IN BURKINA FASO FACCIAMO RETE CONTRO LA VIOLENZA DI GENERE
Riunite oltre 90 organizzazioni della società civile nelle regioni del centro, centro-sud e plateau central del Burkina Faso.
di Habibou Kabré, coordinatrice di progetto Mani Tese
Come purtroppo accade in molti Paesi africani come la Guinea-Bissau, la violenza di genere è un fenomeno preoccupante anche in Burkina Faso.
Per contribuire alla lotta contro questa piaga Mani Tese, attraverso il progetto “Promozione sociale e dei diritti delle donne e dei bambini per il miglioramento dei servizi sanitari e di stato civile” e in collaborazione con le autorità locali (direzione provinciale per le donne, consigli provinciali della gioventù e autorità municipali), hariunito le organizzazioni della società civile per i diritti umani nelle regioni del centro, centro-sud e plateau central, per una sinergia di azione.
L’obiettivo è il rafforzamento delle capacità dei membri delle organizzazioni femminili e giovanili, per consentire loro di organizzarsi meglio e intervenire efficacemente nella promozione e protezione dei diritti umani in generale e di quelli delle donne e ragazze in particolare.
A tal fine sono state costituite otto reti per la tutela e la promozione dei diritti umani, composte da oltre 90 organizzazioni della società civile dislocate in sette province delle tre regioni di intervento del progetto.
Nell’ambito di questa iniziativa, è stata organizzata una sessione di formazionesul fundraisinge sulle strategie di mobilitazione delle risorse finanziarie al fine di rafforzare l’efficienza e l’efficacia di queste reti nella lotta contro la violenza di genere.
Perché le reti possano lavorare al meglio si è poi lavorato al coinvolgimento delle istituzioni, ovvero i sindaci dei comuni coinvolti, i direttori provinciali incaricati delle donne, i consigli provinciali della gioventù nonché il coordinamento comunale e provinciale delle donne nelle suddette località.
Secondo la direttrice provinciale delle donne dell’Oubritenga, l’iniziativa di Mani Tese è benvenuta perché risponde a un’esigenza sentita nel campo della promozione, difesa e tutela dei diritti umani delle fasce vulnerabili e delle donne in particolare.
Qui di seguito alcune foto degli incontri con le organizzazioni della società civile.
LA RESILIENZA DELLE COMUNITÀ DELLA GUINEA-BISSAU DI FRONTE ALLA CRISI
Nella regione di Cacheu sono stati finanziati dei microprogetti per permettere alle comunità di affrontare la crisi causata dalla pandemia e dalle piogge.
di Sara Gianesini, coordinatrice di progetto in Guinea-Bissau
La pandemia di coronavirus che ha scosso il mondo non ha risparmiato neanche i Paesi più poveri come la Guinea-Bissau e, in seguito alle misure adottate per mitigare la diffusione del virus e l’entrata in vigore dello stato di emergenza, tutti i settori economici sono stati colpiti dalla crisi.
Il settore agricolo, dominato dalla produzione e commercializzazione di anacardi, e quello delle piccole attività economiche generanti reddito per lo più informali, principali pilastri dell’economia locale, sono stati particolarmente colpiti. La caduta dei prezzi, la ridotta possibilità di commercializzare i prodotti agricoli, la chiusura delle frontiere terrestri, il divieto di fiere e mercati settimanali, la restrizione interna alla circolazione di merci e persone sono, tra gli altri, i fattori fondamentali della crisi.
Mani Tese, nell’ambito del progetto “Protezione e soluzioni durevoli per rifugiati e richiedenti asilo in Guinea-Bissau” finanziato da UNHCR, così come ha dovuto fare in altri interventi e hanno fatto le altre organizzazioni della società civile, le istituzioni pubbliche e parastatali, ha dovuto effettuare una revisione dell’agenda di lavoro che ha portato a limitazioni di molte attività che prevedevano formazioni in presenza e al rinvio di quelle iniziative che comportavano l’assembramento delle persone.
