Industria sostenibile
Politiche pubbliche “responsabili”, ricerca e innovazione, consumatori informati e alleanze transnazionali fra organizzazioni di lavoratori tra i “cardini” per un sistema produttivo virtuoso.
di MASSIMILIANO LEPRATTI, Consigliere di Economia e sostenibilità (EStà)
POLITICHE PUBBLICHE “RESPONSABILI”, RICERCA E INNOVAZIONE, CONSUMATORI INFORMATI E ALLEANZE TRANSNAZIONALI FRA ORGANIZZAZIONI DI LAVORATORI TRA I “CARDINI” PER UN SISTEMA PRODUTTIVO VIRTUOSO.
Il sistema dell’economia industriale mondiale è la principale origine di due dei maggiori problemi vissuti a livello mondiale a partire dal secondo dopoguerra: la crescita delle diseguaglianze globali e l’impatto negativo sui sistemi ecologici. Sul piano delle diseguaglianze occorre osservare che il settore dell’industria e quello dei servizi connessi consentono di ottenere un grado di ricchezza aggiuntiva (valore aggiunto) per lavoratore impiegato assai più elevato di quanto avvenga nel settore agricolo e nel settore dei servizi alle famiglie. La produzione del valore aggiunto, in particolare a partire dagli anni ‘70 del secolo passato, è stata organizzata attraverso una divisione del lavoro che ha lasciato i pezzi di catena del valore a bassa remunerazione nel Sud globale, concentrando le altre nel Nord. Il risultato è stato il differenziarsi dei redditi, che per un abitante del Sud globale in questo decennio è in media di circa 5.000 dollari, mentre quello di un abitante del Nord globale supera i 40.000: una forbice che cresce nel tempo e che oggi raggiunge un rapporto di 8 a 1 (nel 1975 era inferiore a 6 a 1).
Sul piano del rapporto con la natura il dato più rilevante è la crescita del livello di emissioni di CO2 equivalente causato dalla produzione economica nel suo complesso e in particolare da due settori strettamente connessi: il comparto energetico e quello industriale. L’industria ancora oggi si basa sull’uso di energia fossile e non solo nei paesi del Sud: la ricca Germania continua ad avere un grado preoccupante di dipendenza dal carbone. Di conseguenza l’85% dell’emissione di CO2 è oggi legato alla fase della produzione dei beni, mentre solo il 15% è imputabile al consumo delle famiglie. Il risultato complessivo è la crescita rapida dei gas a effetto serra. Nel 1960 l’atmosfera terrestre ne conteneva in media circa 300 parti per milione, nel 2019 siamo arrivati a 414 (a 450 il riscaldamento globale sarà irreversibile e a quel punto nessuno sa cosa potrà accadere alla specie umana).
Scrivere un futuro diverso
Per orientare l’economia industriale dei prossimi anni vi possono essere diverse direzioni e modelli entro cui collocarla. Tra questi ne abbiamo scelto uno in particolare che permette di affrontare il tema nella stessa ottica interdisciplinare e globale che ha orientato la definizione dell’Agenda 2030 dell’Onu e dei relativi SDGs. Lo studioso rumeno Georgescu Roegen, un precursore fin dal 1970 di molti tra i ragionamenti più recenti, è il pensatore che ha coniato il concetto di “bioeconomia”. Secondo l’allievo dell’illustre Schumpeter, il processo produttivo deve minimizzare l’entropia del sistema e per farlo deve tendere ad uno stato di assenza di crescita. Ma il pensiero dello studioso rumeno si presta a un’interpretazione che non esclude la crescita economica, a patto che questa si manifesti in un aumento della quantità di lavoro equamente pagato presente in un manufatto o in un servizio e in una contemporanea diminuzione più che proporzionale della quantità di natura (materie prime ed energia dell’intero processo) ivi utilizzata irreversibilmente. Un principio che, applicato all’industria (dalla fascia dell’alta tecnologia al settore della raccolta porta a porta e del riutilizzo e riciclaggio dei rifiuti), permette potenzialmente di avere più occupati, più ricchezza e minore impatto negativo sull’ambiente.
L’importanza della ricerca
A un livello di maggior dettaglio si possono presentare alcuni ragionamenti riferibili ai singoli settori produttivi, distinguendo tra industria ad alto impatto tecnologico (settori legati alla produzione di macchinari), e industria ad alto impiego di manodopera poco specializzata (settori legati a molti beni di consumo per le famiglie). una politica pubblica orientata a sostenere la ricerca e l’innovazione tecnologica, può fornire strumenti e prodotti affinché anche un altro settore strategico come l’agricoltura si trasformi, potendo usare prodotti industriali differenti (ad es. motori a biometano anziché diesel, teli di pacciamatura in bioplastica compostabile, compost di qualità prodotto da impianti efficienti di trattamento dei rifiuti umidi…). In questo modo l’agricoltura migliorerebbe nettamente il suo impatto ambientale e, accompagnando queste scelte con la rinuncia ai prodotti chimici, verrebbe spinta a orientarsi verso prodotti a maggior valore aggiunto economico e con maggiore impiego di occupati. Un forte ripensamento delle modalità e delle quantità relative agli allevamenti completerebbe il necessario ripensamento del settore. Laddove si investe maggiormente in ricerca e sviluppo di brevetti legati al miglioramento degli impatti ambientali, si produce maggiore ricchezza, distribuita attraverso contratti di lavoro più duraturi e meglio pagati e a minor contenuto di CO2. In questi casi lo Stato non è neutro, ma tende a governare i processi sostenendo la ricerca, sanzionando in alcuni casi (Svezia) i comportamenti inquinanti grazie a una “Carbon Tax” seria, favorendo lo sviluppo di settori innovativi attraverso norme che selezionino gli sviluppi più virtuosi.
Un’economia rispettosa dei diritti
Passando a un altro settore, la manifattura a basso contenuto di capitale e ad alto impiego di lavoro (in gran parte poco qualificato), il discorso specifico muta e al tema ecologico si aggiunge il tema sociale. Un esempio per tutti è quello riferibile al settore tessile. Qui la ricerca globale di manodopera sfruttabile da parte delle imprese ha come conseguenza salari molto bassi e condizioni di lavoro durissime, accompagnati dal disinteresse per i costi ambientali legati alla filiera produttiva (si pensi che per le operazioni di tintura dei vestiti ogni anno si impiega una quantità di acqua pari a quella di un mare di medie dimensioni). In questo e in altri settori simili l’azione congiunta di consumatori informati sulle dinamiche globali e di alleanze sindacali transnazionali è un fattore fondamentale per un’economia industriale che in futuro non solo permetta la sopravvivenza ecologica della specie umana, ma veda al suo interno quel livello di distribuzione del reddito e di accesso ai diritti fondamentali senza i quali diviene impossibile ogni reale forma di coesione sociale.
Articolo pubblicato sul numero di Dicembre 2019 del Giornale di Mani Tese.