, di climate justice. Sanno che qualcuno sta guadagnando sulla loro pelle e non credono più alla retorica che vede tutti ugualmente responsabili dell’aumento della temperatura.

Giovani e donne: il nuovo volto della protesta

Infine c’è un ultimo aspetto che dà speranza al movimento globale degli studenti sul clima. I volti della protesta sono in larga parte femminili. Non solo Greta Thunberg in Svezia, ma anche Kyra Gantois in Belgio, Maia Brouwer in Olanda e moltissime altre ragazze scendono in piazza a favore di una cura diversa della “casa comune”. La storia dei movimenti ci insegna che quando sono le donne a prendere le redini di una contestazione la sua parabola diventa meno episodica, più costante e focalizzata sull’obiettivo. Greta conclude così il suo discorso alla COP24: “Non siamo venuti qui per pregarvi di prendervi cura di noi, ci avete ignorato in passato e ci ignorerete in futuro. Siamo venuti per farvi sapere che il cambiamento sta arrivando, che vi piaccia o no.” Non sono parole che esprimono speranza, ma determinazione e volontà di agire. La vera forza di un movimento che può davvero innescare un cambio di rotta.

 

Per approfondire: 

SVILUPPO SOSTENIBILE: “OUR COMMON FUTURE”

Nel 1983, con una risoluzione dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, viene istituita la Commissione Mondiale per l’Ambiente e lo Sviluppo, presieduta dal norvegese Gro Harlem Brundtland. La commissione, nel 1987, pubblicò un rapporto dal titolo eloquente: “Our Common Future”, che delinea per la prima volta il concetto di sviluppo sostenibile e che, in un passaggio, ammonisce: “Lo sviluppo sostenibile non è uno stato fisso di armonia, ma piuttosto un processo di cambiamento” nel quale “lo sfruttamento delle risorse, la direzione degli investimenti, l’orientamento dello sviluppo tecnologico, e i cambiamenti istituzionali sono resi coerenti con le esigenze future e attuali. Non pretendiamo che il processo sia facile o diretto. Le scelte dolorose devono essere fatte. Quindi, in ultima analisi, lo Sviluppo sostenibile deve poggiare sulla volontà politica”. 

La Conferenza delle Nazioni Unite su ambiente e sviluppo tenutasi a Rio de Janeiro nel 1992 ha consolidato nei suoi atti questo principio, posto a fondamento anche delle azioni in campo ambientale dell’Unione Europea.

 

Articolo pubblicato sul numero di Giugno 2019 del Giornale di Mani Tese.

NOI VOLONTARI IMPEGNATI PER IL CLIMA

L’urgenza di lottare contro il cambiamento climatico nasce da una domanda di giustizia, sopratutto per chi, nei paesi del Sud del Mondo è il primo a subirne le conseguenze.

di MANI TESE, Gruppo di Milano

 

L’URGENZA DI LOTTARE CONTRO IL CAMBIAMENTO CLIMATICO NASCE DA UNA DOMANDA DI GIUSTIZIA, SOPRATTUTTO PER CHI, NEI PAESI DEL SUD DEL MONDO, È IL PRIMO A SUBIRNE LE CONSEGUENZE.

Quando abbiamo appreso dell’iniziativa della rete Milano per il Clima per il 15 marzo, abbiamo aderito con entusiasmo. La possibilità di dare vita a una grande mobilitazione dal basso, insieme a tante altre realtà del nostro territorio impegnate a vario titolo nella lotta ai cambiamenti climatici, ci è sembrata un’occasione da non perdere. Soprattutto perché una piazza supportata da associazioni e movimenti che possono vantare competenza ed esperienza di lungo corso su questi temi può avere un peso politico rilevante.

