Amico pubblico
Riscoprire l’intervento dello Stato a fianco della libera iniziativa privata significa rimettere al centro “la politica” e “le politiche” come strumenti fondamentali per le scelte di produzione e consumo.
di GIULIO MARCON, Portavoce Campagna Sbilanciamoci!
Dopo trent’anni di anatemi contro lo Stato, l’intervento, la spesa pubblica e il ruolo del pubblico torna a essere scoperto e posto al centro dell’azione economica. Fino a qualche tempo fa l’espressione “economia pubblica” non avrebbe avuto cittadinanza o sarebbe stata considerata un’idea stravagante. L’economia veniva associata quasi esclusivamente alla dimensione privata e consegnata al mercato come inevitabile destino. L’intervento pubblico doveva tenersi distante dall’economia e dal mercato, e lo Stato – per usare un’espressione dell’era reaganiana – veniva considerato come una sorta di essere mostruoso che dove- va essere “affamato” (starvingthebeast come dicevano i conservatori di allora) attraverso una serie di misure chiave: privatizzazioni, deregulation dei mercati, riduzione delle tasse e della spesa pubblica (che però sarebbe fatalmente aumentata, sotto forma di debito pubblico, a causa del taglio delle tasse).
Ipocrisia e privilegio
Dietro queste posizioni c’è stata e c’è ancora molta ipocrisia: la scaltra rimozione dei neoliberisti, che sanno bene come l’intervento pubblico sia necessario innanzitutto per coprire i fallimenti del mercato (come è avvenuto in questi anni per il salvataggio delle banche private con soldi pubblici); in secondo luogo, agli operatori privati sono necessari gli investimenti pubblici (Mariana Mazzucato ne Lo Stato innovatore ha ricordato come nell’i-phone una trentina delle funzioni utilizzate siano frutto di investimenti pubblici: internet, gps, siri, schermo a cristalli liquidi, ecc); infine, l’intervento pubblico è fondamentale per arginare le conseguenze negative di questo modello di sviluppo, a cominciare dalla povertà e dall’inquinamento. Le ricette economiche usate a partire dagli anni ’80 erano il frutto di assunti ideologici assai discutibili (come la tesi del trickledown: la ricchezza creata di cui beneficiano tutti) ed erano espressione di un modello neoliberista che ha avuto come conseguenze lo spostamento della ricchezza a favore dei profitti, delle rendite e delle classi di reddito più alte, la crescita delle diseguaglianze, il depauperamento di beni comuni come l’ambiente e le fonti energetiche.
Se quelle politiche sono state la panacea per i privilegiati, i rentiers, i ricchi e i super ricchi, non hanno funzionato per la gran parte della popolazione e per il pianeta, colpito duramente dai cambiamenti climatici e da uno sfruttamento irresponsabile delle sue risorse anche e soprattutto a causa di quel modello economico. Di fronte al fallimento del modello neoliberista e di una globalizzazione economica e finanziaria che spesso ha peggiorato le condizioni materiali di vita di gran parte delle popolazioni dei paesi più “sviluppati” (da qui la crescita di nazionalismi e populismi) e non ha sollevato dalla povertà la parte più derelitta del pianeta, con l’ovvia eccezione della Cina, ci si è interrogati sulla necessità di affidarsi nuovamente alle virtù del pubblico. Tutti i 17 SDGs (Sustainable Development Goals) delle Nazioni Unite hanno necessariamen- te bisogno di un’attiva manopubblica: nell’orientare produzioni e consumi, nel regolamentare il mercato, nel fare investi- menti (che i privati non fanno) nell’interesse collettivo, nel redistribuire la ricchezza, nel fronteggiare la povertà, nel garantire i servizi sociali, sanitari, educativi di base.
Un futuro di beni comuni
Il futuro è quindi nella riscoperta dell’intervento pubblico, dell’economia pubblica e dei beni comuni da affiancare al mercato e alla libera iniziativa privata dei cittadini che, come dice anche la nostra Costituzione, non deve essere in contrasto con l’utilità sociale e con l’interesse generale. Riscoprire l’economia pubblica significa rimettere al centro la politica, le politiche come strumenti fondamentali per le scelte delle produzioni e dei consumi che, fino a oggi, il modello economico neoliberista ha affidato al mercato, la cui efficienza – come ha dimostrato la crisi 2007-08 – è una leggenda.
Molti sono gli ambiti fondamentali in cui l’economia pubblica può avere un ruolo strategico per costruire un mondo e un’Italia capaci di futuro. Primo: abbiamo già ricordato che gli investimenti pubblici (soprattutto quelli in ricerca e innovazione) sono strategici per costruire un’economia del futuro fondata sulla sostenibilità e il benessere sociale. Il ritardo nella lotta ai cambiamenti climatici è anche dovuto all’insufficienza di questa strategia di indirizzo e regolazione dei mercati da parte dei governi. L’intervento pubblico è necessario per innovare produzioni e consumi, attraverso una politica industriale e fiscale incisiva. Secondo: senza intervento pubblico non ci sono redistribuzione della ricchezza e riduzione delle diseguaglianze. La speranza che la crescita della ricchezza avrebbe portato benefici per tutti (il trickle down, lo sgocciolamento verso il basso) si è rivelata illusoria: la crescita della ricchezza globale è andata a beneficio di ricchi, super ricchi e delle diseguaglianze economiche: senza la mano pubblica non c’è redistribuzione. Terzo: deve un po’ ritornare al passato e riprendere il percorso iniziato nel cosiddetto trentennio glorioso (1945-1975), quando si avviò in gran parte d’Europa un deciso processo di demercificazione di beni fondamentali per le persone (che oggi chiamiamo diritti): i servizi per la salute e l’educazione, l’assicurazione per la vecchiaia, gli infortuni, la malattia. Quelli che fino ad allora erano merci, prodotte e messe a disposizione dal mercato (assicurazioni e strutture private, come scuole e cliniche), furono poi erogate dallo Stato come servizi e interventi in risposta a di- ritti di cui i cittadini erano titolari. Riprendere questo percorso, oggi e in futuro, significa contrastare il ritorno del mercato negli ultimi 30 anni nel welfare e nei servizi pubblici e declinare in modo nuovo l’interesse generale della collettività, salvaguardando i beni comuni, che sono ambito ben più ampio e generale di ciò che giuridicamente può essere definito, come proprietà pubblica.
Fondamentale però, per un’economia pubblica del futuro, è il sostrato ideale: la riscoperta e un nuovo radicamento di valori comunitari, sociali, etici che si contrappongono inevitabilmente allo sfrenato individualismo economico, al cinismo opportunista, all’egoismo sociale che sono la base del modello economico degli ultimi quarant’anni. Per un’economia pubblica del futuro, serve una diversa idea di benessere personale e sociale: fondato non sull’accumulazione di merci che non servono e sull’inseguimento di consumi che creano dipendenza e alienazione, ma – soddisfatte le esigenze materiali – sulla realizzazione della propria personalità e della felicità comune.
Articolo pubblicato sul numero di Dicembre 2019 del Giornale di Mani Tese.