Una generazione che chiede futuro

I giovani senza ideologia e con molto pragmatismo sono i protagonisti di una battaglia che richiama con urgenza i governi al rispetto degli impegni assunti.

GLI ADULTI DI DOMANI CHIEDONO RISPOSTE AGLI ADULTI DI OGGI. SENZA IDEOLOGIA E CON MOLTO PRAGMATISMO, I GIOVANI SONO I NUOVI PROTAGONISTI DI UNA BATTAGLIA CHE RICHIAMA CON URGENZA I GOVERNI AL RISPETTO DEGLI IMPEGNI ASSUNTI.

“Ci siamo rotti i polmoni!”, gridano i ragazzi arrampicati sul monumento di Piazza Cairoli, a Milano. È il 15 marzo, il giorno del primo Sciopero Mondiale per il Clima, e solo a Milano sono almeno in centomila. Un venerdì, perché è questo il giorno in cui è iniziata la protesta dei Fridays for Future. È bastato un gesto tutto sommato semplice e apparentemente isolato per scatenare una reazione a catena di portata internazionale. Lo scorso agosto una ragazza svedese ha deciso che ne aveva abbastanza della retorica sui cambiamenti climatici. “Che senso ha andare a scuola se tanto i politici non ascoltano gli scienziati?”, ha pensato, e così ha cominciato a stare a casa da scuola, ogni venerdì, per protestare davanti al parlamento, da sola. Questa ragazza si chiama Greta Thunberg, ha 16 anni, e in pochi mesi è diventata così famosa da essere ricevuta dal Papa e proposta per il premio Nobel per la pace.  La sua fotografia, sotto la pioggia con un impermeabile giallo, le trecce e un cartello, ha fatto il giro del mondo ed è presto diventata un’icona. Nel giro di qualche settimana Greta è stata imitata da migliaia di adolescenti in Europa e non solo, un’onda cresciuta rapidamente fino a interessare, il 15 marzo, più di duemila piazze. A quel punto il movimento di protesta è entrato nei radar delle redazioni di mezzo mondo, che hanno portato alla ribalta un tema fino a ieri considerato di scarsa importanza dalla maggior parte delle persone.

Le parole dirette di Greta

Ma cosa c’è di nuovo nelle proteste dei ragazzi sul clima? Per capirlo bisogna riascoltare con attenzione i tre minuti e mezzo del discorso fatto da Greta alla COP24 di Katowice in Polonia, di fronte ai leader mondiali che la ascoltavano tra indifferenza e finti sorrisi imbarazzati. Per prima cosa la richiesta è inattaccabile: semplice, inequivocabile, e supportata dal consenso pressoché unanime della comunità scientifica. È molto difficile dare torto a qualcuno che ti guarda dritto negli occhi e dice: “Avete interrogato i migliori scienziati del mondo, che sono d’accordo nell’affermare la necessità urgente di adottare misure drastiche per evitare che il riscaldamento globale provochi danni incontrollabili. Perché non state facendo niente?” I ragazzi chiedono di rispettare l’impegno di ridurre le emissioni di CO2 della metà entro il 2030 e di azzerarle entro il 2050, mentre secondo i dati del Climate Change Performance Index (CCPI) elaborato da Germanwatch, NewClimate Institute e Climate Action Network, nessuno tra i 56 Paesi responsabili del 90% delle emissioni globali risulta essere su una traiettoria compatibile con l’impegno di mantenere l’aumento della temperatura al di sotto dei 2°. Non c’è nulla di ideologico in questo. Semmai, e questo è un secondo punto di forza, la battaglia è sul piano generazionale.

Greta racconta una breve storiella: “Nel 2078 avrò 75 anni”, dice. “Se avrò dei figli festeggerò il mio compleanno con loro, e probabilmente mi chiederanno perché non avete fatto nulla quando c’era ancora tempo per agire”. E aggiunge: “Dite di amare i vostri figli più di ogni altra cosa e invece gli state rubando il futuro davanti ai loro occhi”. Il problema dei cambiamenti climatici va affrontato oggi per evitare che produca danni irreparabili tra 30 anni.  Per la politica si tratta di un tempo molto lontano, ma i ragazzi che scendono in piazza saranno la prima generazione toccata direttamente dagli effetti del riscaldamento globale. Per loro non si tratta di un lontano problema globale ma di un tema che li riguarda in prima persona. Invece i governanti oggi al potere tra pochi decenni saranno già morti. In questa differenza di vedute si gioca il tema della giustizia intergenerazionale, che è uno dei pilastri della definizione di sostenibilità, nel suo: “…assicurare il soddisfacimento dei bisogni della generazione presente senza compromettere la possibilità delle generazioni future di realizzare i propri”. Abbiamo sempre guardato a questo concetto in senso astratto, mentre oggi per la prima volta assume contorni concreti. Cosa succederebbe se un tribunale decidesse di dare ragione a una richiesta di giustizia intergenerazionale, cioè se valesse il principio di violazione del diritto a vivere in un ambiente sano? Probabilmente cambierebbero molte cose sul piano economico e sociale. I nati dopo il 2000 si sentono saccheggiati del proprio futuro e sono persone in carne ed ossa che possono rivendicare fisicamente i propri diritti. Ma c’è ancora dell’altro.

il futuro è nelle nostre mani mani tese 2019

 

Ambiente chiama giustizia

Prima di essere tra vecchi e giovani, la battaglia è tra (pochi) ricchi e (tanti) poveri. Greta a Katowice è stata molto chiara su questo punto: “La nostra civiltà viene sacrificata per il privilegio di un numero molto piccolo di persone che continuano ad aumentare la loro enorme ricchezza. Sono le sofferenze di molti che pagano per il lusso dei pochi”. La parabola dell’industria del carbone ne è una rappresentazione plastica. Con gli accordi di Parigi del 2015 sembrava che il suo tempo fosse finito, eppure a tre anni di distanza il combustibile fossile più inquinante in assoluto continua a essere estratto a beneficio di un pugno di società minerarie e a danno soprattutto dei più poveri, che sono i primi a subire gli effetti del degrado dell’ecosistema. Per i ragazzi di Fridays for Future, la cui sezione italiana si è da poco incontrata nella prima Assemblea Nazionale costituente, quella sul clima non è una battaglia ambientale, ma di equità sociale, di climate justice. Sanno che qualcuno sta guadagnando sulla loro pelle e non credono più alla retorica che vede tutti ugualmente responsabili dell’aumento della temperatura.