In gioco la sopravvivenza del Pianeta

Crediamo sia importante dare il nostro contributo per portare questi argomenti all’attenzione dell’opinione pubblica e per fare pressione sulle istituzioni, a vari livelli, affinché riconoscano la crisi climatica e adottino le misure necessarie per frenare l’aumento della temperatura del pianeta. È in gioco la sopravvivenza stessa della specie umana e non ci resta molto tempo per intervenire. Come volontari di Mani Tese, ci sentiamo interpellati in prima persona: la promozione di un modello di sviluppo compatibile con i limiti ambientali della Terra e la realizzazione della giustizia climatica sono capisaldi della nostra associazione. Non possiamo ignorare gli effetti né provocando negli stessi Paesi in cui Mani Tese opera, e non possiamo non considerare che paradossalmente i primi a pagarne le conseguenze sono coloro che meno hanno contribuito a determinarli. È stato quindi naturale fare nostri i tre pilastri della rete Milano per il Clima, nata pochi mesi fa dalla volontà di alcuni giovani attivisti: con- tenimento dell’aumento della temperatura media del pianeta entro 1.5° C rispetto all’epoca preindustriale, perseguimento della giustizia climatica e diffusione di un pensiero ecologico.

Tante bandiere, un’unica voce

Nelle settimane precedenti il 15 marzo abbiamo preso parte agli incontri per l’organizzazione della mobilitazione “Milano strikes for the planet” con altre associazioni aderenti alla rete Milano per il Clima. In vi- sta della manifestazione serale, indetta per coinvolgere anche la platea dei lavoratori, abbiamo fornito il nostro supporto acquistando mascherine anti-smog, simbolo della protesta, pubblicizzando l’evento tra- mite i nostri canali social, ideando slogan, stampando foto e realizzando cartelloni da portare in corteo. È stato sorprendente ritrovarsi in piazza e marciare insieme a 40.000 persone di tutte le età, al seguito di un risciò a pedali, con le bandiere di Mani Tese al fianco di quelle di tante altre associazioni e movimenti. Siamo intenzionati a fare tutto il possibile affinché questo capi- tale non venga disperso e la mobilitazione continui. Fervono già i preparativi per il 24 maggio. Noi di Mani Tese Milano ci saremo.

 

PIETRO: “Mi metto in gioco per l’ambiente”

Sono Pietro, ho 24 anni, e studio Scienze Internazionali alla Statale di Milano. Ho deciso di approcciarmi concretamente al tema climatico nel 2017. La base della mia ricerca è partita dall’India, al ”Navdanya Bija Vidyapeeth”, scuola della terra della dottoressa Vandana Shiva. A seguito di questa esperienza, il mio interesse è sfociato nel bisogno personale di mettermi in gioco. Il primo approccio con Mani Tese è avvenuto a inizio 2019, quando ho iniziato a partecipare alle riunioni del volontariato. Pochi mesi dopo, nel pieno dell’organizzazione della mobilitazione del 15 marzo, è cominciato anche il mio impegno a nome di Mani Tese nella rete Milano per il Clima. Dopo il successo della manifestazione, ho partecipato all’Osservatorio sulla transizione energetica e l’economia circolare della Regione Lombardia. In questa sede, io e Giulia Persico abbiamo presenziato a nome della Rete, e avuto l’onore di esprimere messaggi e proposte.

 

MICHELA: “Le nostre scelte fanno il mondo migliore”

Ho conosciuto Mani Tese quando frequentavo le scuole medie. Da quel primo incontro di Educazione alla Cittadinanza Globale sono passati tanti anni, ma conservo ancora la consapevolezza, maturata allora, dell’importanza delle nostre scelte di consumatori e di cittadini nella realizzazione di un mondo più giusto. È con questo spirito che ho deciso di unirmi al Gruppo di Milano dei volontari di Mani Tese, poco più di un anno fa, e di aderire alla mobilitazione internazionale per il clima. Partecipando alle riunioni organizzative per la manifestazione del 15 marzo, sono venuta a contatto con il vivace mondo dell’associazionismo ambientalista milanese e ho dato il mio piccolo contributo nel ruolo di tesoriera della neonata rete Milano per il Clima. Ho risposto convintamente a questa chiamata internazionale perché credo che interventi immediati per la mitigazione dei cambiamenti climatici e per l’adattamento al nuovo equilibrio del pianeta siano più che mai necessari e che debbano farsene carico per primi i Paesi che a questa crisi hanno contribuito maggiormente.

