La scuola che riparte
A settembre la scuola ricomincerà, ma quest’anno sarà necessario lavorare insieme ad insegnanti e studenti per costruire insieme un nuovo modello di scuola.
La scuola ripartirà a settembre. Lo sappiamo tutti, ma non è mai stata una notizia così attesa. Non sarà il solito primo giorno di scuola, sempre emozionante e uguale a sé stesso, come un rito che nel ripetersi ogni anno scandisce il tempo delle famiglie e dei docenti.
Quest’anno sarà diverso. Anche questo lo sappiamo tutti, perché la scuola non ci è mai mancata così tanto. Lo sentiranno i ragazzi, dopo tanto tempo a casa, alcuni di loro in un nuovo istituto senza aver potuto nemmeno salutare i vecchi compagni. Lo sentiranno gli insegnanti, chiamati ad una diversa normalità che stravolgerà la loro professione nel quotidiano anche più di quanto non sia successo nei giorni di lockdown. Lo sentiranno le famiglie, come genitori ma anche come cittadini che vedranno finalmente restituito ai propri figli il diritto più importante, quello di studiare, e a sé stessi quello di poter dedicare uno spazio esclusivo al lavoro.
Finisce qui tutto quello che sappiamo. L’appuntamento è noto ma non conosciamo i dettagli e non abbiamo veramente idea di cosa dovremo aspettarci.
Di certo, la scuola che riparte avrà un sacco di problemi da risolvere.
Prima di tutto dovrà pensare a come colmare la distanza tra chi è riuscito a rimanere agganciato con la Didattica a Distanza e chi invece è rimasto indietro, perché non ha una connessione stabile o non possiede un computer in casa (secondo i dati ISTAT 2019 stiamo parlando del 23,9% delle famiglie italiane, una su quattro) o perché non ha una situazione familiare che permette un’adeguata concentrazione. Se i dati sull’abbandono scolastico erano già preoccupanti prima, con l’Italia che faticava a smuoversi dagli ultimi posti in Europa, resta da capire quanto inciderà lo stop forzato sul numero di studenti che appenderanno i libri al chiodo e non si presenteranno all’appuntamento di Settembre, e quanto farà crescere i dati sulla dispersione scolastica che precede l’abbandono vero e proprio.
Secondo un’indagine che abbiamo condotto su oltre 1.700 studenti tra i 9 e i 13 anni in periodo appena per-COVID nell’ambito del progetto Piccoli che Valgono, finanziato dall’Impresa Sociale Con i Bambini, il disagio scolastico ha un numero magico ricorrente, una costante fissa che emerge analizzando quasi tutte le dimensioni del fenomeno. Il 15%. L’abbiamo chiamata la regola del settimo nano, uno su sette che mostra, fin dalle elementari, quei segni di insofferenza e malessere che porteranno all’abbandono. Consideravamo molto grave pensare che nel nostro Paese un bambino su sette non è nelle condizioni di godere appieno del diritto allo studio: ora lo scenario minaccia di essere drasticamente peggiore.
La scuola che riparte avrà anche moltissimi problemi strutturali. Non dovrà pensare solo al cosa e al come, ma anche al dove. Molte strutture scolastiche, già bisognose di investimenti, ora sarebbero totalmente inadeguate a garantire un minimo di distanziamento fisico, dalle classi, agli spazi comuni, alle sale mensa (quando ci sono).
Molti si chiedono se non sia venuto il momento di superare il sistema classe, inteso come uno spazio fisico fisso abitato da un gruppo di bambini fisso intorno a cui girano gli insegnanti e viene impostata la didattica, a favore di un modello più diffuso, fruibile a piccoli gruppi e in spazi diversi, magari in parte gestiti fuori dalla scuola, in collaborazione con le organizzazioni di terzo settore.
Sarebbe una vera e propria rivoluzione, ma forse è venuto davvero il tempo di fare scelte coraggiose. Il mondo dell’istruzione è fin troppo abituato alle riforme che non riformano, come si può scoprire facilmente confrontando i nostri dati con quelli degli altri paesi occidentali. Il rapporto dell’OCSE del 2019 Education at Glance è molto chiaro su alcuni punti. L’Italia spende per l’istruzione il 3,6% del suo PIL, rispetto al 5% della media dei paesi OCSE, è al 18° posto dopo l’Irlanda per spesa media per studente (8.200€ all’anno) ed è al primo posto per l’anzianità del corpo docente. Basterebbe questo per dire che cambiare oggi significa decidere di puntare davvero su istruzione e cultura, a maggior ragione in un momento di crisi come questo.
Noi, come molte altre organizzazioni del terzo settore, ci siamo.
Pensiamo che sia ancora più importante oggi parlare di cittadinanza globale, di diritto al cibo, di scelte economiche consapevoli, di clima, di migrazioni.
Siamo convinti che sia fondamentale essere presenti, sia fisicamente che sul web, per lavorare insieme ad insegnanti e studenti e costruire insieme un nuovo modello di scuola, più creativo e partecipato.
Sappiamo bene, come ci ha ricordato Franco Lorenzoni nel ciclo di incontri on line “Il bello di restare” che abbiamo organizzato per riflettere su questo tempo sospeso, che nella lotta alla dispersione la scuola da sola non ce la può fare.
Mani Tese c’è, con i suoi strumenti, metodi, spazi e capacità progettuale, ma non in sostituzione di un necessario intervento pubblico. Non abbiamo mai lavorato “al posto di” nei paesi del Sud del Mondo dove facciamo cooperazione da cinquant’anni, e non inizieremo a farlo adesso in Italia. Dovrà essere un “insieme a”.