Una generazione che chiede futuro
I giovani senza ideologia e con molto pragmatismo sono i protagonisti di una battaglia che richiama con urgenza i governi al rispetto degli impegni assunti.
GLI ADULTI DI DOMANI CHIEDONO RISPOSTE AGLI ADULTI DI OGGI. SENZA IDEOLOGIA E CON MOLTO PRAGMATISMO, I GIOVANI SONO I NUOVI PROTAGONISTI DI UNA BATTAGLIA CHE RICHIAMA CON URGENZA I GOVERNI AL RISPETTO DEGLI IMPEGNI ASSUNTI.
“Ci siamo rotti i polmoni!”, gridano i ragazzi arrampicati sul monumento di Piazza Cairoli, a Milano. È il 15 marzo, il giorno del primo Sciopero Mondiale per il Clima, e solo a Milano sono almeno in centomila. Un venerdì, perché è questo il giorno in cui è iniziata la protesta dei Fridays for Future. È bastato un gesto tutto sommato semplice e apparentemente isolato per scatenare una reazione a catena di portata internazionale. Lo scorso agosto una ragazza svedese ha deciso che ne aveva abbastanza della retorica sui cambiamenti climatici. “Che senso ha andare a scuola se tanto i politici non ascoltano gli scienziati?”, ha pensato, e così ha cominciato a stare a casa da scuola, ogni venerdì, per protestare davanti al parlamento, da sola. Questa ragazza si chiama Greta Thunberg, ha 16 anni, e in pochi mesi è diventata così famosa da essere ricevuta dal Papa e proposta per il premio Nobel per la pace. La sua fotografia, sotto la pioggia con un impermeabile giallo, le trecce e un cartello, ha fatto il giro del mondo ed è presto diventata un’icona. Nel giro di qualche settimana Greta è stata imitata da migliaia di adolescenti in Europa e non solo, un’onda cresciuta rapidamente fino a interessare, il 15 marzo, più di duemila piazze. A quel punto il movimento di protesta è entrato nei radar delle redazioni di mezzo mondo, che hanno portato alla ribalta un tema fino a ieri considerato di scarsa importanza dalla maggior parte delle persone.
Le parole dirette di Greta
Ma cosa c’è di nuovo nelle proteste dei ragazzi sul clima? Per capirlo bisogna riascoltare con attenzione i tre minuti e mezzo del discorso fatto da Greta alla COP24 di Katowice in Polonia, di fronte ai leader mondiali che la ascoltavano tra indifferenza e finti sorrisi imbarazzati. Per prima cosa la richiesta è inattaccabile: semplice, inequivocabile, e supportata dal consenso pressoché unanime della comunità scientifica. È molto difficile dare torto a qualcuno che ti guarda dritto negli occhi e dice: “Avete interrogato i migliori scienziati del mondo, che sono d’accordo nell’affermare la necessità urgente di adottare misure drastiche per evitare che il riscaldamento globale provochi danni incontrollabili. Perché non state facendo niente?” I ragazzi chiedono di rispettare l’impegno di ridurre le emissioni di CO2 della metà entro il 2030 e di azzerarle entro il 2050, mentre secondo i dati del Climate Change Performance Index (CCPI) elaborato da Germanwatch, NewClimate Institute e Climate Action Network, nessuno tra i 56 Paesi responsabili del 90% delle emissioni globali risulta essere su una traiettoria compatibile con l’impegno di mantenere l’aumento della temperatura al di sotto dei 2°. Non c’è nulla di ideologico in questo. Semmai, e questo è un secondo punto di forza, la battaglia è sul piano generazionale.