 

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Articolo pubblicato sul numero di Giugno 2019 del Giornale di Mani Tese.

 

 

 

 

PETROLIO E MINIERE: IL POZZO DELL’AFRICA

Dalla Nigeria al Mozambico, le popolazioni locali pagano il prezzo più alto in termini di danno ambientale e povertà a causa del sistema di mercato attuale che governa l’estrazione e l’esportazione di combustibili fossili.

DALLA NIGERIA AL MOZAMBICO, LE POPOLAZIONI LOCALI PAGANO IL PREZZO PIÙ ALTO IN TERMINI DI DANNO AMBIENTALE E POVERTÀ ANCHE A CAUSA DELL’ATTUALE SISTEMA DI MERCATO CHE GOVERNA L’ESTRAZIONE E L’ESPORTAZIONE DI COMBUSTIBILI FOSSILI.

Se vogliamo comprendere la crisi socio-ambientale che stiamo vivendo, pochi luoghi al mondo sono più significativi di Makoko, la baraccopoli da 100.000 abitanti che avanza nella laguna di Lagos su palafitte e su un nuovo suolo creato dai rifiuti smaltiti nell’acqua, in assenza di alternative. Qui, letteralmente sul livello del mare, la popolazione vive quotidianamente il senso dell’innalzamento degli oceani e l’aumento dei fenomeni climatici estremi. Quando non sono oggetto di attacchi da parte delle autorità, gli abitanti devono infatti difendersi dalle periodiche alluvioni che investono la zona. Nel 2016, a seguito di una di queste tempeste è affondata anche la Makoko Floating School, un edificio galleggiante costruito dall’architetto nigeriano Kunlé Adeyemi e divenuto per qualche tempo simbolo dell’adattamento al cambiamento climatico nei Paesi a basso reddito.

Nella morsa dell’“oro nero”

Makoko è il simbolo della crisi non solo perché mostra come i cambiamenti climatici colpiscano in modo sproporzionato i più poveri, ma anche perché si colloca al centro della principale città della Nigeria, prima economia africana per dimensioni, grazie all’esportazione del petrolio. La regione del Delta del fiume Niger, da cui proviene il petrolio nigeriano, da oltre cinquant’anni è devastata dal punto di vista sociale e ambientale dall’attività estrattiva di un gruppo ristretto di imprese che alimentano le economie di alcuni Paesi nordamericani ed europei, tra cui l’Italia.

La Nigeria, tuttavia, è solo l’esempio più clamoroso. Più in generale, infatti, è l’Africa nel suo complesso a rappresentare in modo emblematico la crisi socio-ambientale globale: da una parte, anche a causa delle difficoltà economiche, è il continente in cui si sentono maggiormente gli effetti del cambiamento climatico; dall’altra, nelle miniere e nei campi petroliferi africani vediamo all’opera un sistema produttivo fondato su combustibili che vengono estratti lontano dai luoghi dove vengono consumati.

