IL DIRITTO AL FUTURO DI TARANTO
Riscattare le sorti dell’Ilva (e con essa il futuro dei Tarantini) significherebbe imprimere una svolta esemplare al modo di fare impresa in Italia.
«Fa ribollire come pentola il gorgo, fa del mare come un vaso di ungenti. Nessuno sulla terra è pari a lui, fatto per non aver paura. Lo teme ogni essere più altero, egli è il re su tutte le bestie più superbe».
(Giobbe, Antico Testamento)
Trovarsi davanti all’Ilva di Taranto è come dar corpo al Leviatano, il terribile mostro marino dalla leggendaria forza presentato nell’Antico Testamento.
Eccolo lì, il corpo dell’Acciaio italiano: grande più del doppio di Taranto, asciuga litri e litri d’acqua dal mare. I primi tratti di riconoscimento, le sue ciminiere, svettano sulla città come le guglie del Duomo su Milano. La più alta si chiama E312 e canalizza i fumi di scarto dell’Industria, disperdendo contemporaneamente diossina dai filtri. Ed ecco là dietro le cokerie: hanno il compito di trasformare il carbon fossile in quel materiale (coke) con cui verrà miscelato in un secondo momento il ferro. Perché (per fare un ripasso) l’acciaio è una lega composta da ferro e carbonio.
Al centro di questa cattedrale d’acciaio troviamo l’altoforno, il cuore pulsante dello stabilimento, là dove le temperature salgono ai 1.500 gradi per produrre le bramme, i semilavorati d’acciaio.
Questa parte della filiera, la produzione “a caldo”, è il tallone d’Achille della Fabbrica intera: è il suo nucleo fondante ma anche quello più inquinante e messo più in discussione. Come il Leviatano, anche l’Ilva è fortemente dipendente dall’acqua del mare, che permette il raffreddamento dei materiali incandescenti: l’acqua prelevata viene irrorata sulla ghisa, generando così enormi nuvole di vapori velenosi, che si diffondono nell’ambiente circostante o che vengono ributtati nel mar piccolo con le acque reflue. Accanto all’Ilva l’aria si fa pesante: un olezzo di gas di scarico intoppa le narici, un odore mefitico intasa la gola. La strada si tinge d’ocra, polvere arancione si deposita sulle macchine, sui balconi e sui vestiti.
Avvicinandosi al suo corpo leggendario, “l’Industria” (come la chiamano i Tarantini) ci obbliga ad aprire gli occhi davanti al peso dei nostri consumi e alle responsabilità che ne derivano.
Eh sì, perché è da questa culla di acciaio che nascono le carrozzerie scintillanti delle nostre macchine e i cestelli instancabili delle nostre lavatrici.
Accostandosi al Gigante d’acciaio ci si misura con l’impatto delle nostre comodità: i loro effetti sull’ambiente e sulle comunità che lo abitano. Siamo tutti abituati a usare degli utensili in acciaio e a maneggiarli nelle nostre cucine; meno, a risalire la filiera e avere sotto gli occhi le industrie da cui essi derivano. Questo accade anche perché in moltissimi casi gli impianti siderurgici si trovano fuori dall’Italia, in Paesi lontani dal nostro raggio visivo. L’atto di “non vedere” ci permette di essere omertosi. Qui, al contrario, non si parla di cittadini brasiliani o cinesi (non che questo sia eticamente differente) bensì di una vicina città europea, che per via dell’acciaieria che ha ospitato, ha condannato i suoi abitanti a subire gli effetti più nefasti della produzione. L’acciaio è un materiale pesante, ma ancora più greve è il peso delle responsabilità che ne derivano.
È per questo motivo che il dibattito sulla sorte di questa grande industria, costruita negli anni sessanta del Novecento, infiamma gli animi. L’importanza strategica accordata a questo stabilimento dimostra quanto tutti i nostri consumi siano ancora dipendenti dall’acciaio. Riscattare le sorti dell’Ilva (e con essa il futuro dei Tarantini, spesso al contempo operai e cittadini) significherebbe allora imprimere una svolta esemplare al modo di fare impresa in Italia.