Giovani e donne: il nuovo volto della protesta

Infine c’è un ultimo aspetto che dà speranza al movimento globale degli studenti sul clima. I volti della protesta sono in larga parte femminili. Non solo Greta Thunberg in Svezia, ma anche Kyra Gantois in Belgio, Maia Brouwer in Olanda e moltissime altre ragazze scendono in piazza a favore di una cura diversa della “casa comune”. La storia dei movimenti ci insegna che quando sono le donne a prendere le redini di una contestazione la sua parabola diventa meno episodica, più costante e focalizzata sull’obiettivo. Greta conclude così il suo discorso alla COP24: “Non siamo venuti qui per pregarvi di prendervi cura di noi, ci avete ignorato in passato e ci ignorerete in futuro. Siamo venuti per farvi sapere che il cambiamento sta arrivando, che vi piaccia o no.” Non sono parole che esprimono speranza, ma determinazione e volontà di agire. La vera forza di un movimento che può davvero innescare un cambio di rotta.

 

Per approfondire: 

SVILUPPO SOSTENIBILE: “OUR COMMON FUTURE”

Nel 1983, con una risoluzione dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, viene istituita la Commissione Mondiale per l’Ambiente e lo Sviluppo, presieduta dal norvegese Gro Harlem Brundtland. La commissione, nel 1987, pubblicò un rapporto dal titolo eloquente: “Our Common Future”, che delinea per la prima volta il concetto di sviluppo sostenibile e che, in un passaggio, ammonisce: “Lo sviluppo sostenibile non è uno stato fisso di armonia, ma piuttosto un processo di cambiamento” nel quale “lo sfruttamento delle risorse, la direzione degli investimenti, l’orientamento dello sviluppo tecnologico, e i cambiamenti istituzionali sono resi coerenti con le esigenze future e attuali. Non pretendiamo che il processo sia facile o diretto. Le scelte dolorose devono essere fatte. Quindi, in ultima analisi, lo Sviluppo sostenibile deve poggiare sulla volontà politica”. 

La Conferenza delle Nazioni Unite su ambiente e sviluppo tenutasi a Rio de Janeiro nel 1992 ha consolidato nei suoi atti questo principio, posto a fondamento anche delle azioni in campo ambientale dell’Unione Europea.

 

Articolo pubblicato sul numero di Giugno 2019 del Giornale di Mani Tese.

NOI VOLONTARI IMPEGNATI PER IL CLIMA

L’urgenza di lottare contro il cambiamento climatico nasce da una domanda di giustizia, sopratutto per chi, nei paesi del Sud del Mondo è il primo a subirne le conseguenze.

di MANI TESE, Gruppo di Milano

 

L’URGENZA DI LOTTARE CONTRO IL CAMBIAMENTO CLIMATICO NASCE DA UNA DOMANDA DI GIUSTIZIA, SOPRATTUTTO PER CHI, NEI PAESI DEL SUD DEL MONDO, È IL PRIMO A SUBIRNE LE CONSEGUENZE.

Quando abbiamo appreso dell’iniziativa della rete Milano per il Clima per il 15 marzo, abbiamo aderito con entusiasmo. La possibilità di dare vita a una grande mobilitazione dal basso, insieme a tante altre realtà del nostro territorio impegnate a vario titolo nella lotta ai cambiamenti climatici, ci è sembrata un’occasione da non perdere. Soprattutto perché una piazza supportata da associazioni e movimenti che possono vantare competenza ed esperienza di lungo corso su questi temi può avere un peso politico rilevante.

In gioco la sopravvivenza del Pianeta

Crediamo sia importante dare il nostro contributo per portare questi argomenti all’attenzione dell’opinione pubblica e per fare pressione sulle istituzioni, a vari livelli, affinché riconoscano la crisi climatica e adottino le misure necessarie per frenare l’aumento della temperatura del pianeta. È in gioco la sopravvivenza stessa della specie umana e non ci resta molto tempo per intervenire. Come volontari di Mani Tese, ci sentiamo interpellati in prima persona: la promozione di un modello di sviluppo compatibile con i limiti ambientali della Terra e la realizzazione della giustizia climatica sono capisaldi della nostra associazione. Non possiamo ignorare gli effetti né provocando negli stessi Paesi in cui Mani Tese opera, e non possiamo non considerare che paradossalmente i primi a pagarne le conseguenze sono coloro che meno hanno contribuito a determinarli. È stato quindi naturale fare nostri i tre pilastri della rete Milano per il Clima, nata pochi mesi fa dalla volontà di alcuni giovani attivisti: con- tenimento dell’aumento della temperatura media del pianeta entro 1.5° C rispetto all’epoca preindustriale, perseguimento della giustizia climatica e diffusione di un pensiero ecologico.

Tante bandiere, un’unica voce

Nelle settimane precedenti il 15 marzo abbiamo preso parte agli incontri per l’organizzazione della mobilitazione “Milano strikes for the planet” con altre associazioni aderenti alla rete Milano per il Clima. In vi- sta della manifestazione serale, indetta per coinvolgere anche la platea dei lavoratori, abbiamo fornito il nostro supporto acquistando mascherine anti-smog, simbolo della protesta, pubblicizzando l’evento tra- mite i nostri canali social, ideando slogan, stampando foto e realizzando cartelloni da portare in corteo. È stato sorprendente ritrovarsi in piazza e marciare insieme a 40.000 persone di tutte le età, al seguito di un risciò a pedali, con le bandiere di Mani Tese al fianco di quelle di tante altre associazioni e movimenti. Siamo intenzionati a fare tutto il possibile affinché questo capi- tale non venga disperso e la mobilitazione continui. Fervono già i preparativi per il 24 maggio. Noi di Mani Tese Milano ci saremo.

