AGRICOLTURA: NON SOLO CAPORALATO DIETRO LA FILIERA INIQUA
di FABIO CICONTE, co-fondatore di Terra!* IL QUADRO DI RELAZIONI NEGATIVE E AMBIGUE NELL’AGRICOLTURA ITALIANA È MOLTO AMPIO E ABBRACCIA PRODUTTORI E CONSUMATORI, INDUSTRIA E GRANDE DISTRIBUZIONE. LE DENUNCE DELLA CAMPAGNA #FILIERASPORCA Anche quest’anno le telecamere hanno riversato nelle case degli Italiani le crude immagini girate sui campi del Mezzogiorno. Qui, migliaia di braccianti africani […]
di FABIO CICONTE, co-fondatore di Terra!*
IL QUADRO DI RELAZIONI NEGATIVE E AMBIGUE NELL’AGRICOLTURA ITALIANA È MOLTO AMPIO E ABBRACCIA PRODUTTORI E CONSUMATORI, INDUSTRIA E GRANDE DISTRIBUZIONE. LE DENUNCE DELLA CAMPAGNA #FILIERASPORCA
Anche quest’anno le telecamere hanno riversato nelle case degli Italiani le crude immagini girate sui campi del Mezzogiorno. Qui, migliaia di braccianti africani lavorano a cottimo nella raccolta dei pomodori o delle arance, organizzati in squadre dai cosiddetti caporali e ridotti a dormire in baracche di lamiera lontano dai centri abitati. Nonostante lo scorso ottobre sia finalmente stata approvata la legge sul caporalato, tutto questo potrebbe non bastare a eliminare lo sfruttamento dall’agricoltura italiana.
L’approvazione della legge è senz’altro una buona notizia perché riconosce un fenomeno di dimensioni troppo estese per poter essere ignorato. Modifica in maniera sostanziale l’articolo 603 bis del codice penale (intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro) e, oltre a riformulare il reato di caporalato, allarga le maglie della responsabilità al datore di lavoro che “sottopone i lavoratori a condizioni di sfruttamento approfittando del loro stato di bisogno”. Riconosce cioè che non deve esserci per forza un “caporale” o un’organizzazione criminale perché un bracciante sia sfruttato.
Una legge che però offre risposte insufficienti sulla pratica dell’intermediazione lecita tra domanda e offerta che, non essendo garantita dallo stato, continuerà a essere portata avanti dal “caporale” fino a quando non sarà scoperto.
Ma è soprattutto una legge con un approccio di carattere repressivo, intervenendo quando il fatto è avvenuto e non agendo sulle cause del fenomeno.
Lo sfruttamento del lavoro nei campi è infatti figlio di una serie di concause, difficili da mettere insieme e impossibili da affrontare con un approccio meramente repressivo. Il quadro di relazioni che producono effetti negativi è molto ampio e abbraccia produttori e consumatori, industria e grande distribuzione.
I nodi della filiera
Da queste premesse, due anni fa è partita la campagna #FilieraSporca, promossa dalle associazioni Terra! e daSud con l’obiettivo di seguire a ritroso il percorso che collega il cibo che arriva sulle nostre tavole ai lavoratori agricoli, migranti e non, vittime di un sistema iniquo e intollerabile.
#FilieraSporca è una campagna di pressione pubblica e sensibilizzazione dei cittadini, che abbina il lavoro di indagine sul campo a raccomandazioni politiche tese a riformare le opacità del sistema agroalimentare italiano.
Nei rapporti di ricerca prodotti in questi anni è stato possibile esaminare a fondo la filiera agrumicola e quella del pomodoro da industria. Da tutte le inchieste sul campo è emerso un sistema in crisi profonda, vittima di numerose disfunzioni ad ogni livello. A meno di interventi strutturali, la progressiva industrializzazione dell’agricoltura, la concentrazione delle sementi in mano a poche imprese multinazionali e il controllo della distribuzione in mano a pochi soggetti porteranno alla progressiva trasformazione del cibo in una commodity, una merce standardizzata che perde peculiarità e qualità tipiche del luogo di produzione. Il pomodoro italiano, ad esempio, potrebbe presto rivelarsi tale e quale a quello coltivato in altre parti del mondo, dalla California alla Spagna, dalla Turchia alla Cina.