Tuttavia, l’organizzazione non è rimasta insensibile alle difficoltà riscontrate nei villaggi che, oltre alla pandemia, hanno subito anche fortipiogge che hanno causato molti danni aggravando una situazione già terribile. Le inondazioni tra luglio e settembre hanno infatti danneggiato molte case e distrutto pozzi, lasciando i residenti delle comunità di Cacheu senza acqua potabile.
Per far fronte a queste difficoltà, è stato avviato un processo di finanziamento di microprogetti comunitari per sviluppare attività sociali ed economiche comunitarie, o di gruppi di individui nei villaggi di intervento, e fare del momento di crisi un’opportunità per tutti.
Tutte le idee di sostegno socio-economico comunitario seguono un rigoroso processo di selezione, i cui principali criteri di valutazione sono la vulnerabilità della comunità, la rilevanza dell’idea rispetto al contesto specifico e la sua sostenibilità.
A settembre è stato avviato il processo di pre-selezione delle idee progettuali raccolte durante l’anno e sei gruppi selezionati a ottobre hanno ricevuto unaformazione in gestione economica comunitaria per raggiungere così l’obiettivo di ridurre al minimo le sofferenze causate dalla pandemia di coronavirus e dalle piogge torrenziali di questa estate.
Tra le idee selezionate, tre riguardano la ricostruzione e riparazione di pozzi e pompe per l’acqua in comunità e due riguardano l’acquisto di macchinari per facilitare la raccolta del riso e la sua trasformazione. I soggetti coinvoli, come sempre dimostrano il loro grande interesse a sostegno di tutti: i progetti selezionati sono infatti a beneficio della comunità intera, perché per loro è quella che conta.
Qui di seguito, alcune foto delle formazioni che prevedevano presenze limitate, distanziamento sociale e l’uso della mascherina.
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IL FENOMENO DEI BAMBINI TALIBÉ E LA TUTELA DEI DIRITTI DELL’INFANZIA IN GUINEA-BISSAU
La nostra cooperante in Guinea-Bissau Giulia ci racconta il fenomeno dei bambini talibé, una delle tante facce dello sfruttamento minorile.
di Giulia Inguaggiato, cooperante in Guinea-Bissau
Talibé, in lingua araba, significa “cercare” mentre il talbo, nella tradizione dei Mandinga di Bidjine, è una persona che si sposta da un luogo a un altro per apprendere il Corano. Nell’Africa Occidentale la parola talibé ha assunto purtroppo un carattere negativo poiché descrive un fenomeno transfrontaliero di sfruttamento che colpisce svariati Paesi africani, tra i quali la Guinea-Bissau dove Mani Tese opera da più di 40 anni.
In questo contesto si definiscono talibé i bambini reclutati in massa da villaggi e città e mandati in Senegal, Gambia e Guinea-Conakry con la scusa di acquisire i precetti coranici. Dinnanzi alla precarietà dell’insegnamento che connota la Guinea-Bissau, e in un contesto di forte povertà delle comunità rurali, molte famiglie lasciano partire i propri figli con la speranza di assicurargli una migliore educazione religiosa all’estero.
Tuttavia, le famiglie sono ignare del vero scopo del viaggio e delle condizioni di vita in cui verseranno i minori una volta partiti. Giunti nel paese di destinazione i bambini, di età compresa tra i 5 e i 15 anni, vengono infatti lasciati a mendicare nelle strade da supposti maestri coranici che pretendono giornalmente una somma di denaro. Mangiano poco e male, molto spesso solo attraverso la carità che ricevono nelle strade, indossano stracci sporchi e logori e dormono sui marciapiedi. Inoltre, quando non riescono a consegnare alla fine della lunga giornata di mendicanza la somma di denaro richiesta, vengono picchiati e abusati.
Nel contesto del traffico dei minori che interessa la subregione dell’Africa Occidentale, la Guinea-Bissau rappresenta un Paese di origine dei flussi, con una predominanza del fenomeno nelle regioni di Gabu e Bafata, connotate dalla forte presenza di comunità musulmane. Alla luce della condizione inumana e degradante che caratterizza i talibé, molti bambini tentano di scappare da questa forma di schiavitù moderna, cercando protezione e sicurezza.