 

PIETRO: “Mi metto in gioco per l’ambiente”

Sono Pietro, ho 24 anni, e studio Scienze Internazionali alla Statale di Milano. Ho deciso di approcciarmi concretamente al tema climatico nel 2017. La base della mia ricerca è partita dall’India, al ”Navdanya Bija Vidyapeeth”, scuola della terra della dottoressa Vandana Shiva. A seguito di questa esperienza, il mio interesse è sfociato nel bisogno personale di mettermi in gioco. Il primo approccio con Mani Tese è avvenuto a inizio 2019, quando ho iniziato a partecipare alle riunioni del volontariato. Pochi mesi dopo, nel pieno dell’organizzazione della mobilitazione del 15 marzo, è cominciato anche il mio impegno a nome di Mani Tese nella rete Milano per il Clima. Dopo il successo della manifestazione, ho partecipato all’Osservatorio sulla transizione energetica e l’economia circolare della Regione Lombardia. In questa sede, io e Giulia Persico abbiamo presenziato a nome della Rete, e avuto l’onore di esprimere messaggi e proposte.

 

MICHELA: “Le nostre scelte fanno il mondo migliore”

Ho conosciuto Mani Tese quando frequentavo le scuole medie. Da quel primo incontro di Educazione alla Cittadinanza Globale sono passati tanti anni, ma conservo ancora la consapevolezza, maturata allora, dell’importanza delle nostre scelte di consumatori e di cittadini nella realizzazione di un mondo più giusto. È con questo spirito che ho deciso di unirmi al Gruppo di Milano dei volontari di Mani Tese, poco più di un anno fa, e di aderire alla mobilitazione internazionale per il clima. Partecipando alle riunioni organizzative per la manifestazione del 15 marzo, sono venuta a contatto con il vivace mondo dell’associazionismo ambientalista milanese e ho dato il mio piccolo contributo nel ruolo di tesoriera della neonata rete Milano per il Clima. Ho risposto convintamente a questa chiamata internazionale perché credo che interventi immediati per la mitigazione dei cambiamenti climatici e per l’adattamento al nuovo equilibrio del pianeta siano più che mai necessari e che debbano farsene carico per primi i Paesi che a questa crisi hanno contribuito maggiormente.

 

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Articolo pubblicato sul numero di Giugno 2019 del Giornale di Mani Tese.

 

 

 

 

PETROLIO E MINIERE: IL POZZO DELL’AFRICA

Dalla Nigeria al Mozambico, le popolazioni locali pagano il prezzo più alto in termini di danno ambientale e povertà a causa del sistema di mercato attuale che governa l’estrazione e l’esportazione di combustibili fossili.

DALLA NIGERIA AL MOZAMBICO, LE POPOLAZIONI LOCALI PAGANO IL PREZZO PIÙ ALTO IN TERMINI DI DANNO AMBIENTALE E POVERTÀ ANCHE A CAUSA DELL’ATTUALE SISTEMA DI MERCATO CHE GOVERNA L’ESTRAZIONE E L’ESPORTAZIONE DI COMBUSTIBILI FOSSILI.

Se vogliamo comprendere la crisi socio-ambientale che stiamo vivendo, pochi luoghi al mondo sono più significativi di Makoko, la baraccopoli da 100.000 abitanti che avanza nella laguna di Lagos su palafitte e su un nuovo suolo creato dai rifiuti smaltiti nell’acqua, in assenza di alternative. Qui, letteralmente sul livello del mare, la popolazione vive quotidianamente il senso dell’innalzamento degli oceani e l’aumento dei fenomeni climatici estremi. Quando non sono oggetto di attacchi da parte delle autorità, gli abitanti devono infatti difendersi dalle periodiche alluvioni che investono la zona. Nel 2016, a seguito di una di queste tempeste è affondata anche la Makoko Floating School, un edificio galleggiante costruito dall’architetto nigeriano Kunlé Adeyemi e divenuto per qualche tempo simbolo dell’adattamento al cambiamento climatico nei Paesi a basso reddito.

Nella morsa dell’“oro nero”

Makoko è il simbolo della crisi non solo perché mostra come i cambiamenti climatici colpiscano in modo sproporzionato i più poveri, ma anche perché si colloca al centro della principale città della Nigeria, prima economia africana per dimensioni, grazie all’esportazione del petrolio. La regione del Delta del fiume Niger, da cui proviene il petrolio nigeriano, da oltre cinquant’anni è devastata dal punto di vista sociale e ambientale dall’attività estrattiva di un gruppo ristretto di imprese che alimentano le economie di alcuni Paesi nordamericani ed europei, tra cui l’Italia.

La Nigeria, tuttavia, è solo l’esempio più clamoroso. Più in generale, infatti, è l’Africa nel suo complesso a rappresentare in modo emblematico la crisi socio-ambientale globale: da una parte, anche a causa delle difficoltà economiche, è il continente in cui si sentono maggiormente gli effetti del cambiamento climatico; dall’altra, nelle miniere e nei campi petroliferi africani vediamo all’opera un sistema produttivo fondato su combustibili che vengono estratti lontano dai luoghi dove vengono consumati.

Il continente africano produce circa il doppio del petrolio che consuma (oltre 8 milioni di barili estratti al giorno a fronte di circa 4 milioni consumati): il combustibile estratto viene infatti esportato verso le economie cosiddette avanzate, rendendo così possibile il loro sviluppo. A livello mondiale i principali esportatori di petrolio rimangono gli Stati del Golfo Persico, ma ormai da diversi anni alcuni Paesi africani occupano una posizione di primo piano in questo settore. Angola e Nigeria guidano questa particolare classifica: la prima è profondamente legata alle importazioni cinesi, la seconda è patria da decenni delle multinazionali occidentali.

foto Matteo de Mayda mani tese 2019
© Matteo de Mayda

 

Ambiente e mercato

La crisi socio-ambientale è globale, dunque, non tanto perché, come talvolta si dice, “siamo tutti sulla stessa barca”, quanto piuttosto perché l’economia che la determina è costruita su scala internazionale e gli effetti sono delocalizzati rispetto alle cause. Osserviamo il Mozambico: nonostante il Paese abbia un consumo trascurabile di carbone, circa un millesimo di quello italiano, qui vengono estratte ogni anno circa 6 milioni di tonnellate di questo combustibile. Il Mozambico è infatti il secondo produttore di carbone in Africa, dopo il Sudafrica, e le sue miniere, sfruttate da imprese brasiliane (Vale) e indiane (International Coal Ventures Limited) alimentano la produzione di energia dell’India, secondo consumatore mondiale di carbone dopo la Cina (e appena prima degli Stati Uniti, terzo stato per consumi). Tra i combustibili fossili più utilizzati, il carbone è quello che produce più gas climalteranti per unità di energia prodotta e, dopo alcuni anni di calo, nel 2017 i suoi consumi sono tornati a crescere a livello globale. Gli effetti dei cambiamenti climatici sono già visibili in Mozambico: nel marzo scorso la costa orientale del Paese è stata colpita da un ciclone di intensità anomala che ha provocato circa 900 vittime.