Il continente africano produce circa il doppio del petrolio che consuma (oltre 8 milioni di barili estratti al giorno a fronte di circa 4 milioni consumati): il combustibile estratto viene infatti esportato verso le economie cosiddette avanzate, rendendo così possibile il loro sviluppo. A livello mondiale i principali esportatori di petrolio rimangono gli Stati del Golfo Persico, ma ormai da diversi anni alcuni Paesi africani occupano una posizione di primo piano in questo settore. Angola e Nigeria guidano questa particolare classifica: la prima è profondamente legata alle importazioni cinesi, la seconda è patria da decenni delle multinazionali occidentali.

foto Matteo de Mayda mani tese 2019
© Matteo de Mayda

 

Ambiente e mercato

La crisi socio-ambientale è globale, dunque, non tanto perché, come talvolta si dice, “siamo tutti sulla stessa barca”, quanto piuttosto perché l’economia che la determina è costruita su scala internazionale e gli effetti sono delocalizzati rispetto alle cause. Osserviamo il Mozambico: nonostante il Paese abbia un consumo trascurabile di carbone, circa un millesimo di quello italiano, qui vengono estratte ogni anno circa 6 milioni di tonnellate di questo combustibile. Il Mozambico è infatti il secondo produttore di carbone in Africa, dopo il Sudafrica, e le sue miniere, sfruttate da imprese brasiliane (Vale) e indiane (International Coal Ventures Limited) alimentano la produzione di energia dell’India, secondo consumatore mondiale di carbone dopo la Cina (e appena prima degli Stati Uniti, terzo stato per consumi). Tra i combustibili fossili più utilizzati, il carbone è quello che produce più gas climalteranti per unità di energia prodotta e, dopo alcuni anni di calo, nel 2017 i suoi consumi sono tornati a crescere a livello globale. Gli effetti dei cambiamenti climatici sono già visibili in Mozambico: nel marzo scorso la costa orientale del Paese è stata colpita da un ciclone di intensità anomala che ha provocato circa 900 vittime.

Gli esempi della Nigeria e del Mozambico mostrano due aspetti fondamentali della crisi. Il primo è che il sistema produttivo fondato sui combustibili fossili produce danni sociali e ambientali lungo tutta la sua filiera e non solo in termini di cambiamento climatico. Analizzare la crisi socio-ambientale isolando la questione climatica, significa osservare l’ultimo anello di una catena di sfruttamento delle persone e dell’ambiente che è alla base del sistema produttivo globale. Il secondo punto da sottolineare è che l’attuale sistema economico fa sì che sfruttamento e danni socio-ambientali si localizzino in modo sproporzionato nei Paesi più poveri e che, al contrario, i profitti rimangano concentrati nelle mani di poche imprese multinazionali.

Africa, un osservatorio sulla crisi

In questo senso il cambiamento climatico non è “il” problema, ma una delle forme con le quali si manifesta la crisi contemporanea. Se non capiamo questo passaggio, rischiamo di proporre una retorica del destino comune, della terra come “navicella spaziale” che non corrisponde alla realtà: il cambiamento climatico in atto sta già producendo danni per alcuni ed è già motore di nuova accumulazione di capitale per altri.

A pochi chilometri da Makoko, sulla costa atlantica di Lagos, sta prendendo forma su una penisola artificiale di 1000 ettari un nuovo quartiere di lusso che ospiterà l’élite nigeriana e le sedi delle principali imprese internazionali. L’iniziativa nasce per creare una barriera contro le ricorrenti inondazioni che colpiscono la costa meridionale della città e vede coinvolti investitori locali (gruppo Chagoury), imprese europee di bonifica (l’olandese Royal HaskoningDHV), aziende cinesi di costruzioni (China Communications Construction Group), oltre a fondazioni filantropiche internazionali (Clinton Foundation).

L’Africa è un punto di vista privilegiato per osservare la crisi contemporanea perché è la frontiera dell’attuale sistema economico, il luogo dove si manifestano in forma estrema le conseguenze dello sfruttamento delle persone e dell’ambiente, ma anche il terreno in cui si sperimentano modalità innovative per trarre profitto dalla crisi. Da questa posizione occorre dunque guardare il problema per capirne la complessità e produrre modelli di società alternativi.

 

Tab 1- Carbone produzione e consumo    

                                                                                                                                                                                             

 

Articolo pubblicato sul numero di Giugno 2019 del Giornale di Mani Tese.