E questo è un rischio per l’intero comparto agricolo perché non esiste un indirizzo di filiera, ma singoli attori che si muovono sulla base di strategie individuali. Un quadro in cui le regole sono spesso disattese, i contratti stipulati prima della raccolta si trasformano in carta straccia durante il picco della stagione e in cui la presenza di una pletora di intermediari dagli interessi difformi rappresenta un pesante intralcio al corretto funzionamento del sistema.
L’azzardo della GDO
La diffidenza tra imprenditori agricoli e industria di trasformazione riduce il potere contrattuale dei due soggetti nei confronti del terzo grande anello della catena: la Grande Distribuzione Organizzata (GDO), che di fatto ha il controllo quasi totale della filiera. Questo dominio si esprime tramite politiche aggressive come il “sottocosto”. Per offrire al consumatore prodotti sempre più a basso prezzo, la GDO impone all’industria – che si rivale poi sul produttore e a cascata sul bracciante – prezzi di acquisto spesso al limite della sostenibilità. L’unico modo per evitare i contratti capestro, per l’industria, è diventare fornitrice di prodotti a marchio del distributore. Un comparto, quello della “private label”, che in alcuni Paesi europei vale il 50% del mercato agroalimentare ed è in forte crescita anche in Italia, con punte del 25-30%.
Se per molti consumatori tutto ciò può apparire rassicurante, in realtà è un processo che mette in modo meccanismi di standardizzazione e riduzione della biodiversità del cibo, sempre più stretto nella “trappola della commodity” che ha come risultato più evidente la perdita di importanza delle caratteristiche organolettiche del cibo, dei metodi produttivi e degli standard lavorativi. L’unica variabile su cui si gioca la partita è il prezzo.
In questa logica non sorprende che tra i gruppi della grande distribuzione le aste on line al doppio ribasso si stiano diffondendo come pratica di acquisto di diverse varietà merceologiche. Caffè, olio, pomodoro, legumi e conserve di verdura sono soggette a questo meccanismo: viene convocata per e-mail una prima asta, in cui la GDO richiede ai fornitori un’offerta di prezzo per una certa commessa (ad esempio un tot di barattoli di passata e/o latte di pelati). Raccolte le proposte, lo stesso committente convoca una seconda asta on-line, ancora al ribasso, la cui base di partenza è l’offerta più bassa. Questo meccanismo, che somiglia in tutto e per tutto al gioco d’azzardo, pregiudica fortemente il funzionamento della filiera, sia per la rapidità con cui si svolge sia perché gli industriali vendono spesso allo scoperto un prodotto che ancora non hanno acquistato dal produttore.
La campagna #FilieraSporca ha denunciato questa pratica come insostenibile, e pesantemente lesiva del funzionamento complessivo del comparto. Per questo motivo, chiede alle aziende di abbandonarla e al governo di vietarla per legge.
Il valore della trasparenza
Altre misure, volte a riequilibrare pesi e contrappesi nel settore agroalimentare, tentano di rafforzare i soggetti più deboli ed eliminare le disfunzioni attuali. Una riforma delle organizzazioni dei produttori, ad esempio, potrebbe aiutare questi ultimi a cooperare nella contrattazione con l’industria. Per offrire ai consumatori informazioni che vadano oltre la mera indicazione del prezzo, infine, è necessaria una legge sulla trasparenza fondata sull’etichetta narrante, alla cui base vi è l’idea che una conoscenza più accurata della provenienza del cibo possa garantire una scelta più consapevole.
*Articolo comparso sul Giornale di Mani Tese di maggio 2017