Gli esempi della Nigeria e del Mozambico mostrano due aspetti fondamentali della crisi. Il primo è che il sistema produttivo fondato sui combustibili fossili produce danni sociali e ambientali lungo tutta la sua filiera e non solo in termini di cambiamento climatico. Analizzare la crisi socio-ambientale isolando la questione climatica, significa osservare l’ultimo anello di una catena di sfruttamento delle persone e dell’ambiente che è alla base del sistema produttivo globale. Il secondo punto da sottolineare è che l’attuale sistema economico fa sì che sfruttamento e danni socio-ambientali si localizzino in modo sproporzionato nei Paesi più poveri e che, al contrario, i profitti rimangano concentrati nelle mani di poche imprese multinazionali.

Africa, un osservatorio sulla crisi

In questo senso il cambiamento climatico non è “il” problema, ma una delle forme con le quali si manifesta la crisi contemporanea. Se non capiamo questo passaggio, rischiamo di proporre una retorica del destino comune, della terra come “navicella spaziale” che non corrisponde alla realtà: il cambiamento climatico in atto sta già producendo danni per alcuni ed è già motore di nuova accumulazione di capitale per altri.

A pochi chilometri da Makoko, sulla costa atlantica di Lagos, sta prendendo forma su una penisola artificiale di 1000 ettari un nuovo quartiere di lusso che ospiterà l’élite nigeriana e le sedi delle principali imprese internazionali. L’iniziativa nasce per creare una barriera contro le ricorrenti inondazioni che colpiscono la costa meridionale della città e vede coinvolti investitori locali (gruppo Chagoury), imprese europee di bonifica (l’olandese Royal HaskoningDHV), aziende cinesi di costruzioni (China Communications Construction Group), oltre a fondazioni filantropiche internazionali (Clinton Foundation).

L’Africa è un punto di vista privilegiato per osservare la crisi contemporanea perché è la frontiera dell’attuale sistema economico, il luogo dove si manifestano in forma estrema le conseguenze dello sfruttamento delle persone e dell’ambiente, ma anche il terreno in cui si sperimentano modalità innovative per trarre profitto dalla crisi. Da questa posizione occorre dunque guardare il problema per capirne la complessità e produrre modelli di società alternativi.

 

Tab 1- Carbone produzione e consumo    

                                                                                                                                                                                             

 

Articolo pubblicato sul numero di Giugno 2019 del Giornale di Mani Tese.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

NUOVI SCHIAVI PER UCCIDERE IL PIANETA

Sono 35 milioni le persone nel mondo costrette al lavoro forzato, spesso impiegate in attività che minano gli ecosistemi naturali come l’abbattimento illegale delle foreste. Dunque, combattere le schiavitù moderne significa anche fermare l’ecocidio della terra.

di ELIAS GEROVASI, Responsabile Progettazione e Innovazione di Mani Tese.

 

SONO 35 MILIONI LE PERSONE NEL MONDO COSTRETTE AL “LAVORO FORZATO”, SPESSO IMPIEGATE PROPRIO IN ATTIVITÀ’ CHE MINANO GLI ECOSISTEMI NATURALI COME L’ABBATTIMENTO ILLEGALE DI FORESTE. COMBATTERE LE MODERNE SCHIAVITÙ’ SIGNIFICA ANCHE FERMATE L’”ECOCIDIO” DELLA TERRA.

Dagli allevamenti di gamberetti nel Golfo del Bengala alle miniere d’oro abusive in Ghana, dai giacimenti congolesi di tantalio (il metallo che dà vita ai nostri smartphone) alle foreste amazzoniche, fino al granito scavato illegalmente in India (importato per le lapidi a buon mercato nei cimiteri europei), affiora sempre lo stesso legame nascosto: schiavitù moderne e distruzione dell’ambiente sono facce della stessa medaglia, sfregi allo stesso pianeta.

L’ecocidio dei lavoratori forzati

Alcuni lo chiamano “ecocidio”, la distruzione massiva dell’ambiente naturale (la deforestazione è il fenomeno più conosciuto di questo processo), attuato in buona parte ricorrendo all’economia del lavoro forzato. Basti pensare che il 40 % della de- forestazione globale è basata sul lavoro di schiavi, un fenomeno che da solo è responsabile di almeno 2,5 milioni di tonnellate di CO2 all’anno. Se fosse un Paese, l’attuale sistema schiavista globale conterebbe all’incirca lo stesso numero di abitanti del Canada, 35 milioni di persone, e sarebbe il terzo produttore mondiale di anidride carbonica dopo Cina e Stati Uniti. A mettere in stretta relazione le schiavitù moderne e il degrado ambientale con questi numeri è Kevin Bales, cofondatore del gruppo di Advocacy Free the Slaves e autore di diversi saggi sull’argomento. Scavando profondamente su questo legame Bales ha scoperto un circolo vizioso guidato dai nostri modelli di consumo e supportato da trattati inter- nazionali e regolamenti ambientali non proprio ispirati alla sostenibilità.

Modelli di consumo insostenibili

Tutti sappiamo ormai quanto i comportamenti umani siano responsabili del cambiamento climatico, dai trasporti (automobili, autobus, aerei) all’alimentazione (agricoltura, allevamenti industriali), tutte attività che consumano combustibili fossili e aumentano i livelli di CO2 nell’aria. Tutto ciò che possiamo fare per ridurre queste emissioni è benvenuto, ma ciò che spesso non riusciamo a percepire è che i trasporti (per esempio) rappresentano solo il 14% delle emissioni di CO2, mentre altre fonti non solo incidono di più, ma sono anche potenzialmente più facili da ridurre. L’esempio più rilevante è proprio quello della deforestazione, che contribuisce al 17% di tutte le emissioni di CO2 ed è strettamente legata ai fenomeni di sfruttamento del lavoro e lavoro forzato. Negli ultimi 20 anni, nonostante la quantità di terra e foreste accantonate come riserve e spazi protetti sia notevolmente aumentata, nei Paesi del sud globale il disboscamento legale è diminuito a scapito di un aumento drammatico del taglio illegale. In parole povere, il vuoto creato dai recenti trattati ambientali ha lasciato spazio libero all’azione di organizzazioni criminali che operano nel settore dello sfruttamento illegale delle risorse naturali; la vendita del legname di contrabbando rappresenta uno dei prodotti di punta di questi traffici, seguita da altri lucrosi prodotti basati sempre sul lavoro schiavo come oro, minerali per l’industria elettronica, gamberetti o pesce.