AMIC è infatti parte della RAO, la Rete dell’Africa dell’Ovest, che si occupa della protezione dei minori e dei giovani in mobilità che versano condizione di vulnerabilità, nello spazio della CEDEAO (Comunità economica degli Stati dell’Africa occidentale) e in Mauritania. AMIC coordina il lavoro della Rete in Guinea-Bissau, contribuendo alla protezione dei minori attraverso la loro presa in carico, la reintegrazione individuale nelle comunità di origine e con attività di prevenzione, che mirano a sensibilizzare le famiglie di appartenenza su un fenomeno spesso ignorato e sottovalutato.
Mani Tese, con l’attuale intervento, supporta l’intero processo di tutela dei minori, dalla fase dell’accoglienza, attraverso il miglioramento della struttura ricettiva di Gabu, fino alla completa reintegrazione dei talibé, assicurando sussidio psico-sociale, secondo un approccio olistico che si rivolge contemporaneamente a famiglie e minori, e garantendo il reinserimento scolastico. Tuttavia, consapevoli che tale azione non possa prescindere dal rafforzamento del livello istituzionale, l’intervento mira anche a consolidare il meccanismo di coordinamento nazionale di lotta al traffico, affinché il quadro legislativo possa allinearsi agli standard nazionali, sovranazionali ed internazionali sulla protezione dei minori, rendendo il processo di protezione e reintegrazione più durevole nel tempo.
Qui di seguito alcune foto dal centro di accoglienza di Gabu:
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Un gruppo di minori accolti a Gabu e a Pirada
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Momento ludici presso il centro di accoglienza di Gabu
CAMBIA MODA: CORSO DI FORMAZIONE PER DOCENTI ED EDUCATORI DELLA SCUOLA SECONDARIA DI PRIMO E SECONDO GRADO
Quattro incontri per conoscere il funzionamento del laboratorio Cambia MODA! e co-progettare un percorso innovativo di educazione civica a partire dal tema della moda.
PRESENTAZIONE DEL CORSO
L’emergenza sanitaria degli ultimi mesi, e le relative conseguenze, hanno portato molteplici soggetti, dai singoli cittadini alle istituzioni, a riflettere su come ricominciare una nuova quotidianità.
Anche la Scuola ha reso definitiva la Legge n.92/2019, che prevede l’introduzione dell’insegnamento trasversale dell’educazione civica, mirato a sviluppare conoscenze e competenze di cittadinanza attiva.
Tale provvedimento rappresenta e rappresenterà, per la dimensione scolastica, la sfida di formare i cittadini del XXI secolo in un modello globale in cui tutto è interconnesso e fondato su un sistema di delicati equilibri.
Nuclei tematici legati allo Sviluppo Sostenibile e all’Agenda 2030 diventano quindi centrali, come lo diventa la necessità di applicare un approccio trasversale alle questioni del nostro secolo, in piena linea con gli ambiti di azione che sono propri anche dell’Educazione alla Cittadinanza Globale (ECG).
Strumenti propri dell’ECG, quali cooperative learning e problem-based learning, possono infatti risultare funzionali per guidare i ragazzi e le ragazze nell’apprendimento di competenze di cittadinanza attiva.
Mani Tese propone dunque di utilizzare un tema apparentemente leggero e quotidiano, quello della moda e dei nostri vestiti, proprio per avere a disposizione un percorso trasversale di cittadinanza attiva, incentrato sugli effetti negativi (ambientali e sociali), legati alla filiera tessile a basso costo (fast fashion).
Proponiamo un’immersione nei nostri armadi come esercizio di Cittadinanza Attiva e Globale, che può incontrare anche le attuali esigenze della Didattica a Distanza, grazie al supporto di un portale didattico dedicato.
Docenti ed educatori saranno quindi condotti passo-passo nell’utilizzo del kit didattico Cambia MODA!, nella sua duplice funzionalità (sia in presenza che tramite DAD).
