GIORNATA MONDIALE PER L’ALIMENTAZIONE: LE PAROLE CHIAVE E GLI SCENARI POSSIBILI
A cura di Giosuè De Salvo, responsabile advocacy e campagne di Mani Tese Oggi è il 16 ottobre, Giornata mondiale per l’alimentazione. Lo slogan scelto dalla FAO è “Il clima sta cambiando. Il cibo e l’agricoltura anche”. Secondo la nota ufficiale dell’organizzazione guidata da Jose Graziano da Silva, per dare da mangiare ai 9,6 miliardi […]
A cura di Giosuè De Salvo, responsabile advocacy e campagne di Mani Tese
Oggi è il 16 ottobre, Giornata mondiale per l’alimentazione. Lo slogan scelto dalla FAO è “Il clima sta cambiando. Il cibo e l’agricoltura anche”. Secondo la nota ufficiale dell’organizzazione guidata da Jose Graziano da Silva, per dare da mangiare ai 9,6 miliardi di abitanti della Terra attesi per il 2050, “i sistemi agricoli e alimentari dovranno adattarsi agli effetti negativi del cambiamento climatico e diventare più resistenti, più produttivi e più sostenibili”.
Coltivare in modo sostenibile significa adottare pratiche che fanno produrre di più con meno, utilizzando le risorse naturali con saggezza. Significa ridurre le perdite di cibo prima del prodotto finale o della fase di vendita al dettaglio attraverso una serie di iniziative tra cui il miglioramento dei raccolti, dello stoccaggio, dell’imballaggio, del trasporto, ed anche del contesto istituzionale e giuridico.
Ma tutto ciò sarà sufficiente? Secondo noi di Mani Tese sì ma ad una condizione: che ci si lasci l’agricoltura industriale alle spalle e si pianifichi ora e subito la transizione verso sistemi agro-ecologici diversificati.
IL BISOGNO DI UN CAMBIAMENTO SISTEMICO
I sistemi alimentari che abbiamo ereditato dal 21° secolo rappresentano una delle più grandi conquiste della civiltà. Nel corso degli ultimi duecento anni gli enormi passi avanti nella produttività dei raccolti, nella trasformazione delle materie prime e nelle capacità distributive hanno generato abbondanza di cibo e diete variate per tutti coloro che hanno potuto permettersele. Notevoli sono stati anche i progressi sul fronte della sicurezza degli alimenti se si considera che a inizio ottocento l’avvelenamento da cibo e la contaminazione delle acque erano tra le prime cause di morte, mentre queste patologie sono state sradicate nei paesi ricchi e sono via via sempre più sotto controllo nei paesi a medio e basso reddito.
A fronte di questi indubbi risultati positivi, ci sono però una serie di evidenze negative che conducono a pensare che le fondamenta stesse su cui poggiano gli attuali sistemi alimentari sono sempre più fragili.
Nonostante nelle ultime decadi si è infatti assistito a una progressiva discesa in termini percentuali della popolazione mondiale che soffre la fame, ci sono ancora 795 milioni di persone che non hanno cibo a sufficienza, 2 miliardi che sono afflitti da un deficit strutturale di micronutrienti e 1,9 miliardi di obesi o in sovrappeso (il famoso paradosso della fame). Le malattie croniche associate a diete non bilanciate sono aumentate così rapidamente che hanno preso il posto delle pandemie infettive (HIV, tubercolosi e malaria) come prima causa di mortalità.
E se si passa dallo scenario “salutistico” a quello ambientale, le cose vanno di male in peggio. Oggi i sistemi agro-alimentari convenzionali contribuiscono tra il 19 e il 29 per cento alle emissioni di gas serra generati dall’uomo. A monte della filiera agricola, il contributo maggiore, ovvero peggiore, arriva dalla produzione intensiva di pesticidi e fertilizzanti chimici derivati da petrolio. A valle, le emissioni sono riconducibili all’industria di trasformazione del cibo e alla grande distribuzione organizzata che, oltre ad abbondare nel packaging sintetico, trasferiscono senza sosta da un capo all’altro del mondo alimenti altamente raffinati e irrispettosi della stagionalità, per soddisfare i desideri creati ad arte nei consumatori che divorano più pubblicità che cultura. Al contempo si assiste al 70% dell’acqua dolce prelevata per l’irrigazione e l’allevamento intensivo, al 20% dei suoli degradati o desertificati dall’abuso di fosfati e nitrati, al 35% di perdita di agro-biodiversità tra le colture dipendenti dall’impollinazione.
Dal punto di vista della giustizia sociale, infine, gli attuali sistemi alimentari deludono gli stessi produttori di cibo. Molti piccoli agricoltori, specialmente donne, lottano strenuamente per elevarsi sopra il livello di sussistenza, da una parte, a causa dell’impossibilità di accedere al credito, alla formazione tecnica e ai mercati di prossimità, e dall’altra, per la volatilità dei prezzi o per i fardelli burocratici inadeguati alla loro dimensione. Come risultato finale abbiamo che il 50% dei quasi 800 milioni di affamati sono contadini e che, anche nei paesi ad alta concentrazione di reddito, per esempio in Europa e quindi in Italia, la stragrande maggioranza degli agricoltori di piccola scala vede assottigliarsi la prospettiva di ottenere un reddito dignitoso dal proprio lavoro.
COME LASCIARCI L’AGRICOLTURA INDUSTRIALE ALLE SPALLE
Secondo Olivier De Schutter, relatore delle Nazioni Unite per il diritto al cibo tra il 2008 e il 2014, “contrariamente a quanto si pensi, non è la mancanza di evidenze positive che impedisce un’alternativa ecologica agli attuali sistemi alimentari ma l’impossibilità di abbinare l’enorme potenziale che ha l’agro-ecologia nel rimediare ai danni dell’agricoltura industriale con le sue scarsissime probabilità di generare profitto per le imprese dell’agro-business”.