Tramite la catena di approvvigionamento dei nostri acquisti di telefoni, computer, gioielli e cibo (sia per i nostri animali domestici che per noi stessi), i criminali che sfruttano schiavi traggono grandi profitti strappando le foreste dalla terra e accelerando di conseguenza il cambia- mento climatico.

Da qui la proposta alternativa dello stesso Bales nelle pagine del suo ultimo libro “Blood and Earth” dove invita i lettori a salvare il pianeta non solo attraverso pratiche green e riduzione delle emissioni ma liberando gli schiavi del mondo e combattendo con tutti i metodi possibili le economie dello sfruttamento.

 

Articolo pubblicato sul numero di Giugno 2019 del Giornale di Mani Tese.

 

LA LOTTA DEL MOZAMBICO CONTRO I CAMBIAMENTI CLIMATICI

Mani Tese opera nel Paese con tre progetti indirizzati alle comunità rurali per aumentare la consapevolezza sui temi ambientali e favorire modelli di agricoltura resiliente.

di EMMA TARGA e FEDERICO SACCHINI, Mani Tese

 

MANI TESE NEL PAESE CON TRE PROGETTI INDIRIZZATI ALLE COMUNITÀ’ RURALI PER AUMENTARE LA CONSAPEVOLEZZA SUI TEMI AMBIENTALI E FAVORIRE MODELLI DI AGRICOLTURA RESILIENTE.

Negli ultimi mesi il Mozambico ha ottenuto una certa visibilità mediatica per via dei danni provocati da due cicloni, l’Idai e il Kenneth, che si sono abbattuti sul Paese e sugli stati limitrofi a distanza di un mese l’uno dall’altro, causando distruzione e morte. Questi fenomeni, sempre più frequenti e diffusi, non rappresentano altro che una delle conseguenze dei cambiamenti climatici di cui il Mozambico, come tutto il continente africano, è una delle maggiori “vittime”. Eppure l’Africa produce solo il 4% del totale delle emissioni di gas serra, principale causa degli effetti clima alteranti del Pianeta, e il Mozambico si posiziona al 104esimo posto su scala mondiale nella classifica delle emissioni per Paese.

Da anni, inoltre, il Mozambico è colpito dal fenomeno della deforestazione. Stando ai dati raccolti dalla Global Forest Watch, lo stato africano nel periodo tra il 2001 e il 2017 avrebbe perso circa il 10% della sua area forestale. Nonostante gli sforzi del governo, il Paese perde ogni anno lo 0,35% del suo suolo forestale (percentuale che arriva allo 0,62% nella provincia della Zambezia), una minaccia per l’ecosistema, per la biodiversità e per gli abitanti delle zone rurali, che proprio dalle attività agro forestali traggono la loro principale fonte di sussistenza, con la conseguenza di una maggiore insicurezza alimentare nelle aree rurali.

 

ozambico cambiamenti climatici mani tese 2019 (2)

 

Costruire consapevolezza

Di questa situazione sono testimoni le comunità locali che ne subiscono le conseguenze, ma che non sempre hanno gli strumenti per capire fino in fondo che cosa stia loro succedendo. Nel febbraio scorso, la società cooperativa ELIANTE, partner del progetto FORESTE, che Mani Tese sta realizzando nel Distretto di Mocubela, ha raccolto alcune interviste per comprendere la percezione delle comunità rispetto ai cambiamenti climatici. Tra le persone incontrate, Americo Sualé della comunità di Gurai e Jeronimo Vidigare della comunità di Maneia hanno espresso pareri preoccupati sui cambiamenti del clima, ma hanno attribuito una motivazione “divina” a quello che sta succedendo nella speranza che tutto, prima o poi, torni come prima. Anche altri contadini intervistati concordano nel riconoscere con preoccupazione lo slittamento, ormai di un paio di mesi, del periodo delle piogge che spesso si manifestano con forte intensità, che non genera un beneficio per le colture o per i fiumi e laghi ma devasta il paesaggio con il suo forte impatto distruttivo. Ne è un esempio il passaggio dei due cicloni a poche settimane di distanza, fenomeni che in precedenza si realizzavano a distanza di 4-5 anni. Un tempo, inoltre, i periodi di siccità venivano smorzati dalle piccole piogge, mentre negli ultimi anni si è assistito a lunghi periodi con forti venti secchi che spingono lontano le nuvole.

 

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Mani Tese in Mozambico: progetti di resilienza

L’impegno della ONG nel Paese ha oggi tra le sue priorità la mitigazione degli effetti dei cambiamenti climatici. Gli interventi realizzati forniscono alle popolazioni che ne sono vittime gli strumenti adeguati, da un lato a comprendere le cause di quello che sta succedendo, dall’altro, a rafforzare e aumentare la resilienza comunitaria rurale, che altro non è che l’abilità degli agricoltori di continuare a svolgere le proprie attività in un contesto caratterizzato da rischi e incertezze sempre maggiori. Mani Tese opera in particolare nella provincia della Zambezia, situata al centro del lungo e stretto Paese. Si tratta di una delle zone più povere, dove circa il 70% della popolazione vive sotto la soglia di povertà e la principale fonte di reddito deriva dal settore agro forestale.

Sono tre i progetti in corso, due dei quali avviati rispettivamente nel 2017 e nel 2018, mentre il terzo è iniziato nel mese di marzo 2019, proprio per rispondere alla situazione di emergenza causata dall’avvento del ciclone Idai.