AMBITI DI RIFERIMENTO
Metodologie e attività laboratoriali
Educazione civica, cittadinanza attiva
Esternalità negative del sistema tessile fast fashion
OBIETTIVO
Il corso fornisce metodi e strumenti per lavorare insieme ai ragazzi sia in modalità da remoto che in classe con l’obiettivo di sviluppare le competenze trasversali di cittadinanza globale. I partecipanti saranno guidati nell’utilizzo del portale didattico interattivo Cambia MODA! che costituisce una Unità Didattica Multimediale utilizzabile sia in classe che da remoto.
DESTINATARI
I destinatari del corso sono i docenti ed educatori della Scuola Secondaria di Primo e Secondo Grado. La piattaforma Cambia MODA! è stata progettata per essere utilizzata con ragazzi dai 13 ai 19 anni.
METODOLOGIA
Il corso seguirà passo-passo le fasi previste dall’Unità Didattica Multimediale, utilizzando una metodologia learning by doing:
L’ingaggio: come agganciare l’interesse del gruppo classe e stabilire spazi, tempi e regole per il lavoro;
La scoperta: come aiutare i ragazzi a riflettere sulle caratteristiche dell’attuale modello produttivo del settore tessile e come ci relazioniamo ad esso;
La decostruzione: come lavorare sulla comprensione di una filiera tessile-tipo, ripercorrerne le fasi principali insieme agli studenti e individuarne le criticità (violazione dei diritti umani e altissimi impatti ambientali lungo tutta la filiera);
Guardare al futuro e alle proprie potenzialità: come promuovere un cambio nelle abitudini di consumo e “la capacità di agire da cittadini responsabili e di partecipare pienamente e consapevolmente alla vita civica, culturale e sociale della comunità” (articolo 1, comma 1 della Legge 92), in un’ottica di cambiamento fiduciosa verso il futuro, scongiurando un approccio apocalittico ai problemi del nostro tempo.
PROGRAMMA E DURATA
Il corso è suddiviso in 4 moduli, ognuno della durata di circa due ore, svolti tramite meeting online.
26/11/2020 ore 15.30-17.30: modulo 1, introduzione all’ECG, alle sue metodologie e agli obiettivi dell’educazione civica;
30/11/2020 e 03/12/2020 ore 15.30-17.30: moduli 2 e 3, il nostro percorso didattico Cambia MODA!;
Alla fine del corso, i partecipanti avranno imparato a:
Conoscere e utilizzare il portale interattivo e le attività ad esso collegate.
Usare il tema della moda (e i suoi impatti sociali, ambientali) per fare educazione civica, in particolare per educare alla cittadinanza sostenibile e all’Agenda 2030.
Costruire e proporre percorsi e unità didattiche di educazione alla cittadinanza globale in classe (online e in presenza).
Il film documentario di Mani Tese sull’impatto sociale e ambientale dell’industria siderurgica raccontato con gli occhi di chi non si arrende.
Tre persone, tre vite diverse, tre luoghi distanti. Tutti legati da un unico filo conduttore: l’acciaio. Simbolo dell’industria estrattiva e siderurgica mondiale, l’acciaio fa da ingombrante sfondo al nuovo, intenso, lungometraggio commissionato da Mani Tese alla regista Chiara Sambuchi.
“PIÙ FORTI DELL’ACCIAIO” è un vero e proprio viaggio emotivo sulle conseguenze sociali e ambientali di una delle filiere produttive più controverse, che inizia dalla più grande miniera a cielo aperto del mondo nello stato amazzonico del Parà, in Brasile, prosegue fino all’impianto siderurgico di Taranto e termina a Duisburg, nell’ ex bacino della Ruhr, in Germania.
Mani Tese prosegue il suo impegno per la promozione di una cultura di impresa che sia capace di coniugare la redditività con il rispetto dei diritti umani e dei cicli naturali attraverso la proposta di un documentario profondo, a tratti commovente, che vuole ‘volare alto’ rispetto alla cronaca di questi giorni e innescare un dibattito pubblico sulla transizione industriale richiesta dalle sfide del cambiamento climatico e degli altri obiettivi di sviluppo sostenibile delle Nazioni Unite, lanciati nel 2015 con orizzonte al 2030.
