IL “MAL D’AFRICA” E LA VOCAZIONE DI PADRE DANIELE
Dalla rivista Credere, 23 agosto 2015 – ST. PAOLO EDIZIONI Era un giovane lombardo in carriera. Poi le esperienze di cooperazione gli hanno fatto scoprire i bisogni del mondo. Oggi è superiore dei Comboniani in Sud Sudan, il Paese lacerato dalla guerra civile dove 4 milioni di persone muoiono di fame Testo di Anna Pozzi Dal […]
Dalla rivista Credere, 23 agosto 2015 – ST. PAOLO EDIZIONI
Era un giovane lombardo in carriera. Poi le esperienze di cooperazione gli hanno fatto scoprire i bisogni del mondo. Oggi è superiore dei Comboniani in Sud Sudan, il Paese lacerato dalla guerra civile dove 4 milioni di persone muoiono di fame
Testo di Anna Pozzi
Dal Varesotto al Sud Sudan , passando per lo slum di Korogocho, in Kenya. La parabola missionaria di padre Daniele Moschetti è segnata da luoghi diversissimi tra di loro, ma con un denominatore comune: la sua attenzione – quasi attrazione – per i più poveri, emarginati, dimenticati, calpestati… Li aveva incontrati qui in Italia, quando ancora era un giovane “in carriera”, responsabile del centro fatturazioni a livello nazionale di una grossa ditta di Morazzone. Era fidanzato, all’epoca, padre Daniele, e il matrimonio sembrava una prospettiva non così lontana. Con la sua ragazza si erano avvicinati a Mani Tese e ne erano diventati animatori appassionati. «Un’esperienza che ha riempito la mia vita e che mi ha aperto ai problemi del mondo», ricorda. Un’esperienza che gli ha anche cambiato la vita. Che ha cominciato a interrogarlo, a provocarlo, persino a lacerarlo. Che lo ha spinto a riavvicinarsi alla fede, che aveva un po’ messo da parte, e a riscoprire «la religione non come mero precetto o tradizione, ma come qualcosa che ti tocca nel profondo, come riscoperta dei veri valori umani e cristiani, da interiorizzare e vivere».
Poi un’esperienza in Centrafrica, «un mese bellissimo, sentivo che sarei tornato in Africa», e l’incontro con alcuni testimoni, come padre Alex Zanotelli, di cui sarebbe diventato successivamente amico e compagno di viaggio. Andando a finire proprio a Korogocho. Il suo vero “battesimo dell’Africa” è stato qui, prima da scolastico, tra il 1992 e il 1996, e poi come responsabile della missione comboniana in quello che è uno degli slum più degradati del pianeta, dove padre Daniele ha vissuto dal 2001sino alla fine del 2008. «Un’esperienza che ha cambiato la mia visione della missione e che mi ha profondamente interrogato sulla necessità di dare risposte alle grandi questioni che oggi pongono le città in Africa. Questioni spesso devastanti. Certamente cruciali per il futuro del continente».
Oggi padre Daniele si racconta da Juba, dove è il provinciale dei missionari comboniani del Sud Sudan. Un Paese alla deriva, sprofondato nel vortice nefasto di una guerra civile, che ha un sapore ancora più amaro dei quarant’anni di conflitto per la liberazione dal Nord. Oggi è una guerra fratricida quella che uccide e affama la gente del Sud Sudan, una guerra fatta di violenze e atrocità come non si erano mai viste in passato e di vendette che rischiano di avvelenare il futuro.
«Due mesi fa – racconta – abbiamo dovuto lasciare per la seconda volta la missione di Leer, sia preti che suore. Sono venuti quelli dell’Onu, di notte, e hanno evacuato tutti gli stranieri. Lo scorso anno i missionari avevano voluto restare il più possibile vicino alla gente, finché non c’è stato più niente da fare. Sono dovuti scappare nel bush e per settimane non abbiamo più avuto notizie».
È così un po’ ovunque nei tre Stati maggiormente interessati dal conflitto: Upper Nile, Unity e Jongley. Due milioni e mezzo di sfollati e, secondo le Nazioni Unite, 4,5 milioni di persone che rischiano di morire di fame. Quasi metà della popolazione del Paese. E le piogge quest’anno sono in grave ritardo…
«È un vero disastro e forse non abbiamo ancora visto il peggio – dice padre Daniele -. Se le due fazioni in lotta, quella del presidente Salva Kir e quella del suo ex vice Riek Machar, non trovano un accordo non so dove andremo a finire».
I pochi pozzi di petrolio che continuano a funzionare sono quelli difesi con le unghie e con i denti in Upper Nile. Ma con un budget dello Stato che si regge per il 98% sui proventi del greggio, l’economia è completamente allo sfascio. Così come tutto il resto: infrastrutture, sanità, istruzione…
«Noi, come missionari, cerchiamo di resistere accanto alla gente e di continuare a lavorare soprattutto in campo educativo e sanitario. Non dobbiamo rinunciare a formare le persone e le loro coscienze, a stare soprattutto con i giovani e le donne, se vogliamo davvero dare un futuro a questo Paese».
IL SOGNO DI UN CENTRO
PER FAVORIRE LA PACE
Sino a non molto tempo sembrava solo un’utopia. Adesso sta prendendo sempre più la forma di un sogno che si realizza. È il Trauma Healing Centre, che sta sorgendo alla periferia di Juba, un centro di formazione umana e spirituale, di guarigione dei traumi e di peace building, per cui padre Daniele Moschetti si sta spendendo in prima persona. La prima pietra è stata posta lo scorso ottobre e oggi i lavori sono in fase avanzata, soprattutto grazie alla generosità della Conferenza episcopale italiana, che ha contribuito in maniera molto significativa. «Questa iniziativa – spiega il missionario – è stata promossa da tutti i religiosi e i missionari presenti nel Paese, appartenenti a ben 43 congregazioni. Un bel segno di unità in una terra che sembra sulla via della più devastante frammentazione. Ma occorre ancora l’aiuto di tanti amici e benefattori perché lo si porti a termine. Siamo a buon punto e molti, dalle Chiese locali alle ong internazionali, ci sollecitano per potervi organizzare sessioni di formazione. Tutti, un po’ alla volta, si stanno rendendo conto dell’importanza di lavorare con le persone, di promuovere l’incontro, il dialogo e la conoscenza reciproca per superare pregiudizi e diffidenze, condividere sofferenze e paure, ma anche per valorizzare le ricchezze culturali e le potenzialità di ciascuno».
Pace in Sud Sudan