Il progetto FORESTE, cofinanziato dall’Agenzia Italiana per la Cooperazione allo Sviluppo (AICS) e di cui capofila è l’Ong ICEI, iniziato nel marzo 2017, ha come obiettivo principale quello di contribuire all’implementazione di strategie di mitigazione e adattamento ai cambiamenti climatici, migliorando la resilienza delle comunità rurali e riducendo la pressione antropica sulle risorse naturali del distretto di Mocubela. Le attività di cui è responsabile Mani Tese, realizzate in collaborazione con la controparte locale UPCZ (Unione dei Contadini della Provincia del- la Zambezia), mirano a dar vita a un sistema agro forestale che vada a contrastare gli effetti del cambiamento climatico e, al contempo, limiti le conseguenze legate alla deforestazione. L’attività agro-silvo-pastorale è svolta seguendo pratiche eco sostenibili in grado di rigenerale un suolo ormai impoverito grazie all’introduzione di tecniche di conservazione dell’ecosistema. Inoltre il progetto prevede la realizzazione di 20 campi agro forestali, 20 pozzi, 10 allevamenti comunitari e 10 silos per la conservazione di derrate alimentari e sementi. Al contempo è implementata una componente di sensibilizzazione sulle sfide ambientali del territorio che coinvolge autorità locali, associazioni e comunità locali.

Con il progetto QUELIMANE AGRICOLA, anch’esso cofinanziato dall’Agenzia Italiana per la Cooperazione allo Sviluppo (AICS), Mani Tese ha, invece, costituito un importante partenariato che vede coinvolti l’Ong ICEI, l’Università degli Studi di Firenze, il Municipio di Quelimane, il Comune di Milano, il Comune di Reggio nell’Emilia, la Fondazione E35, Gnucoop soc. coop. – IT for non profit e infine la controparte locale UPCZ. L’intervento ha come obiettivo principale il miglioramento sia qualitativo che quantitativo della produzione agricola grazie all’introduzione di tecniche agro ecologiche sostenibili. Promuove inoltre la costituzione di un sistema di conservazione e stoccaggio del raccolto al fine di migliorarne la successiva commercializzazione preservandone le qualità alimentari. Il progetto punta a ridurre le perdite di prodotto agricolo nella fase di post raccolto, in una zona dove incidono per un valore del 30-50% sulla produzione totale. Infine, è prevista la realizzazione di una piattaforma open source in grado di forni re ai contadini informazioni sul meteo, ma anche sui prezzi dei prodotti, l’andamento dei mercati e la presenza di fiere. Il progetto ha visto il suo avvio nel mese di luglio 2018; nel mese di marzo, tuttavia, a causa del ciclone Idai le popolazioni beneficiarie hanno subito grossi danni alle loro coltivazioni.

Si è deciso dunque di intervenire con un progetto di emergenza, RIPARTIAMO SEMINANDO, volto a recuperare almeno parte del raccolto previsto. Dal mese di aprile Mani Tese ha distribuito grandi quantità di sementi per sopperire alle perdite dei contadini e scongiurare almeno in parte la crisi alimentare che scaturirà nei prossimi mesi.

 

Articolo pubblicato sul numero di Giugno 2019 del Giornale di Mani Tese.

LA SFIDA DA NON PERDERE

Negli ultimi dieci anni, sono state due le crisi globali che hanno segnato la vita della comunità internazionale: la crisi finanziaria dei mutui sub-prime e la crisi climatica, che ha scalato la classifica dei trend topics dal 2015 a oggi.

di GIOSUÈ DE SALVO, Responsabile Advocacy, Educazione e Campagne di Mani Tese. 

DIETRO LA FACCIATA DEL MARKETING DELLA SOSTENIBILITÀ, LE IMPRESE CONTINUANO A ERODERE RISORSE E DIRITTI. IMPEGNARSI PER L’AMBIENTE SIGNIFICA LAVORARE OGNI GIORNO PER UN NUOVO SISTEMA ECONOMICO AL SERVIZIO DI TUTTI E NON DI POCHI. 

Negli ultimi dieci anni, guerre a parte, sono state due le crisi globali che hanno segnato la vita della comunità internazionale: la crisi finanziaria dei mutui sub-prime, che ha avuto il suo apice tra il 2008 e il 2014, e la crisi climatica, che ha scalato la classifica dei trend topics dal 2015 ad oggi. Nel primo caso, l’impegno solenne era quello di chiudere una volta per tutte il casinò finanziario e di ridurne l’influenza sull’economia reale e la società. Non solo non è stato fatto, ma ci troviamo oggi in una situazione probabilmente peggiore. La stessa finanza è riuscita, da una parte, a ribaltare l’immaginario collettivo, addossando la responsabilità della crisi sugli Stati e i loro debiti pubblici, dall’altra, a rivitalizzare il mito della crescita senza fine. Nel secondo caso, ci sono voluti almeno quindici anni per riconoscere – trumpisti, terrapiattisti e lobbysti petroliferi a parte – che viviamo nell’antropocene ovvero in un’era geologica in cui l’ambiente terrestre viene fortemente condizionato dall’azione umana. Nonostante ciò, le promesse di riduzione delle emissioni di anidride carbonica da parte dei 196 Stati delle Nazioni Unite, e fra loro quelle di Stati Uniti, Unione Europea, Russia e Cina, sono tuttora insufficienti a scongiurare l’innesto di un’apocalisse climatica che potrebbe rendere impossibile la vita umana su larga parte del pianeta. In entrambi i casi quello che guida alla NON scelta da parte degli Stati e delle istituzioni sovranazionali appare essere l’incapacità di rinunciare all’attuale stile di vita e di immaginarne uno nuovo, che si basi su modelli di produzione di beni e servizi realizzati per soddisfare bisogni reali (e non indotti) e per consentire la rigenerazione delle risorse naturali rinnovabili.