Attraverso l’osservazione intima del quotidiano dei tre protagonisti, in tre luoghi simbolo dell’industria estrattiva e della produzione siderurgica, “PIÙ FORTI DELL’ACCIAIO” descrive l’impatto della filiera dell’acciaio attuale sui delicati equilibri naturali e sulla salute di chi vive a ridosso dei siti produttivi.
C’è Pixininga,agricoltore brasiliano che lotta per la sopravvivenza dei contadini nella regione del Carajas, ricchissima di ferro ed altri minerali e occupata, per più della metà della sua superficie, dal gigante dell’estrazione mineraria Vale. Egbert, che nella cittadina tedesca di Duisburg, nel cuore del bacino della Ruhr, lavora strenuamente alla conversione di un enorme stabilimento siderurgico, sanato dopo la sua chiusura, in unparco naturale: qui oggi tra gli altiforni ormai spenti si va in bicicletta, al cinema all’aperto e accanto ai vecchi nastri trasportatori si ammirano mostre d’arte contemporanea. E c’è Grazia, pediatra tarantina, che ha un chiodo fisso: la chiusura dell’acciaieria della sua città, per non dover più spiegare ai suoi piccoli pazienti perché i bimbi, e i loro genitori, a Taranto muoiono prima degli altri.
Il film documentario narra non solo il quotidiano ma anche lo sforzo personale che ognuno dei tre protagonisti compie contro uno sfruttamento delle risorse votato al sovra consumo senza fine. Tra lotte per mantenere il possesso delle terre e la vita scandita tra colazioni a base di latte appena munto e raccolta delle banane, Pixininga conduce lo spettatore in un viaggio tanto affascinante quanto tragico nel cuore della foresta amazzonica violata, fino all’immensa miniera di Serra Norte, la più grande a cielo aperto del mondo. In perenne movimento tra le strade del rione Tamburi, il quartiere accanto all’acciaieria tarantina in cui vivono molti dei suoi piccoli assistiti, Grazia incarna la lotta ventennale delle associazioni e dei comitati cittadini contro l’inquinamento causato dalle emissioni di diossina delle ciminiere e dalla perenne esposizione alle polveri di ferro che ricoprono strade e palazzi della città pugliese. Egbert, custode del recupero di una delle regioni storicamente più inquinate di Europa, suggerisce allo spettatore come agire individualmente, in maniera semplice ma coerente ed efficace, per resistere al richiamo di un modello di consumo ormai non più sostenibile, irrispettoso dei cicli naturali e dei diritti fondamentali delle persone e delle loro comunità.
Carajàs, caricamento minerale di ferro a Parauapebas
Carajàs, Pixininga a casa di Chico du Campo
Carajàs, officine meccaniche di Serra Norte
Carajàs, le rotaie che portano sull’Oceano Atlantico
Taranto, viale del Tramonto
Taranto, molo di via Garibaldi
Taranto, vista dal Ponte Girevole
Taranto, Corso Due Mari
NOTE DI REGIA di Chiara Sambuchi
“L’idea di un film documentario nasce per me sempre da un incontro, da una storia personale, prima ascoltata ed osservata, quindi narrata in maniera intima, restando sempre più vicina possibile al protagonista, partecipando a cuore aperto alle sue preoccupazioni, ai suoi sogni ed alle sue speranze, guardando insomma il mondo con i suoi occhi.
La sfida più grande di “PIÙ FORTI DELL’ACCIAIO” è stata per me quella di trovare un linguaggio filmico ed una narrazione capaci di coniugare tre storie personali, con il racconto globale della filiera dell’acciaio e delle sue distorsioni. Descrivere dunque da un lato lo sfruttamento sconsiderato e violento delle risorse e l’indifferenza bieca al dolore altrui, in nome del profitto. Ma anche coniugarlo con il più umano dei racconti, la vita vera di tre persone accomunate da una casualità: vivere in luoghi chiave per gli interessi di grandi gruppi siderurgici mondiali.
Ne è nato un racconto lontano dalla cronaca dei fatti, dai numeri e dalle statistiche, in cui è lo sguardo di Grazia, Egbert e Pixilinga il filo rosso che ci guida da un luogo all’altro e attraverso il loro percorso emotivo di rabbia, frustrazione e speranza. Più che spiegarci, i nostri protagonisti ci mostrano, talvolta anche attraverso silenzi e soggettive, la vita nei luoghi della filiera dell’acciaio.