La scelta obsoleta è quella di continuare a vedere il lavoro e la salute come due opzioni non compatibili tra loro, considerando sempre e solo la produzione nel “qui e ora” e dando per scontata la nostra dipendenza dall’acciaio. Questa strada vetusta è quella del business as usual e viene portata avanti per quanto fallimentare possa dimostrarsi anche in termini di profitto (1). La strada nuova e coraggiosa da tentare, sia come cittadini che come consumatori, sarebbe invece quella di aggiornare il modo di fare impresa, in modo che sia sostenibile nella sua dimensione sociale, ambientale ed economica. Questo significherebbe, per esempio, prendere coscienza della “crisi mondiale della siderurgia” determinata da un eccesso di produzione da parte dei Paesi emergenti e dal futuro esaurimento del minerale ferro (2). Significherebbe dar credito a équipe di esperti in grado di strutturare una nuova filiera per l’acciaio, sfruttando, per esempio, il suo alto potenziale di riciclo, che permette una netta riduzione dell’inquinamento (86% circa).
Abbiamo bisogno di una nuova rivoluzione copernicana, che ci permetta di sfidare il culto dell’acciaio e, conseguentemente, mettere in dubbio l’intoccabilità della sua cattedrale: l’ILVA.
Il filosofo Hobbes diceva che il Leviatano non è niente meno che il potere delle Stato, che ingloba in sé ogni singolo individuo. Egli sosteneva dovesse essere uno Stato assoluto per domare gli uomini, che altrimenti si sarebbero sbranati a vicenda. Avvicinarsi all’ILVA, quindi, non significa solo guardare in faccia la più grande acciaieria d’Europa ma anche confrontarsi con il corpo dello Stato, quello che (al contrario di Hobbes) professiamo essere democratico. Nonostante nel 2012 sei impianti dell’ILVA siano stati messi sotto sequestro dal Tribunale di Taranto, 12 Decreti “Salva Ilva” (dal 2015) hanno permesso che lo stabilimento continuasse a essere in uso. Ne risulta quindi che il “caso ILVA” non sia solo un caso strategico per l’economia del nostro Paese ma anche un caso esemplare di contraddizione tra due poteri dello STATO, quello della Magistratura (potere giudiziario) e quello del Governo (potere esecutivo). Occuparsi di questo caso di ingiustizia ambientale comporta quindi una riflessione sulla qualità della democrazia italiana.
Questa vicenda richiama tutti noi ad attivarci, come singoli cittadini, associazioni e partiti politici, per sollecitare le imprese e le istituzioni al rispetto di tutti i diritti fondamentali sanciti dalla nostra Costituzione, senza creare tra essi gerarchie artificiali: della serie, prima il lavoro, poi la salute, poi l’istruzione.
Tutti insieme si potrebbe dimostrare che il modo di fare impresa del futuro va nella stessa direzione del futuro dei bambini di Taranto. Loro, ignari di questa battaglia in corso, continuano a giocare nei campi di calcio di Tamburi e tra le pozzanghere della Città Vecchia, senza curarsi del pericolo costante che corrono: il loro gioco ci ricorda che il diritto alla salute e a un ambiente salubre sono propaggini della stessa battaglia.
Prima di “scendere in campo”, però, è necessario accorciare le distanze tra associazioni “ambientaliste” e sindacati. Le associazioni ambientaliste “pure” non esistono più: non difendono l’esistenza dei cavallucci marini del Mar Piccolo in sé e per sé, ma si occupano quotidianamente dell’ecosistema di Taranto e del suo impatto sulla vita dei cittadini di Taranto. D’altro canto, non esistono sindacati (con la coscienza pulita) che possano barattare la salute degli operai e dei loro figli con il loro stipendio. Dovremmo quindi iniziare a schierarci dalla stessa parte, l’unica declinabile al tempo futuro: quella della giustizia ambientale.
Note:
(1) https://www.ilfattoquotidiano.it/2015/01/30/ilva-in-insolvenza-3-miliardi-debiti-piano-ambientale-scontro-in-senato/1384251/
(2) Per approfondire l’argomento: B. Ruscio, Legami di Ferro, Narcissus self-publishing, 2015, p. 55-58.