A fronte di questa inerzia, dietro la facciata populista del marketing della sostenibilità, si assiste invece a una rincorsa selvaggia a scavare il fondo del barile, non solo del petrolio residuo, ma di tutte le risorse naturali e di tutti i diritti sociali che siano in qualche modo monetizzabili: foreste, laghi, fiumi, mari e terre fertili, ma anche diritto alla salute, all’istruzione, all’abitare, alla previdenza e alla sicurezza sociale. Saskia Sassen, docente della Columbia University di New York e sociologa di fama internazionale, lo chiama capitalismo estrattivo. Una tendenza sotterranea che riguarda processi apparentemente diversi quali l’impoverimento della classe media nei paesi ricchi, lo sfratto di milioni di piccoli agricoltori nei paesi poveri e le pratiche industriali distruttive per la biosfera. Il risultato: la fine della logica inclusiva che ha governato l’economia capitalistica a partire dal secondo dopoguerra e l’affermazione di una nuova, pericolosa dinamica. Quella delle “espulsioni”. Espulsioni dai centri storici dei cittadini, espulsioni dalle campagne dei contadini, espulsioni dalle terre ancestrali dei popoli indigeni. Papa Francesco le chiama “vite di scarto” e con la sua enciclica “Laudato Si” afferma forte e chiaro che “un vero approccio ecologico diventa sempre un approccio sociale, che deve integrare la giustizia nelle discussioni sull’ambiente, per ascoltare tanto il grido della terra quanto il grido dei poveri”.

foto Matteo Masi mani tese 2019
© Matteo Masi

 

Dare voce ai diritti 

 

Giustizia ambientale e giustizia sociale sono quindi due facce della stessa medaglia. Una medaglia di volontà e di impegno che come Mani Tese ci siamo appuntati sul petto da tempo. Da quando ci è parso evidente che, in Africa come in Italia, avere accesso a un ambiente sano e poter incidere sulle decisioni che riguardano lo sfruttamento delle ricchezze naturali che lo compongono, siano precondizioni fondamentali all’esercizio dei nostri diritti. Ce lo hanno insegnato gli Ogiek in Kenya, con la loro lotta per tornare ad abitare la Foresta di Mau, dopo essere stati cacciati dall’avanzata delle monocolture di tè, delle piantagioni di pini ad uso commerciale e della deforestazione illegale. Ce lo hanno insegnato i movimenti ambientalisti e indigeni dell’Ecuador che si battono contro l’estrazione di petrolio nel Parco dello Yasuni, cuore della Foresta Amazzonica, affinché Chevron-Texaco paghi 8 miliardi di dollari di compensazione per l’ecocidio perpetrato a Lago Agrio e che si oppongono all’apertura di una miniera d’oro, canadese, al centro del Paramo di Kimsakocha, fonte di acqua limpida dell’Azuay. Ce lo insegnano le associazioni e i comitati tarantini che chiedono con caparbietà, preparazione e compostezza la chiusura dell’Ex-ILVA, ora Arcelor Mittal, e la bonifica e la riconversione di una terra che è diventata nel tempo un vero e proprio caso di razzismo ambientale, nel momento in cui si è chiesto ai suoi cittadini di scegliere tra due diritti, salute e lavoro, che, da un punto di vista costituzionale, sono inscindibili.

La transizione necessaria 

 

Anche in questi casi manca la capacità di immaginare un futuro diverso e di pianificare la transizione necessaria. Una transizione che per essere efficace dovrebbe coinvolgere governi centrali, enti locali, istituzioni internazionali, università, imprese e società civile, e avere come meta finale quella di edificare una nuova “casa comune”, che abbia come pavimento i diritti umani, tutti, e come soffitto i limiti del pianeta non valicabili (cambiamento climatico, acidificazione degli oceani, perdita di biodiversità, utilizzo dall’acqua dolce, cambiamenti nell’utilizzo del suolo, ecc). Tra le mura di questa casa, l’attività economica potrebbe svilupparsi in modo equo e inclusivo e consentire di raggiungere, entro il 2030, i famosi Obiettivi di Sviluppo Sostenibile. Mancano solo undici anni e, se ci pensate, questo implicherebbe che, entro solo undici anni (più o meno il tempo entro il quale i nostri figli completano il ciclo di istruzione obbligatoria): l’Ex-ILVA non solo sia chiusa ma che la bonifica e la riconversione siano a pieno regime; che l’estrazione degli idrocarburi e degli altri minerali ad uso industriale, in Ecuador e in tutto il mondo, non solo sia vietata ma anche sostituita da energie e materie prime rinnovabili; che gli Ogiek, e tutti i popoli indigeni che lo desiderano, siano reinsediati nelle loro terre ancestrali; che la finanza e la tecnologia, da leve del capitalismo estrattivo, siano riportate al servizio dell’economia reale, della pace e della democrazia attraverso una serie di regole che ristabiliscano il primato della politica sugli interessi privati di pochi.

 È una corsa contro il tempo che fa tremare i polsi, soprattutto se consideriamo il panorama attuale come punto di partenza. Ma è una sfida ineludibile in cui ognuno di noi può e deve fare la sua parte sia come cittadino responsabile che come attivista. A partire da…ora!

 

Articolo pubblicato sul numero di Giugno 2019 del Giornale di Mani Tese.

24 maggio: in piazza per la giustizia ambientale con Mani Tese!

Mani Tese dedica un numero del giornale ai cambiamenti climatici con un poster da stampare per manifestare durante il secondo sciopero globale per il clima.

ECOCIDIO” è il titolo del nuovo numero del giornale di Mani Tese (scaricabile gratuitamente dal sito Manitese.it) che l’Ong quest’anno ha deciso di dedicare alla crisi climatica e alla sfida per la giustizia ambientale.

Giustizia ambientale e giustizia sociale sono due facce della stessa medaglia – dichiara Giosuè De Salvo, Responsabile Advocacy, Educazione e Campagne di Mani TeseUna medaglia di volontà e di impegno che come Mani Tese ci siamo appuntati sul petto da tempo. Da quando ci è parso evidente che, in Africa come in Italia, avere accesso a un ambiente sano è una precondizione essenziale all’esercizio dei nostri diritti fondamentali”.

“Ce lo hanno insegnato gli Ogiek, una delle più antiche tribù indigene del Kenya, con la loro lotta per tornare ad abitare la Foresta di Mau – continua De Salvodopo essere stati cacciati dall’avanzata delle monocolture di tè e dalla deforestazione illegale. Ce lo hanno insegnato i movimenti ambientalisti e indigeni dell’Ecuador che si battono contro l’estrazione di petrolio nel Parco dello Yasuni, cuore della Foresta Amazzonica, e affinché Chevron-Texaco paghi 8 miliardi di dollari per l’ecocidio perpetrato al confine con la Colombia. Ce lo insegnano le associazioni e i comitati tarantini che chiedono la chiusura dell’Ex-ILVA, ora Arcelor Mittal, e la bonifica e la riconversione di una terra che è diventata un vero e proprio caso di razzismo ambientale, nel momento in cui si è chiesto ai suoi cittadini di scegliere tra due diritti, salute e lavoro, che sono costituzionalmente inscindibili”.