Greta racconta una breve storiella: “Nel 2078 avrò 75 anni”, dice. “Se avrò dei figli festeggerò il mio compleanno con loro, e probabilmente mi chiederanno perché non avete fatto nulla quando c’era ancora tempo per agire”. E aggiunge: “Dite di amare i vostri figli più di ogni altra cosa e invece gli state rubando il futuro davanti ai loro occhi”. Il problema dei cambiamenti climatici va affrontato oggi per evitare che produca danni irreparabili tra 30 anni. Per la politica si tratta di un tempo molto lontano, ma i ragazzi che scendono in piazza saranno la prima generazione toccata direttamente dagli effetti del riscaldamento globale. Per loro non si tratta di un lontano problema globale ma di un tema che li riguarda in prima persona. Invece i governanti oggi al potere tra pochi decenni saranno già morti. In questa differenza di vedute si gioca il tema della giustizia intergenerazionale, che è uno dei pilastri della definizione di sostenibilità, nel suo: “…assicurare il soddisfacimento dei bisogni della generazione presente senza compromettere la possibilità delle generazioni future di realizzare i propri”. Abbiamo sempre guardato a questo concetto in senso astratto, mentre oggi per la prima volta assume contorni concreti. Cosa succederebbe se un tribunale decidesse di dare ragione a una richiesta di giustizia intergenerazionale, cioè se valesse il principio di violazione del diritto a vivere in un ambiente sano? Probabilmente cambierebbero molte cose sul piano economico e sociale. I nati dopo il 2000 si sentono saccheggiati del proprio futuro e sono persone in carne ed ossa che possono rivendicare fisicamente i propri diritti. Ma c’è ancora dell’altro.
Ambiente chiama giustizia
Prima di essere tra vecchi e giovani, la battaglia è tra (pochi) ricchi e (tanti) poveri. Greta a Katowice è stata molto chiara su questo punto: “La nostra civiltà viene sacrificata per il privilegio di un numero molto piccolo di persone che continuano ad aumentare la loro enorme ricchezza. Sono le sofferenze di molti che pagano per il lusso dei pochi”. La parabola dell’industria del carbone ne è una rappresentazione plastica. Con gli accordi di Parigi del 2015 sembrava che il suo tempo fosse finito, eppure a tre anni di distanza il combustibile fossile più inquinante in assoluto continua a essere estratto a beneficio di un pugno di società minerarie e a danno soprattutto dei più poveri, che sono i primi a subire gli effetti del degrado dell’ecosistema. Per i ragazzi di Fridays for Future, la cui sezione italiana si è da poco incontrata nella prima Assemblea Nazionale costituente, quella sul clima non è una battaglia ambientale, ma di equità sociale, di climate justice. Sanno che qualcuno sta guadagnando sulla loro pelle e non credono più alla retorica che vede tutti ugualmente responsabili dell’aumento della temperatura.
Giovani e donne: il nuovo volto della protesta
Infine c’è un ultimo aspetto che dà speranza al movimento globale degli studenti sul clima. I volti della protesta sono in larga parte femminili. Non solo Greta Thunberg in Svezia, ma anche Kyra Gantois in Belgio, Maia Brouwer in Olanda e moltissime altre ragazze scendono in piazza a favore di una cura diversa della “casa comune”. La storia dei movimenti ci insegna che quando sono le donne a prendere le redini di una contestazione la sua parabola diventa meno episodica, più costante e focalizzata sull’obiettivo. Greta conclude così il suo discorso alla COP24: “Non siamo venuti qui per pregarvi di prendervi cura di noi, ci avete ignorato in passato e ci ignorerete in futuro. Siamo venuti per farvi sapere che il cambiamento sta arrivando, che vi piaccia o no.” Non sono parole che esprimono speranza, ma determinazione e volontà di agire. La vera forza di un movimento che può davvero innescare un cambio di rotta.
Per approfondire:
SVILUPPO SOSTENIBILE: “OUR COMMON FUTURE”
Nel 1983, con una risoluzione dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, viene istituita la Commissione Mondiale per l’Ambiente e lo Sviluppo, presieduta dal norvegese Gro Harlem Brundtland. La commissione, nel 1987, pubblicò un rapporto dal titolo eloquente: “Our Common Future”, che delinea per la prima volta il concetto di sviluppo sostenibile e che, in un passaggio, ammonisce: “Lo sviluppo sostenibile non è uno stato fisso di armonia, ma piuttosto un processo di cambiamento” nel quale “lo sfruttamento delle risorse, la direzione degli investimenti, l’orientamento dello sviluppo tecnologico, e i cambiamenti istituzionali sono resi coerenti con le esigenze future e attuali. Non pretendiamo che il processo sia facile o diretto. Le scelte dolorose devono essere fatte. Quindi, in ultima analisi, lo Sviluppo sostenibile deve poggiare sulla volontà politica”.
La Conferenza delle Nazioni Unite su ambiente e sviluppo tenutasi a Rio de Janeiro nel 1992 ha consolidato nei suoi atti questo principio, posto a fondamento anche delle azioni in campo ambientale dell’Unione Europea.
Articolo pubblicato sul numero di Giugno 2019 del Giornale di Mani Tese.