“PIÙ FORTI DELL’ACCIAIO” è un film sulla presa di coscienza, sulla volontà indistruttibile di voler scrivere un nuovo corso per il proprio mondo e sulla lotta a tratti estenuante a cui i nostri tre eroi sono disposti, pur di riuscirci. È la risposta positiva e piena di speranza ad una foresta amazzonica deturpata dalla voragine della miniera di ferro di Serra Norte, una ferita aperta con quel suo color rosso scuro, doloroso da osservare nel fitto verde della foresta pluviale. È la reazione a decenni trascorsi a Taranto respirando diossina e seppellendo madri, padri, amici e sempre più spesso i propri figli, vittime di cancro. O ancora il risveglio dopo decenni di tremendo inquinamento nel bacino della Ruhr, che finalmente si riappropria di sé.
Cruciale nel film sono il ruolo della natura e la contemplazione della sua la bellezza: quando con gli altiforni finalmente spenti la natura si riappropria dei suoi antichi spazi a lungo perduti, ma anche dove le ciminiere la deteriorano, o quando è minacciata della miniera a cielo aperto e dell’industria dell’estrazione. Perché questo è quel che lo sguardo dei nostri protagonisti ci rimanda e ci ricorda anche nei momenti più tragici del loro racconto.
Mi sono chiesta spesso in fase di montaggio se siano i miei protagonisti a contemplare la natura o sia lei ad osservare loro. La verità risiede probabilmente in una continua osservazione reciproca, un gioco perenne di rimandi e fulcro dello sviluppo drammaturgico di “PIÙ FORTI DELL’ACCIAIO”: quella che all’inizio del film è un’intuizione vaga diventa nel corso del documentario una certezza inossidabile. La necessità, per salvare noi ed il pianeta, di cambiare rotta e modificare radicalmente il corso della filiera dell’acciaio. Subito. Senza compromessi. Su scala globale”.
SCHEDA DEL FILM
Genere: film documentario Anno di produzione: 2019 Durata: 60 minuti Regia: Chiara Sambuchi Direzione della fotografia: Paolo Pisacane, Ralf Klingelhöfer Montaggio: Simone Veneroso Casa di produzione: TV Plus, Berlino Progetto: Mani Tese
PIÙ FORTI DELL’ACCIAIO è un documentario prodotto all’interno del progetto “New Business for Good”, realizzato con il contributo di Agenzia Italiana per la Cooperazione allo Sviluppo, e supporta il programma di Mani Tese MADE IN JUSTICE per una cultura dei diritti umani e del rispetto dell’ambiente nelle aziende e nella società.
PROTEGGERE LE DONNE IN GUINEA-BISSAU TRA MILLE DIFFICOLTÀ
Proseguono le attività della rete creata da Mani Tese contro la violenza di genere in un Paese ancora devastato dalla mutilazione genitale femminile e dai matrimoni forzati, dove le donne devono chiedere il permesso per uscire di casa. Il nostro aggiornamento dal campo.
In Guinea-Bissau la violenza sulle donne assume diverse forme ed è una piaga davvero difficile da estirpare.
Lo sanno bene i nostri cooperanti, collaboratori e collaboratrici in loco, che in questi giorni hanno partecipato a una sessione di formazione sul tema, nell’ambito del nostro progetto di contrasto alla violenza di genere “LIBERE DALLA VIOLENZA” finanziato dall’Unione Europea.
La violenza sulle donne in Guinea-Bissau trae origine da una cultura patriarcale molto rigida. Le donne devono chiedere il permesso al marito anche solo per uscire, persino per andare dal medico.
Tante bambine subiscono ancora la terribile pratica della mutilazione genitale. Molte ragazze sono costrette a sposare uomini, spesso ben più anziani di loro, che non hanno scelto.
Le bambine che pure frequentano la scuola non riescono a concentrarsi nello studio perché sanno che, terminate le lezioni, dovranno tornare a casa a cucinare, a lavare i vestiti e a vendere i prodotti al mercato.