 

LA TRANSIZIONE NECESSARIA

Secondo Mani Tese per affrontare la crisi climatica occorre pianificare una transizione necessaria che, per essere efficace, dovrebbe coinvolgere governi centrali, enti locali, istituzioni internazionali, università, imprese e società civile. Una transizione che deve avere come meta finale quella di edificare una nuova “casa comune”, che abbia come pavimento i diritti umani, tutti, e come soffitto i limiti del pianeta non valicabili. Tra le mura di questa casa, l’attività economica potrebbe svilupparsi in modo equo e inclusivo e consentire di raggiungere, entro il 2030, i famosi Obiettivi di Sviluppo Sostenibile.

“Mancano solo undici anni, è una corsa contro il tempo che fa tremare i polsi – conclude de Salvosoprattutto se consideriamo il panorama attuale come punto di partenza. Ma è una sfida ineludibile in cui ognuno di noi può e deve fare la sua parte sia come cittadino responsabile che come attivista. A partire da ora”.

https://manitese.it/wp-content/uploads/2019/05/poster-rettangolare-mani-tese-2019.jpgIL FUTURO DEL PIANETA NELLE NOSTRE MANI: IL POSTER DI MANI TESE

Il 24 maggio Mani Tese scenderà in piazza per il secondo sciopero mondiale per il clima insieme ai suoi volontari e volontarie e lo farà ritornando alle origini ovvero riportando le “mani” al centro, quelle stesse mani che da più di 55 anni si protendono per la giustizia e che questa volta si metteranno a disposizione per clima e per il pianeta.

Insieme al giornale di Mani Tese, infatti, è possibile scaricare un poster da stampare e usare per manifestare il proprio impegno durante il climate strike. La particolarità del poster è la presenza di due fessure nelle quali infilare le proprie mani che andranno così fisicamente a sorreggere un’immagine della Terra. IL SUO FUTURO È NELLE NOSTRE MANI recita lo slogan.

PER MANIFESTARE CON MANI TESE

L’appuntamento per gli amici e le amiche di Mani Tese che desiderano manifestare insieme il 24 maggio 2019 a Milano è alle 17.30 in Piazza Cairoli, di fronte all’ingresso della Decathlon.

PER SCARICARE GRATUITAMENTE IL GIORNALE E IL POSTER DI MANI TESE

È possibile scaricare il giornale e il poster di Mani Tese in pdf sul sito Manitese.it all’indirizzo https://manitese.it/il-nostro-giornale/.

Alla scoperta del cacao buono… per davvero!

Vi aspettiamo il 22/5 a Firenze e il 23/5 a Milano per la presentazione del dossier sulla filiera del cacao in Ecuador con degustazione di cioccolato etico!

Tra dicembre 2016 e febbraio 2017 il prezzo del cacao battuto nelle principali borse merci internazionali crollò mediamente da 3.000 a 1.900 dollari per tonnellata. In virtù di ciò, le più influenti multinazionali del cioccolato si aggiudicarono per tutto il 2017 forniture di cacao a un prezzo inferiore del 30% rispetto all’anno precedente, risparmiando oltre 4 miliardi di dollari. Di tale risparmio, però, non beneficiarono né i consumatori finali né i circa 5,5 milioni di piccoli produttori che videro i loro già risibili introiti ridursi ulteriormente.

Questo episodio è solo l’ultimo caso di ingiustizia in un mercato caratterizzato da gravi squilibri tra i piccoli produttori e i grandi attori del commercio, dell’industria e della finanza, dominato dalla speculazione finanziaria, che definisce i prezzi secondo criteri poco ragionevoli e trasparenti.

Mani Tese, nell’ambito del progetto Cacao Corretto: Rafforzamento delle filiere del cacao e del caffè per la sovranità alimentare dell’Ecuador, realizzato da Mani Tese e COSPE, in collaborazione con FIAN Ecuador e CEDERENA, e cofinanziato dall’Agenzia Italiana per la Cooperazione allo Sviluppo,  ha realizzato un dossier sull’esperienza ecuadoriana di un modello produttivo e commerciale basato sulla gestione associativa del cacao prodotto attraverso l’empowerment di quattro associazioni di produttori locali che raggruppano oltre duemila famiglie.

Obiettivo del progetto Cacao Corretto – dichiara Claudia Zaninelli, Desk Officer Cooperazione Internazionale di Mani Teseè quello di promuovere e sperimentare processi di agroecologia, economia sociale e pianificazione territoriale partecipativa nell’ambito della filiere dal cacao e del caffè nel nord dell’Ecuador e nella regione centrale costiera. Nel report abbiamo cercato di dimostrare come la promozione di un modello produttivo e commerciale farmer-based consenta di spostare gli equilibri di potere all’interno della supply chain producendo un considerevole aumento della capacità negoziale degli agricoltori e, di conseguenza, una significativa riduzione della loro dipendenza e subalternità rispetto agli intermediari. Si tratta di una valida alternativa al modello attuale di mercato, grazie alla quale i contadini sono finalmente in grado di trattenere un margine di guadagno più alto da usare all’interno delle proprie comunità”.

Il dossier sarà presentato nell’ambito dell’evento ALLA SCOPERTA DEL CACAO BUONO…PER DAVVERO! che si terrà a Firenze il 22 maggio 2019  alle ore 18.00 presso la Sala Pasquini (ex vetrate) in Piazza Madonna Della Neve 6 e a Milano il 23 maggio 2019 alle ore 18.00 presso La Buona Bottega in Piazzale Baracca 6.

L’ingresso è libero e gratuito fino a esaurimento posti. Si consiglia di confermare la propria presenza a eventi@manitese.it

SCARICA IL DOSSIER “CACAO CORRETTO”

Di seguito il programma dei due eventi:

(clicca sulle immagini per scaricare le locandine in PDF)
presentazione report cacao milano Mani Tese 2019