Molti dei problemi dei sistemi alimentari sono collegati in modo specifico all’agricoltura industriale: monoculture basate su fertilizzanti e pesticidi chimici e allevamenti intensivi che abusano di antibiotici e generano inquinamento del suolo, delle acque e dell’aria. Le prove sono schiaccianti (lo abbiamo letto sopra) e l’insostenibilità del modello è sempre più nota al grande pubblico. Ciò che manca è la consapevolezza del ruolo che può ricoprire l’agro-ecologia intesa non come scienza e pratica di nicchia ma come logica universale per riprogettare i sistemi agricoli e alimentari.
De Schutter ci lavora da molto tempo e già nel 2011 con il report “Agro-ecology and the right to food” aveva dimostrato, basandosi sulla letteratura scientifica fino ad allora disponibile, che l’agro-ecologia può raddoppiare la produzione di cibo in 10 anni, soprattutto dove l’acqua è più scarsa e coltivare la terra è più difficile.
Seguendo quella linea, lo scorso giugno è uscito un nuovo studio, secondo me cruciale e capace di farci fare un salto di qualità. Il suo titolo è “From Uniformity to Diversity – A paradigm shift from industrial agriculture to diversified agroecological system” ed è curato da iPES FOOD, un panel di esperti internazionali tra cui lo stesso De Schutter, Emile Frison, Johan Rockstrom e Hans Herren. Leggendo il documento si apprende che:
• le rese medie del biologico sono ormai equivalenti a quelle del convenzionale e 30% più alte in anni di siccità;
• le aziende agro-ecologiche di piccola scala sono da 2 a 4 volte più efficienti nell’utilizzo delle risorse rispetto alle aziende convenzionali di pari dimensioni;
• la diversificazione dell’agricoltura fa registrare mediamente il 15% in più di biodiversità in campo e il 30% in più di specie non addomesticate nelle fattorie biologiche;
• la biomassa generata da sistemi di pascolo diversificati è tra il 15 e il 79% più alta che nei pascoli monoculturali;
• la carne e il latte biologici forniscono circa il 50% in più di omega3 rispetto ai loro equivalenti convenzionali;
• i sistemi agro-ecologici stanno dimostrando un considerevole potenziale nel catturare carbonio a livello suolo e rimettere in salute i terreni degradati
Siamo dunque al punto in cui dire che l’agro-ecologia può migliorare i risultati dell’agricoltura industriale, significa sottostimare la situazione. Se poi si arriva ad affermare che non esiste un’alternativa al modello industriale, allora siamo al falso e tendenzioso.
Tuttavia, come insegna banalmente la cronaca politica quotidiana in Italia, in Gran Bretagna o negli Stati Uniti, i fatti da soli non bastano. Il modo in cui i sistemi alimentari sono oggi concepiti consente di far lucrare un numero limitato di attori, rinforzando la loro posizione dominante e quindi la loro capacità di definire le priorità delle politiche.
Per questa ragione gli squilibri di potere non possono più essere relegati a una nota a margine nelle discussioni su come riformare i “food systems”. Identificare con esattezza questi squilibri di potere e come essi blindano l’agricoltura industriale ha la stessa importanza di far conoscere i risultati positivi dell’agro-ecologia.
Pensate al modo in cui si definisce la sicurezza alimentare – “tutte le persone, in ogni momento, hanno accesso fisico, sociale ed economico ad alimenti sufficienti, sicuri e nutrienti che garantiscano le loro necessità e preferenze alimentari per condurre una vita attiva e sana”, senza chiedersi da dove arriva il cibo, come è stato prodotto e trasportato, chi ci ha guadagnato, chi ci ha perso – oppure a come si misura il successo o l’insuccesso di una pratica agricola – resa di una singola varietà e produttività per singolo lavoratore invece che: resa complessiva delle piante coltivate in combinazione tra loro, capacità di resilienza agli shock climatici, livello di biodiversità e quindi qualità nutrizionali, fornitura di servizi eco-sistemici dentro e fuori l’azienda agricola.
Pensate anche al modo in cui si prendono le decisioni. Al ruolo privilegiato che giocano i ministeri dell’agricoltura, i comitati e le lobby di settore rispetto ad altri portatori di interesse, a partire da coloro che si occupano di ambiente, salute e società, e al fatto che questa non-intersettorialità istituzionale limiti la possibilità di avere una visione più ampia dei problemi e quindi di definire le giuste priorità ed allocare i fondi pubblici sulle giuste politiche.
Tutto ciò consente alle soluzioni offerte dall’agricoltura industriale di rimanere al centro della scena e mette in ombra il cambiamento che nei fatti sta già avvenendo, anche all’interno della stessa industria del cibo: dalle nuove forme di cooperazione e creazione di sapere allo sviluppo di nuove relazioni commerciali che bypassano i circuiti di vendita convenzionali.
Se vogliamo che queste iniziative superino gli angusti confini della nicchia, dobbiamo mostrare il “re nudo” e quindi concentrarci sulla politica economica del cibo – chi decide? sulla base di quali informazioni? sotto quali influenze? – e cambiarne le regole, spostando gli incentivi pubblici, finanziari e non, da un orizzonte all’altro.
Non c’è un’unica via da seguire: la transizione verso sistemi alimentari sostenibili assumerà un caleidoscopio di forme. E ciò, se ci pensate, è abbastanza inevitabile oltreché virtuoso considerato che i passi per diversificare in senso agro-ecologico la produzione, la trasformazione e la distribuzione del cibo, sono gli stessi passi che servono per rendere le nostre società più eque, più democratiche e più giuste.