Le loro madri non hanno alcun potere: sono sempre i padri o gli zii a decidere del loro destino.
In un contesto simile, in cui la violenza di genere è normalizzata e dove i “conflitti” violenti domestici si risolvono in famiglia, è difficilissimo far rispettare la legge. Se una donna abusata accusa i suoi aggressori, infatti, rischia di essere allontanata e ripudiata dalla comunità.
Nella maggior parte dei casi denunciati di violenza di genere, inoltre, la prassi è che la polizia applichi all’aggressore una detenzione preventiva di due giorni, dopo la quale, l’aggressore potrà tornare in libertà senza sottostare ad alcuna misura di allontanamento. La denuncia inoltre, nella maggior parte dei casi, si risolve tramite mediazione.
Se si parla di violenza psicologica, poi, i cui danni non sono fisicamente visibili, la denuncia è inesistente.
Per tutti questi motivi, nei villaggi le vittime e le loro famiglie sono totalmente disincentivate alla denuncia. Non è migliore la situazione in città, dove gli aggressori denunciati, se benestanti, non vengono puniti o corrompono i funzionari giudiziari.
“I reati come il riciclaggio di denaro e il traffico di droga vengono risolti in maniera rapida e sono puniti secondo la legge, ma quando si tratta di giudicare un crimine contro la persona – in particolare contro donne e bambini – i casi vengono letteralmente messi da parte”. A raccontarcelo è un magistrato, coordinatore di GEIOJ (Gabinetto di Studi e Informazione e orientamento Giuridico), partner locale di Mani Tese.
Da due anni, infatti, Mani Tese per far fronte a questa situazione ha dato vita a una rete di assistenza e accoglienza delle vittime di violenza di genere e di matrimoni forzati e precoci composta da operatori giuridici e psicosociali, agenti di polizia e organizzazioni della società civile. Fanno parte dell’equipe multidisciplinare i tecnici dei centri di accesso alla giustizia, dell’istituto Donna e Infanzia, la polizia, il team di Mani Tese, le organizzazioni locali FEC e AMIC (Associazione Amici dei Bambini).
Negli ultimi due anni, l’equipe ha viaggiato molto nelle quattro regioni d’intervento del progetto supervisionando i casi di violenza, lavorando instancabilmente nel contrasto del fenomeno e mantenendosi aggiornata attraverso delle formazioni specifiche.
Nei giorni scorsi, il 12 e 13 ottobre, l’equipe ha partecipato alla seconda sessione di formazione presso il centro di accoglienza di AMIC per le vittime di violenza di genere e matrimonio forzato e precoce, recentemente riaperto proprio grazie al sostegno di Mani Tese nell’ambito del progetto LIBERE DALLA VIOLENZA.
La formazione ha avuto come focus il confronto fra gli operatori, il miglioramento delle capacità di assistenza dell’equipe, l’aggiornamento sulle nuove normative in ambito della violenza domestica (sconosciuta alla maggior parte degli operatori locali) e le modalità per evitare che le vittime che hanno il coraggio di chiedere aiuto vengano, in seguito alla denuncia, ri-vittimizzate.
Il compito della rete è molto difficile perché oltre a fornire assistenza alle vittime, gli operatori devono fare un immenso sforzo culturale per cambiare la mentalità maschilista delle comunità locali e dei loro stessi colleghi. La pandemia, inoltre, non è stata d’aiuto dal momento che ha arrestato il prezioso lavoro della rete sul territorio.
Gli operatori e le operatrici sanno di avere davanti a sé un lavoro davvero arduo ma non demordono.
Hanno, però, bisogno di sostegno. Dal momento che il bilancio dello Stato non è in grado di garantire alle vittime l’accesso alla giustizia e ai servizi di assistenza, per mantenere vive le attività contro la violenza di genere e per far sì che il centro di accoglienza resti aperto, occorrono finanziamenti che possano sostenere progetti di cooperazione internazionale come quello di Mani Tese.
Anche tu puoi fare la tua parte! Aiutaci a proseguire la difesa delle donne in Guinea-Bissau donando per il progetto LIBERE DALLA VIOLENZA: