LE DIASPORE AFRICANE SONO PONTI PER LA COOPERAZIONE
Intervista di Giovanni Sartor a Abdou Yabre Mani Tese, insieme ad altre organizzazioni che si occupano di cooperazione internazionale, partecipa dal 2014 al programma Fondazioni for Africa Burkina Faso che prevede un intervento di sviluppo rurale nel paese africano e il coinvolgimento di numerose associazioni della diaspora Burkinabè presenti in Italia. In questo modo Mani […]
Intervista di Giovanni Sartor a Abdou Yabre
Mani Tese, insieme ad altre organizzazioni che si occupano di cooperazione internazionale, partecipa dal 2014 al programma Fondazioni for Africa Burkina Faso che prevede un intervento di sviluppo rurale nel paese africano e il coinvolgimento di numerose associazioni della diaspora Burkinabè presenti in Italia. In questo modo Mani Tese ha potuto entrare in contatto con molte di queste realtà, soprattutto a Napoli e Treviso dove ha partecipato e supportato percorsi di formazione e sensibilizzazione con le associazioni, ma non solo. Una di queste realtà è ABREER l’Associazione dei Burkinabè di Reggio Emilia ed Emilia Romagna nata nel 2002 che oggi conta oltre 100 soci e che svolge, tra le altre cose, iniziative in ambito agricolo. Abbiamo intervistato Abdou Yabre, segretario generale dal 2010.
Puoi brevemente raccontarci la tua storia, quando sei arrivato in Italia, i motivi che ti hanno spinto a migrare e cosa hai fatto e fai in Italia?
Ho 27 anni, sono nato e cresciuto nella provincia del Boulgou, regione del centro est, in Burkina Faso. Mio padre tanti anni fa è partito per l’Italia per trovare un lavoro e aiutare la famiglia rimasta a casa. Nel 2008 mi ha proposto di raggiungerlo a Reggio Emilia. In Italia mi sono diplomato come perito elettrotecnico e oggi lavoro come operaio. Sono anche mediatore culturale e linguistico e impegnato in varie associazioni di burkinabè sia in Italia sia all’estero.
Nell’ambito della cooperazione internazionale si parla sempre più del ruolo delle diaspore nello sviluppo del continente africano, cosa ne pensi?
Penso che le diaspore africane in Europa possano svolgere un ruolo molto importante nella cooperazione internazionale, quello del tramite, del ponte e di facilitatore-mediatore. I migranti sono “cooperanti” che conoscono bene le due realtà (il paese di accoglienza e quello di provenienza). Valorizzare il ruolo delle diaspore può dare una svolta positiva nelle politiche di cooperazione con i paesi di origine ricordando comunque che gli immigrati, sia tramite le Associazioni di cui fanno parte sia individualmente, fanno già cooperazione attraverso le loro rimesse e con il trasferimento delle conoscenze ed esperienze acquisite nel paese di accoglienza.
Qual è l’esperienza che state facendo con ABREER rispetto a questo tema?
Qualche anno fa abbiamo avuto un’idea: creare possibilità di lavoro in Italia e nello stesso tempo opportunità per un eventuale rientro in patria. Tutto è nato nel 2010, con la crisi economica, molti di noi hanno perso il lavoro e non riuscivano a trovarne un altro. Allora ci siamo riuniti e su una cosa tutti eravamo d’accordo: dovevamo trovare una strada che potesse darci l’opportunità di reintegrarci nel mondo del lavoro in Italia e, allo stesso tempo, prepararci per poter tornare nel nostro paese di origine con un progetto professionale e di vita. Veniamo da un paese dove l’agricoltura è l’attività economica principale di più dell’80% della popolazione. Abbiamo quindi deciso di formarci in agricoltura sostenibile e nel 2014, grazie ad un finanziamento della Provincia di Reggio Emilia attraverso il Fondo Sociale Europeo, abbiamo organizzato “AgrAfrica“ un corso di formazione in tecniche e modelli di agricoltura biologica e biodinamica al quale hanno partecipato oltre 22 persone. In seguito con la collaborazione del Comune di Reggio Emilia e diverse altre realtà del territorio abbiamo creato un orto nel Parco del Mauriziano dove oggi ABREER produce a chilometro zero e promuove percorsi di formazione per i migranti sull’agricoltura biologica e biodinamica. Stiamo, inoltre, lavorando per portare le attività anche in Burkina Faso. Con Fondazioni For Africa Burkina Faso nel 2016 abbiamo avviato un secondo corso, “AgrAfrica2”, che ha coinvolto 20 cittadini, la maggior parte giovani sotto i 40 anni e 4 donne, originari del Burkina Faso e oggi residenti in provincia di Reggio Emilia.
Oggi in Europa e in Italia si parla molto di Africa, con riferimento alle massicce migrazioni, ma anche come possibile nuova frontiera per gli investimenti delle imprese. Cosa pensi di questi due fenomeni?
Molti dei migranti che arrivano sulle coste italiane provengono dal continente africano come me. In tanti perdono la vita in questo disperato viaggio e altrettanti, grazie ad un colpo di fortuna, arrivano in Italia o in altri paesi europei e a questa situazione né l’Italia né l’Europa possono rimanere indifferenti. Questi arrivi stanno cambiando le modalità di gestione del fenomeno migratorio in Italia, perché ci sono sempre più nuovi cittadini con bisogni ed esigenze diverse: dalla ricerca di protezione a quella di trovare migliori condizioni di vita, tutti con la speranza di trovare soluzioni in questo Paese. Purtroppo, a mio avviso, gli sbarchi non si possono controllare e sono anche difficili da prevenire perché le ragioni di ciascun viaggio sono diverse. Certo bisognerebbe prima di tutto favorire la semplificazione dei processi di richiesta di visto d’ingresso in Italia e in Europa per motivi di lavoro, questo eviterebbe molte delle stragi che avvengono nel Mar Mediterraneo. Si potrebbe, inoltre, con una politica di cooperazione “onesta” tra l’Africa e l’Europa, provare a gestire il fenomeno. Una cooperazione “onesta” significa anche la valorizzazione delle competenze degli immigrati già presenti in Europa, coinvolgendoli nei vari percorsi e progetti di sviluppo con l’Africa, ma significa anche, e qui mi collego alla seconda domanda, cominciare a guardare all’Africa come un continente dove andare a fare business e affari, dove fare investimenti seri. L’obiettivo deve essere quello di creare posti di lavoro sviluppando programmi di crescita e di occupazione giovanile, incoraggiando così le persone a rimanere piuttosto che partire. Io penso che un imprenditore europeo che deciderà di investire in Africa lo dovrà fare con le stesse intenzioni che avrebbe in Giappone o in America: si deve pensare all’Africa come un continente dove poter andare a fare affari, a fare impresa e non solo a portare aiuto facendo opere di beneficenza e carità. Non si deve, d’altra parte, andare in Africa con l’obiettivo di fare profitti solo per sé, rischiando così di trasformare l’investimento in una sistema di sfruttamento.
Articolo comparso sul Giornale di Mani Tese di dicembre 2016